C’è spasmodica attesa per il ritorno di questo quarto di finale dell’Europa League. Lo 0-1 maturato nel match di andata non può essere determinante, pertanto si parte con un discreto equilibrio di fronte a un Olimpico pieno e a 4.500 tifosi milanisti. Il crocevia sportivo è incentivato dalla rivalità e il confronto sugli spalti segnerà per forza di cose un passaggio fondamentale nella stagione di ambedue le tifoserie. Quando arrivo attorno allo stadio Olimpico lo spiegamento di forze dell’ordine è più ingente del solito, in stile derby, mentre sul Lungotevere va in scena la solita santabarbara di bomboni, fumogeni e cori. “Conditi”, stavolta, anche da qualche striscione tematico esposto dagli ultras romanisti nei confronti dei rivali meneghini e in particolar modo in risposta alla fanzine diffusa dai rossoneri in occasione della gara di andata, dove in maniera neanche tanto velata si riprendeva un vecchio striscione della Fossa con chiaro riferimento alla vicenda De Falchi. Una dialettica, quella fra le due fazioni, che da sempre mantiene toni alti, andando sistematicamente a rinfocolare la rivalità. Senza voler fare morali a nessuno – considerata la natura tribale e spesso “rude” di queste due piazze – da osservatore esterno tutto questo fornisce sempre qualche stimolo in più, fondamentalmente perché si capisce che al cospetto di un mondo ultras che al giorno d’oggi – comprensibilmente – sovente si coalizza anche laddove sussistono grosse inimicizie, le due parti in causa sono distanti anni luce e vivono mondi e forma mentis totalmente opposti. Certo, la storia della rivalità tra romanisti e milanisti ha reso quasi ovvia questa “lontananza” ideologica, così come lo sviluppo del rispettivo essere ultras nell’ultimo ventennio.

L’Olimpico versione europea è sempre diverso da quello che ogni due settimane ospita le gare di campionato della Roma. Più carico e determinato. Il sogno/incubo della coppa pervade ormai apertamente il cuore e le anime dei tifosi capitolini, i quali probabilmente darebbero molto più della semplice voce durante i novanta minuti per avere in cambio l’agognato titolo. La delusione di Budapest, anziché fiaccare definitivamente il desiderio, ha contribuito a farlo crescere. Qualcuno è diventato prigioniero di esso, mentre qualcun altro sa bene che la storia di un club, le sue tradizioni e la cabala non cambiano così facilmente, anche se negli ultimi anni i giallorossi hanno ben figurato in campo internazionale. Poi dall’altra parte c’è una società che, malgrado non abbia mai avuto fortuna in questa kermesse, in Europa ha scritto pagine di storia rimaste indelebili negli occhi di milioni di sportivi, arrivando sino a oggi come il sodalizio italiano più vittorioso in Champions e, con tutta probabilità, anche quello in possesso della massima esperienza e caratura in questo genere di sfide. E con tutta probabilità i seguaci del Diavolo, prima ancora che alla guida di Pioli e alle prestazioni prettamente sportive, quest’oggi si affidano proprio all’esperienza.

Decido di entrare proprio a ridosso del fischio d’inizio, per evitare il solito ciarpame di musiche, grida e urla squinternate dello speaker e godere, per quanto possibile, solo lo spettacolo offerto dalle gradinate. Gli ultras milanisti – come di consueto – colorano la parte bassa del loro settore con tantissimi stendardi, che al fischio d’inizio verranno abbassati per favorire lo sventolio di un paio di bandieroni e il risalto della specialità della casa: il total black. Da vari settori dello stadio, di contro, partono invettive contro gli ospiti, mentre la Sud è intenta a ultimare i preparativi per l’esposizione della scenografia. Fa sempre piacere vedere parti dello stadio non propriamente ultras colorarsi con bandiere e, in alcuni casi, anche stendardi di discreta fattura. Lo spontaneismo e la genuinità al di fuori degli spalti occupati dagli ultras penso siano la grande differenza tra l’impianto di Viale dei Gladiatori e San Siro, dove nelle tribune regna prevalentemente un tipo di tifoso più pacato e meno dedito al lasciarsi andare, anche in modo becero. Fermo restando – e chi ha letto il pezzo sulla gara d’andata lo sa – che per me il Meazza resta un impianto magnifico e perfetto per il calcio, dove le grida e i cori dei tifosi arrivano perfettamente in campo e il tifo è un qualcosa di sacrale. Alla faccia di chi vorrebbe buttarlo giù. Ciò che cambia, come detto, è la composizione del tifoso medio. Un qualcosa che indubbiamente rispecchia l’indole delle due metropoli. affondando anche un po’ nei rispettivi stereotipi con cui generalmente sono conosciute all’interno dei confini nazionali.

