È il 7 agosto del 2001. Un sole cocente stritola letteralmente la Capitale. Da Piazza del Popolo all’Olimpico una fiumana giallorossa è in marcia già dalle prime ore del pomeriggio. Roma-Boca Juniors, amichevole in cui il club capitolino presenterà la nuova rosa, è l’appuntamento ideale per coronare i festeggiamenti del terzo scudetto che – dal 17 giugno precedente – si sono protratti notte e giorno per tutta la città.

Nel 2001 andare allo stadio non significa solamente muovere le proprie natiche dal comodo divano di casa o dal posto di lavoro per assistere a un evento sportivo. La liturgia abbraccia ancora il 99 percento dei tifosi di calcio. E così un inutile match amichevole richiama in Viale dei Gladiatori ben 70.000 persone

Sono effettivamente niente più che un adolescente gaudioso nel vedere una curva e voglioso di vivere lo spettacolo del calcio in prima persona. Ma i biglietti per l’occasione sono finiti.

Laddove non arriva la mia perseveranza ci pensa la pazienza di mio padre, il quale mi porta fuori dallo stadio all’ora di pranzo e regala ben 60.000 Lire a un bagarino per acquistare due curve. Forse è proprio vero che a volte, un pizzico di pazzia che preserviamo nelle nostre teste discende da un qualcosa di primordiale, che si tramanda nel sangue delle generazioni.

Quel Roma-Boca Juniors passerà alla storia del calcio come l’unico incontro disputato in maglia romanista da un tale Saliou Lassissi. Un intervento gli procurerà la rottura di tibia e perone e – di fatto – il conseguente stop alla carriera professionistica.

Ma quello contro gli argentini per me rappresenta un vero e proprio spartiacque: sono entrato in un mare di persone che si esaltano, si disperano, gioiscono e bestemmiano proprio come immaginavo. Proprio secondo quella che capisco essere la mia natura. Non è la prima volta in vita mia: negli anni precedenti avevo saggiato il settore popolare in qualche occasione, ma mai in un catino così ribollente di gioia.

Fare della spicciola sociologia del tifo in queste poche righe sarebbe davvero un’opera stucchevole, e fondamentalmente quando indossiamo i panni di tifosi ce ne importa ben poco. Noi sappiamo chi siamo e non abbiamo bisogno che ce lo dicano altri.

Tutto ciò che ne segue è letteratura fine a se stessa. Diciamocelo pure.

Perché questa introduzione, vi chiederete? Perché ogni tifoso nella propria vita ha un proprio albero genealogico, una propria mappa cronologica in cui collocare eventi e spesso fatti della vita privata da collegare a una partita invece che a un’altra. Uno spazio temporale con i confini ben delimitati.

Anche questo Roma-Genoa sarà un confine. Volente o nolente.

Un confine tra il calcio senza televisioni (quello in cui Totti ha iniziato a giocare) e quello delle partite spalmate in ogni giorno della settimana. Un confine tra quel pallone anni novanta con cui la mia generazione è cresciuta, dove un Hubner o un Luiso erano considerati giocatori di bassa classifica perché forse non avevano la frangetta di Neymar, e quello attuale dove per diventare una star bisogna saper strizzare l’occhio alle televisione e cadere in campo come la più esperta delle ballerine di danza classica (onore a loro che mettono in scena un’arte, un po’ meno onore ai loro colleghi dai piedi di argilla).

Quel 2001 anche è un confine. Quello che consacra Totti in campo e lo spinge a guidare per più di una stagione la Roma degli anni successivi. I suoi gol sono risultati spesso decisivi per la classifica finale. Anche quando è stato contornato da una rosa mediocre. Anche quando si è trovato ad affrontare i numerosi infortuni che hanno rischiato di fermargli per sempre la carriera.

Ignorando i suoi venticinque anni con la stessa maglia si rischia di rinnegare tutto quello che diciamo quotidianamente sul calcio “moderno” o sulla completa disaffezione dai club di appartenenza.

Certo, Totti non è rimasto a Roma forzatamente e senza essere quell’uomo in più da cullare e coccolare sempre. Ha rinunciato ai trofei che un Real Madrid o un Milan gli avrebbero garantito (e questo per uno sportivo è comunque un handicap, poi si può dire ciò che si vuole). Ma fino a che punto questo è un problema? Se parliamo di bandiere, perché non riusciamo a giudicarne una scevri dalla nostra fede calcistica o dalle nostre simpatie personali?

