Un popolo che non ha memoria non è più popolo. Un popolo che non si aiuta e si dà conforto non può semplicemente esistere. Un popolo che si fa costantemente la guerra, per dimostrare ogni minuto di essere gli uni migliori degli altri è destinato a soccombere, quasi certamente tra le grinfie del peggior nemico.

Mi chiedevo ieri sera, al termine di Roma-Cagliari, cosa volesse dire ancora andare all’Olimpico nel 2017? Ho rifugiato spesso questa domanda, perché credevo di aver risposto in maniera abbondante, forse anche stucchevole, nel recente passato. Forse perché l’apatia e l’atavismo con cui ogni volta mi avvicino a quel quadrante di Roma mi danno sempre le loro risposte tristemente scontate.

Eppure c’è da dire che lasciandoci scorrere il tempo davanti non ci siamo accorti di tante cose. Abbiamo tralasciato quel cambiamento antropologico e culturale che repentinamente ha reso una tifoseria un tempo decisiva e determinante in uno strano groviglio di spettatori teatrali, criticoni dell’ultima ora e semplici birdwatcher, che di tanto i tanto si divertono a seguire le gesta dei loro uccelli ridendo per una planata spettacolare e, se possibile, sparandogli da vicino per poi dileggiarsi in cuochi d’alto borgo. Insomma, a ognuno il suo compito. A ognuno il suo ruolo. Ma sempre meno vicino a quello di tifoso fedele e costante.

Nessuno se ne abbia a male. Non si tratta di fare i conti precisi e algoritmici se contro il Cagliari a fischiare i giocatori perché non sbloccavano il risultato sono state 100 o 20.000 persone. Ma di capire il perché questo avvenga sistematicamente a quasi ogni partita interna della Roma, e spesso non solo da un settore tradizionalmente freddo e “nobile” come la Tribuna Monte Mario. Si tratta di vedere il tutto dalla lunga distanza, in maniera obiettiva. Bisognerebbe chiedersi innanzitutto (Curva Sud o meno) come può una squadra seconda in classifica, reduce da un rendimento eccellente, generalmente non abituata certo a palcoscenici vittoriosi o prestigiosi, avere anche una piccola percentuale pronta a criticare tutto e tutti. A prescindere. Come è possibile che quel vasto circo mediatico attivo nella Capitale altro non aspetti che poter gettare fango e ignominia su determinati personaggi.

Qualcuno vuol negare le offese gratuite a Dzeko, iniziate lo scorso anno e proseguite, spesso e volentieri, anche in questa proficua stagione per l’attaccante bosniaco? Come si fa a dar contro all’atteggiamento di De Rossi? Sebbene il suo rivolgersi al pubblico in maniera “scurrile” dopo la rete dell’ex Manchester City all’Internazionale possa suscitare polemiche a ragionarci bene perché il tifoso deve mettere in condizioni un proprio giocatore, in maniera del tutto aprioristica, di far male e innervosirsi ancor più in un momento in cui le cose non vanno? Esiste una scuola di pensiero, che sembra esser ormai preminente e che vede protagonista il supporter voglioso di vincere a tutti i costi (quello mosso dallo stesso sentimento per anni criticato ad altre tifoserie) e per il quale è impensabile dar tempo a un giocatore. Soprattutto se questo giocatore è arrivato con un credito infinito (spesso pompato dalla stampa). Deve segnare tanto e subito. La sua media deve essere subito superiore al 7. Altrimenti critiche, insulti e prese in giro attraverso confronti, spesso poco edificanti, con cessioni effettuate nella precedente sessione di mercato (“Non era meglio tenersi Destro?”. Cit.).

Nessuno può permettersi di assegnare patenti da tifosi, ma certamente è innegabile che quel tifo viscerale, attaccato nonostante risultati e vicissitudini e in grado di spingere e sostenere anche i giocatori più infimi e scarsi transitati a queste latitudini sia ormai un ricordo lontano e quasi svanito. Eppure sembra che all’ombra del Colosseo i Batistuta, i Montella, i Falcao, gli Aldair, i Samuel e i Cerezo siano passati ogni anno. Sembra che qualcuno si sia dimenticato di quanto questa piazza, al contrario di oggi, abbia saputo affezionarsi e supportare gente che spesso usava il pallone come soprammobile di casa più che come strumento di lavoro.

Quanto l’assenza della Curva Sud abbia influito a far emergere il modus vivendi di molti tifosi sempre più tecnici e imprenditori non sta a me dirlo. Di sicuro c’è un dato: determinati brusii con i cori della curva venivano spesso annullati. Determinate difese del proprio “orticello” e delle proprio “idee” (spesso indotte via etere) venivano presto sradicate da qualcosa che fondamentalmente contraddistingue il tifoso dallo spettatore: l’amore incondizionato per la propria squadra e per quello che essa rappresenta. Un sentimento che deve andare giocoforza oltre i risultati e i periodi negativi. Altrimenti quale sarebbe l’aiuto dato dal pubblico alla squadra? Che senso avrebbe proprio il concetto di “tifoso”?