Poco prima delle 21 le squadre fanno il loro ingresso in campo, disponendosi al centro per l’esecuzione dell’inno dell’Europa League, sonoramente fischiato dal pubblico romano. Se da una parte io non amo un atteggiamento che a volte tende all’eccessivo piagnisteo o al complottismo, dall’altra devo ammettere che il fischiare tutto ciò che è istituzionale (la stessa cosa avviene con l’inno della Serie A) rispecchia una certa idiosincrasia verso “l’ordine costituito”, almeno mentale. Un segno di vitalità che non fa certo male a un calcio ormai totalmente asservito a televisioni e pagliacciate utili a incassare qualche Euro in più. Ma anche la conferma di quanto gli organi calcistici risultino a dir poco anacronistici e poco credibili agli occhi degli stessi tifosi, che poi sono quelli che reggono la baracca, malgrado spesso e volentieri vengano trattati come l’ultima ruota del carro. Quando l’altoparlante irrora le note di Roma, Roma, Roma, in Sud prende forma la scenografia, che attraverso l’esposizione di migliaia di cartoncini va a comporre il nome di Antonio De Falchi, trovando l’applauso dello stadio intero. Se lo spettacolo della curva romanista è di primo livello, altrettanto va detto per quelli “vecchio stampo” mostrati in Tevere e dal gruppo in Nord: torce, fumogeni e bandiere. Elementi immortali che completano l’opera e rendono il colpo d’occhio importante. Bello e sempre “coinvolgente” il rimpallo di pirotecnica tra settore ospiti e Curva Nord, così come molto retrò la sciarpa giallorossa con scritta Roma Merda che viene mostrata costantemente da un tifoso rossonero. Questo per ricordare ai signori della morale e a quelli del bon-ton, quanto siano gli unici a formalizzarsi per determinati atteggiamenti. A chi frequenta lo stadio assiduamente, sfottò, offese e “tensione” non solo piacciono, ma rendono i novanta minuti unici e irripetibili.

L’avvio di match è traumatizzante per il Milan: in circa venti minuti, infatti, la Roma si porta sul 2-0 grazie ai gol di Mancini e Dybala. Reti che fanno letteralmente esplodere lo stadio, con esultanze significative anche nelle tribune e nelle zone più “tranquille”. Spesso si dice che il risultato non conta, e questo sicuramente è vero da un punto di vista fideistico e di attaccamento. Ma, senza girarci troppo attorno, ci sono casi in cui la vittoria è troppo importante e sentita per essere vissuta come una normale partita. Il Milan è stordito, sebbene la Dea Eupalla cerchi in più di un’occasione di servirgli assist per riaprire la contesa. Partendo dall’ingenua espulsione con cui Celik lascia i giallorossi in dieci per oltre un’ora di partita. Comincia a diluviare e il pubblico di casa, anziché scoraggiarsi, capisce che è il momento di far sentire il proprio sostegno. “Ruggendo” e gridando ad ogni pericolo e in ogni azione. Le occasioni per riaprire la sfida ci sarebbero, ma alla fine il Milan riesce a segnare solo negli ultimi minuti, con Gabbia. Un 2-1 che sarà inutile, tanto che i supporter ospiti – malgrado la gara subito in salita hanno provato a tifare in modo compatto almeno fino al 75′ – neanche esulteranno, essendo già in clima di contestazione verso una squadra che, uscendo dall’Europa League, si ritrova a fine stagione senza alcun obiettivo. E con lo spettro di vedere festeggiare il ventesimo scudetto ai cugini interisti qualche giorno dopo, nel derby.

Finisce, ovviamente, con l’Olimpico in tripudio sulle note di Grazie Roma, per la conquista della quarta semifinale europea negli ultimi cinque anni. Non è un traguardo né una vittoria, ma per un club abituato perlopiù alla mediocrità calcistica, è senza dubbio un qualcosa di importante. Un qualcosa che foraggia il sogno e la prigionia di cui sopra. Ci sarà il Leverkusen, nel remake della semifinale dello scorso anno, sebbene nessuno sembra volersi montare la testa, coscienti di quanto sia difficile superare quella che attualmente è la squadra campione di Germania, imbattuta dallo scorso anno, per giunta proprio dal match di Roma, quando un gol di Bove decise sfida e qualificazione. Continuano a scendere le gocce scagliate da Giove Pluvio, ma anche per la folla che si avvia verso macchine e mezzi, si tratta di una dolce pioggia. Che forse neanche viene totalmente percepita in virtù dell’adrenalina. Allontanandomi, dall’esterno, sento ancora i ragazzi col megafono spronare i pochi rimasti agli ultimi battimani. In fondo rimane quel modo di vivere il calcio senza “pretese di vittorie” ma con la richiesta tassativa di poter sognare. Perché quando non si è un club blasonato o abituato ai palcoscenici di un certo livello, il poter coltivare la speranza – pure se poi viene dolorosamente infranta – è forse il maggior stimolo che serve per andare avanti e compattare l’intera tifoseria.

Simone Meloni