No, io non ho condiviso tutto della sua carriera e del suo modo di porsi. Spesso mi sono trovato in contrasto con alcune dichiarazioni, non ho mandato giù quando Di Canio segnò in un derby, venendo ad esultare sotto la Sud, e a prenderlo per il collo furono Dellas e Mexes anziché lui. Un greco e un francese. Spesso non ho davvero sopportato tutto ciò che per questi anni lo ha circondato. Non ho sopportato le ridicole interviste della moglie, le dichiarazioni rilasciate e ben modellate dai Maurizio Costanzo di turno e il voler acuire spesso troppo uno stereotipo di romano che non mi appartiene. Ho odiato con tutto il mio cuore i giornalai che popolano questa città, che hanno cavalcato la contrapposizione con Spalletti – resa fertile forse anche da un po’ d’ingenuità del tecnico di Certaldo – per mettere in primo piano le proprie battaglie. I propri interessi.

Io ho sempre avuto l’idea ferma che la Roma venisse prima di tutto. Che i colori, la maglia, il simbolo e ciò che esso rappresenta per un intero popolo fossero delle cose da cui non poter prescindere. Perché tutto passa. Tranne loro.

Ma ho imparato, per esperienza personale, che Totti – e ci tengo a sottolinearlo – non è solo questo. Come non è soltanto i gol e gli assist che in questo quarto di secolo hanno reso la numero 10 della Roma una maglia conosciuta anche al di là del Grande Raccordo Anulare. E hanno fatto esultare i tifosi giallorossi per oltre 300 volte. E scusate se è poco, nell’era in cui un giorno si è idoli e il giorno dopo si è imperdonabili pezzi di merda venduti ai nemici di sempre.

Dietro al personaggio Totti c’è un uomo che ha saputo far aprire le porte a ragazzi interdetti dallo stadio o che si è fatto trovare pronto quando chi sostiene la Roma per novanta minuti, sette giorni su sette, ha avuto problemi legati a questa sua grande passione. Tutto scontato? Non direi. Il problema, come in tutto, è sempre saperle le cose. Non parlare a vanvera o per partito preso.

E perdonatemi, io odio i piagnistei o i momenti celebrativi, ma un uomo che ammette di avere paura perché il suo ritiro è prossimo e versa vistosamente più di qualche lacrima di fronte a 80.000 persone che lo acclamano non mi passa indifferente. E non credo minimamente che finga. E perché dovrebbe? Totti ha bisogno di piangere nel centrocampo dell’Olimpico per far parlare di sé?

È stato Capitano della sua squadra. Se noi, che di calcio viviamo, vogliamo rimanere indifferenti di fronte a una dimostrazione d’affetto di uno stadio tornato pieno in ogni ordine di posto, praticamente dopo sedici anni, non siamo obiettivi con noi stessi. Come non lo saremmo se non fossimo riusciti a levarci in piedi ed applaudire i Roberto Baggio, i Paolo Maldini, i Bruno Conti, i Roberto Mancini o i Maradona.

Totti ha cominciato a calcare il terreno verde dell’Olimpico quando c’era il Commando, se n’è andato quando a malapena fanno entrare i tifosi e non senza ostacoli lasciano loro sprigionare la propria passione. Ha fatto i suoi primi gol con la colonna sonora dei tamburi, ha vinto uno scudetto con le maestose coreografie degli AS Roma Ultras e ha visto tutta la grandezza dei derby della Capitale, quando un’intera città si focalizzava sullo stadio per carpirne gli umori, gli striscioni e le esultanze.

La sua ultima partita è stata questo Roma-Genoa. E per tornare un pochino indietro nel tempo, lo stadio si è riempito. Gli ospiti sono finiti nella piccionaia della Tribuna Monte Mario. Certo, la Curva Sud ha subito tanti mutamenti. La Curva Sud quest’oggi l’ha omaggiato con due coreografie: la prima semplice e ben riuscita, in tutto il settore. La seconda realizzata nella zona dei Fedayn. Entrambe dal significato profondo.

Entrambe emblema di un calcio che non c’è più. Perché signori miei – ve lo dice uno che i giocatori li guarda sempre e comunque con disincanto e sfiducia – se tutti, dagli ultras ai tifosi meno calorosi, hanno deciso di battere le mani a un protagonista del campo, vuol dire che oltre al motivo più identitario della faccenda, c’è anche una mancanza profonda: quella dell’appartenenza in qualcosa o qualcuno. Ci sentiamo spaesati negli stadi e nella scia di questi grandi club che partecipano a una Serie A divenuta così brutta, scadente e noiosa.

Va detto, la Curva Sud di oggi è stata una lontana parente di quella che ha spinto anche Totti in varie occasioni. Il settore popolare che trainava e spingeva il numero 10 a scaraventare palloni nelle reti avversarie. La Sud vive un momento difficile, ci sarà bisogno di un cambio epocale, di un repulisti nei suoi contenuti più periferici che ne hanno preso parte in queste due stagioni di protesta.

