Tempo addietro mi chiedevo come potesse, nel 2018, l’interesse di un tifoso di calcio coincidere con quello di una proprietà. Soprattutto in campionati ormai plastificati e miliardari come la Serie A. 

Non può coincidere. Credo che questa sia la semplice risposta. È dunque difficile – se non impossibile – pensare e desiderare strutture societarie di un tempo, che vedevano nel tifo una componente fondamentale e a esso si legavano condividendo gran parte del patrimonio tradizionale e culturale che sospinge il supporter a frequentare le gradinate e vivere la propria squadra come una vera liturgia.

Qualcuno mi ha chiesto cosa ne pensi della contestazione dei tifosi romanisti prima di Roma-Genoa. Beh, sono d’accordo. Lo dico senza troppi giri di parole. Anzi, sempre per essere sinceri, penso si sia aspettato anche troppo e che nel calderone del malcontento andassero/andrebbero gettate anche altre motivazioni. Ma sarò più specifico in avanti.

Durante la serata precedente al match, Roma viene tappezzata di striscioni contro il presidente Pallotta, seguiti da un comunicato che spiega il perché della protesta e annuncia dieci minuti di sciopero del tifo.

Partiamo da un presupposto: negli ultimi anni il rapporto tra presidenza e tifo organizzato non è stato mai totalmente sereno. Gli anni delle barriere, con la firma del documento redatto da Ministero dell’Interno e Osservatorio che metteva nero su bianco quella folle decisione e l’iniziale immobilismo della società (interpretati da qualcuno come silente complicità) penso abbiano giocato un ruolo fondamentale, forse ancor più delle coatte modifiche allo stemma ufficiale e delle tante offensive dichiarazioni rilasciate da Pallotta nei confronti dei tifosi. Quest’ultimo è uno snodo fondamentale di tutta la vicenda: difficilmente si sono volute capire le ragioni o le radici di chi segue la squadra sempre e comunque, a prescindere dai risultati. Mai si sono volute ascoltare le loro istanze quando hanno evidenziato il malcontento per la cancellazione dell’acronimo “ASR” dallo stemma (e potrei fare decine di esempi di top-club europei che prima di cambiare il proprio logo hanno interpellato la propria tifoseria con sondaggi e quesiti, Manchester City docet).

Che si utilizzi una società di Serie A come un’azienda, purtroppo, nessuno può evitarlo ed è anzi vitale per la sopravvivenza della stessa. È il calcio del ventunesimo secolo. 

Ma che si ignorino completamente coloro i quali spendono tempo, passione e soldi non è tollerabile e porta giocoforza a una frattura. Lo dimostrano tante società italiane ed europee che pur potendo contare su trofei e bilanci milionari cercando spesso di venire incontro ai propri assidui seguaci. Magari anche facendoli contenti con qualcosa che al club stesso costa poco: i biglietti a prezzi accessibili, l’utilizzo di vecchi loghi, la presa di posizione al loro fianco nei momenti critici come possono essere campagne denigratorie che sovente piovono con modus operandi discutibili addosso al mondo delle curve.

Lo ha mai fatto la Roma in questi anni? No. La risposta – per buona pace di tutti – è questa. E sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma non solo prendendo ad esempio frasi e frasette buttate là tanto per smorzare i circoscritti focolai di malumore che di tanto in tanto si sono levati, ma con azioni vere e proprie. 

Possiamo dire con una certa disinvoltura che l’obiettivo primario di James Pallotta da Boston è quello di realizzare l’ormai celeberrimo Stadio della Roma e il fatto che la sua edificazione stia andando per le lunghe, con difficoltà che a tratti appaiono insormontabili, viene spesso usato come giustificativo alle anonime stagioni cui la Roma si barcamena da anni. 

Da profano di economia ma da sufficiente conoscitore di calcio chiedo: davvero ancor si vuol far credere che per alzare una Coppa Italia o quanto meno competere per qualcosa occorra disporre di uno stadio di proprietà per comprare Messi e Ronaldo (come se poi gente di questo calibrò, una volta aperto l’impianto, convoglierà d’incanto all’ombra del Colosseo)? Non mi sembra che il Napoli vanti un suo immobile in cui svolgere le gare (anzi, qualcuno in Comune sfratterebbe volentieri il buon AdL) eppure bene o male ha saputo costruire rose competitive e mettere alla guida tecnica gente come Carlo Ancelotti, uno che difficilmente accetterebbe la campagna di svendita posta in essere ogni estate dalla Roma.

Lo stadio di proprietà è certamente importante nell’economia di un club. Ma non può essere la sola discriminante di vittorie o successi. Altrimenti l’Arsenal vincerebbe ogni santa stagione una coppa o un campionato. Nel calcio contano, eccome se contano, le competenze, le capacità e la lungimiranza. 