Come si può rimanere impassibili e far passare per normale uno stadio che (salvo qualche focolaio proveniente, guarda caso, da zone occupate da chi l’Olimpico lo vive da anni ed ha continuato a entrare nonostante le ultime vicissitudini) il 19 gennaio dimentica quasi totalmente il Presidente Dino Viola? Forse il passato recente è stato archiviato troppo velocemente. Forse nessuno è più memore di cori e striscioni che apparivano a iosa proprio nell’anniversario della morte di quel personaggio che ai tifosi, alla Curva Sud, ha dedicato un pezzo della propria vita. Ha sbagliato anche lui (sbagliare è umano) ma ha voluto bene all’idea Roma. Ha voluto bene a quei ragazzi che lo seguivano ovunque. Erano in 23.000 contro la Sampdoria (33.000 il dato ufficiale a cui vanno sottratti i numerosi tifosi non entrati e in possesso dell’abbonamento che permetteva l’ingresso gratuito) e sapere che soltanto un migliaio scarso conosceva Dino Viola o ha sentito l’esigenza di celebrarne il ricordo la dice lunga su un’evoluzione ormai quasi completata.

Non importa conteggiare chi ha pensato bene di fischiare e gesticolare contro Dzeko nel primo tempo di Roma-Cagliari o brontolare per il risultato che non si sblocca. Importa constatare come l’evoluzione delle cose sia ormai quasi ultimata. Molto più velocemente di quanto si pensasse. Perché tutto è concatenato. I fischi al “piccolo uomo” Spalletti sono legati a quelli dell’aprile scorso sempre nei confronti del tecnico, incastonati in una battaglia interna utile solo ad alimentare giornaletti di gossip e fronde interne che da sempre rappresentano il male del calcio a Roma. Così come i fischi a scena aperta per una Roma che sta battendo il Palermo per 3-0 ma non butta fuori il pallone per far entrare Totti (ergo: a Roma si è fischiata la propria squadra che in quel momento stava giganteggiando in campo, tutto normale?).

Il voler essere esclusivi e non inclusivi ha da sempre rappresentato il punto debole di un universo già di suo fragile e variegato come quello del tifo giallorosso. Un universo dove falsi comunicatori stornellisti e menestrelli sguazzano spesso felici e contenti per le loro malefatte utili a portar visite, pubblicità e quella notorietà fatta di finti lustrini da spargere per tutto l’etere. Ed oggi più che mai assistiamo al punto d’arrivo di un percorso partito qualche anno fa. Dividi et impera. Il gioco è servito.

Anche la componente del tifo ha le sue colpe, sia chiaro. Pur essendo oggi vittima a tutti gli effetti, in passato si è agito spesso ciecamente e senza lungimiranza. Dando spago a chi altro non aspettava che prendere la palla al balzo per eliminare una certa maniera di andare allo stadio. Il tifo oggigiorno paga lo scotto di quella poca unità d’intenti racimolata negli anni precedenti, pur essendosi immolato in una battaglia lodevole e lineare. Il problema, è inutile negarlo, sono pur sempre gli interlocutori. Istituzioni sorde e mal disposte, che storicamente non hanno quasi mai fatto passi indietro sulle proprie scelte. Pur folli e senza senso che siano state.

Ognuno può pensarla come vuole, sia chiaro. E il compito di chi scrive è anche e soprattutto quello di aprire dibattiti per migliorare situazioni contingenti. Sebbene ormai ci siano più comunicatori inclini al prendersela per una critica per un articolo o un pensiero. Mi chiedo però come si faccia ancora a parlare di ambiente allo stadio Olimpico? Salvo qualcuno che in maniera sporadica e quasi sempre nelle fasi di attacco della Roma prova a lanciare qualche coro di tanto in tanto, il clima che regna è quello di silenzio. Rotto di tanto in tanto da applausi e più consono al Sistina che alle gradinate di uno stadio. La voce dei giocatori udibile in maniera distinta dalle tribune e spesso i cori di quella dozzina di tifosi ospiti che ormai abitualmente occupano il settore ospiti completano lo scenario.

È un discorso che va ben al di là delle barriere e della protesta. Il tifoso della Roma medio che va allo stadio è ormai vicino al prototipo del tifoso medio dei grandi club europei. Spesso non “indigeno”, sicuramente poco incline a donare parte della sua esistenza alla squadra (lo dimostrano e “fughe anticipate” quando il risultato è negativo) e probabilmente infastidito a morte da chi vuol provare a fare tifo come si è fatto per cento anni in tutti gli stadi italiani. Non ammettere questo vuol dire avere una visione mozza delle cose. Oppure non conoscere minimamente cosa vuol dire la parola “ambiente” all’interno degli stadi.

Fortunatamente ho la possibilità di visitare tutti i fine settimana molti impianti italiani. Di ricordarmi domenica dopo domenica quanto l’Olimpico sia la cosa più lontana da un contenitore aggregante e ludico per il tifo calcistico. È per questo che non importa sapere se contro il Cagliari a fischiare erano in venti o in ventimila, perché qualcuno che lo fa ormai c’è sempre ed è una mentalità che lentamente sta diventando normale ed accettata. Persino con una squadra in lotta per lo scudetto. Un secondo posto che vale 23.000 spettatori ufficiali col Cagliari (21.000 circa registrati agli ingressi). Forse è questo il dato più inquietante e significativo. E sul quale non si può fare nessuna riflessione “numerica”.

Dispiace che senza accorgersene Roma stia accettando tutta la mediocrità sportiva di cui si sta adornando.

Simone Meloni

Roma-Cagliari (foto di Lorenzo Contucci)

Roma-Sampdoria, Coppa Italia (foto Cinzia Lmr)