Ci sarà bisogno di chiudere il cerchio di questo biennio segato dalle barriere: riabbonarsi tutti in massa e rendere sold out la curva. Sold out solo di chi vuol sostenere, cantare ed agitarsi in nome della primordiale passione per il calcio.

Perché chi, come me, ha sempre cercato di perorare le cause di questi ragazzi, deve essere onesto e ammettere che il tifo della Roma – al momento – non può ritenersi al passo con ciò che è sempre stato. E non è solo un fattore di curva, sia chiaro. L’ho già detto. Per far sì che l’Olimpico torni un fortino, un luogo dove vantarsi dell’ambiente caldo e infernale, c’è bisogno che il senso più vero della parola “romanismo” ne riprenda possesso.

Sotto tutti gli aspetti. C’è bisogno che i ragazzetti capiscano quanto sia dannoso stare più con un cellulare in mano a riprendere l’ambiente che a fare il tifo. Perché l’ambiente “sei tu” e il maggiore orgoglio è tornare a casa con la gola secca per aver urlato. E non con la memoria piena di video e foto. Per quello c’è il resto del mondo, che ormai vive in funzione di cellulari, videocamere e altri mezzi per il subdolo rincoglionimento dell’essere umano.

E c’è anche bisogno di partite come questo Roma-Genoa per sapere dove siamo e da cosa veniamo. C’è bisogno che nel settore ospiti arrivi una tifoseria “cazzuta”, motivata e volenterosa di guastare la festa. Sì, sarà pure politicamente scorretto, ma se il calcio italiano è diventato una fogna a cielo aperto è anche perché siamo abituati a giustificare squadre che sistematicamente si “scansano” nelle partite finali. Non è stato il caso dei liguri. Né in campo, né sugli spalti.

I rossoblu di Juric – anche aiutati da una prova a dir poco claudicante della Roma – hanno provato fino all’ultimo a fare uno scherzetto che sarebbe stato a dir poco catastrofico per i padroni di casa. Prima il vantaggio iniziale di Pellegri ribaltato da Dzeko e De Rossi, poi l’incredibile pari di Lazovic che per oltre dieci minuti lascia nel gelo l’Olimpico, e infine il gol dell’ex Perotti che regala la certezza del secondo posto ai capitolini e fa esplodere lo stadio.

Ma nel settore ospiti i genoani sono ormai andati via. Le autorità non solo li hanno fatti entrare in ritardo, ma li hanno anche costretti a lasciare con anticipo lo stadio per non dover attendere la fine della cerimonia post-partita per Totti.

Perché è così che si gestisce l’ordine pubblico in Italia. E non c’è bisogno di ulteriori approfondimenti, tanto è ormai un fatto conclamato.

E se qualcuno pensa che me ne stia dimenticando, si sbaglia di grosso. La presenza dei napoletani assieme ai rossoblu non passa certo indifferente. A dieci anni esatti dal celebre Roma-Napoli in cui i partenopei entrarono nella ripresa e che suscitò un mare di polemiche per il presunto treno distrutto (“presunto” è un eufemismo, basterebbe rileggere alcune inchieste dell’epoca per appurare tutte le menzogne che vennero detto quel giorno a scapito dei supporter campani).

Anni fa l’intero stadio gli si sarebbe scagliato contro. Oggi è davvero cambiato troppo. Partono i soliti cori, ma tutto sommato lo scambio “epistolare” tra le due fazioni è davvero ridotto all’osso. In perfetta armonia con quell’ambiente ovattato che è divenuto classico negli stadi italiani di Serie A.

C’è il sole ancora alto quando arriva il triplice fischio e comincia la cerimonia in onore di Francesco Totti.

È il 26 novembre 2006. Al Ferraris la Roma passa per 2-4 contro la Sampdoria. Al 29′ del secondo tempo un pallone a campanile viene imbeccato da Totti, che da posizione defilata fa partire un sinistro al volo che si insacca alle spalle dell’incolpevole portiere blucerchiato. Undici anni fa. Quattordici ore di treno andata e ritorno. I panini divisi la notte con degli sconosciuti e la discesa alla stazione Ostiense la mattina successiva, per andare direttamente al lavoro.

C’ero quel giorno e ci sono stato per tutta la carriera di Totti con la maglia della Roma. Ha vinto poco e niente. Ma l’esultanza a quella rete se la ricordano ancora i tifosi della Samp, gli stessi che fecero partire un lungo e sincero applauso.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Simone Meloni e Giuseppe Scialla.

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