I tifosi non sono stupidi come si crede e alla lunga questi aspetti li colgono appieno. “Gli ultras non leggono i giornali” sentii dire una volta da un esimio scrivano della carta stampata nazionale. Gli ultras i giornali li leggono pure troppo e in tanti potrebbero tranquillamente parlare di calcio al posto degli squallidi soloni che ci troviamo la domenica sera sui canali nazionali.

Si è etichettato come “fucking idiot” chi magari, è vero, qualche volta eccede nei modi, ma oggi ancor più di ieri rappresenta la benzina vitale di questo sconquassato sport che muove miliardi non lasciando più spazio alla sua bellezza intrinseca e rovinando di anno in anno quello che fu un glorioso movimento nazionale. 

E infine perché i tifosi non dovrebbero interessarsi dell’aspetto sportivo? In questa città per troppo tempo si è equivocato il sacrosanto concetto del “Mai schiavi del risultato” con l’essere inermi di fronte a progettazioni sportive inesistenti, calciatori svogliati e supponenti e figure barbine rimediate in giro per l’Italia e per l’Europa. Se il tifoso, l’ultras, è un cliente e come tale paga un prodotto, avrà il sacrosanto diritto di esprimere il proprio dissenso?

I romanisti lo hanno fatto in maniera civile, ma dando finalmente un segnale. Roma non vuole vincere o stravincere, ma quanto meno avere la speranza di poterlo fare. Il calcio è uno sport e in quanto tale annovera dei concorrenti in lizza per un traguardo. Se quest’ultimo si riduce ogni anno alla qualificazione in Champions League – utile sì a rimpinguare le casse del club ma ininfluente per le gioie di chi indossa una sciarpetta – il minimo che può succedere è la disaffezione. 

Quindi no, il tifoso del 2018 difficilmente può essere filo societario. Perché le due entità viaggiano su binari differenti. E ciò non va neanche tanto biasimato finché non diventa fonte di insanabile acredine. 

C’è tuttavia una lacuna importante che riguarda anche questo genere di proteste secondo me. È una mancanza che trova le sue basi in un terreno che ho spesso trattato: la coscienza di classe. Quella che ti fa portare avanti battaglie unitarie e argomentate, in grado di coinvolgere su vasta scala non solo la tua “categoria” di appartenenza, ma anche quelle a te pertinenti.

E qui mi collego a un altro striscione, esposto però fuori dallo stadio dai Fedayn. Il tema è il caro prezzi, nella fattispecie riguardante la trasferta di Torino contro la Juventus. Lo storico gruppo del quartiere Quadraro boicotterà il match, gettando finalmente il seme a un qualcosa che a Roma da anni non viene più trattato.

Questo, come dicevo all’inizio, è un elemento che personalmente avrei gettato nel calderone della protesta odierna. La Roma, con la sua iniqua e folle politica di biglietteria al rialzo, ha finito per contribuire a quell’effetto domino che oggi non ti fa pagare meno di 25-30 Euro un settore popolare anche per partite di terza fascia. E ciò, permettetemi, rappresenta l’ultima evoluzione della repressione e della lotta all’esclusione dagli stadi di un certo tipo di tifoso. 

Il problema è che proprio questo tifoso, che del caro prezzi è o sarà vittima, sembra disinteressarsene e fare spallucce. Ieri erano i divieti, poi c’è stata la tessera e in futuro ci saranno tagliandi di curva a 100 Euro. Quando tutti lo capiranno sarà troppo tardi? Ai posteri l’ardua sentenza.

Lo striscione esposto dai Fedayn in Piazza Mancini, prima della partita

Concludendo voglio parlare anche dell’ambiente di questo Roma-Genoa. I primi dieci minuti vengono per l’appunto giocati nel silenzio generale. Neanche a farlo apposta anche i genoani entrano nel settore al 10′, minuti da cui si dipana anche la sfida sugli spalti.

I romanisti alternano cori di contestazione a un tifo che – paradossalmente – si dimostrerà migliore di altre volte. Molto bella la piccola coreografia iniziale composta da centinaia di bandierine nella zona bassa della curva, mentre per il resto della partita la voce si manterrà sempre su discreti livelli con ottimi picchi ai cori più gettonati. 

Sarà la serata fredda e umida. Sarà la protesta e saranno i pochi intimi che affollano l’Olimpico (ufficialmente 29.000, forse qualcosa in meno) ma stasera è sembrato anche di rivedere la rabbia nei volti della gente. 

Sui genoani cercherò di essere onesto: ok la sfida alla domenica sera, ok il viaggio di ritorno e ok le scarse prestazioni della loro squadra. Ma come i cugini blucerchiati peccano terribilmente in numeri negli ultimi anni. Da una tifoseria storica come la loro è lecito aspettarsi qualcosina in più. I presenti comunque fanno un buon tifo, colorando come di consueto il proprio spazio con bandiere e bandieroni.

In campo la Roma vince 3-2 una partita dal livello non propriamente eccelso. All’uscita la pioggia ricopre gli spettatori che si avviano verso casa. Quasi a voler ricordare che per questa sera non è ancora tempo di guardare le stelle.

Simone Meloni