Girando per le strade del quartiere Torrione l’unico odore che si percepisce è quello di pastiere fumanti – appena uscite dal forno e pronte a esser protagoniste delle tavole pasquali – e di torte salate ricolme di ogni ben di Dio. Le panetterie invitano a comprare gli ultimi prodotti disponibili, lasciando le proprie serrande aperte a ciclo continuo. Senza pausa. Orgogliose di quel barlume di tradizione (oddio, forse non proprio un barlume da queste parti!) che ancora hanno il compito di irrorare nei propri clienti. Il ponte della ferrovia divide in due Salerno: da una parte la città delle massaie, dei vecchietti al bar e dalle compagnie che cavalcano il motorino disquisendo di stadio e ragazze, dall’altra runner impegnati a godersi il sole riflesso dal mare e uno stuolo di camminatori seriali, che hanno da poco scoperto l’arrivo della primavera.

Nel cuore di questa zona popolare diverse bandiere granata adornano i balconi, mentre già le prime sciarpe cominciano a circolare sui marciapiedi e per le strade. Malgrado manchino oltre tre ore al fischio d’inizio. Appena fuori dal sottopasso della stazione, dove su un grosso murales è impressa la sigla Torrionesi, alcuni ragazzi giocano a pallone. Sfidandosi e sfottendosi. Paragonandosi ai calciatori che hanno portato e mantenuto il Cavalluccio in massima divisione e portando le lancette del tempo indietro di almeno un paio di decenni. Quando ciò era la norma in tutte le nostre città.

C’è qualcosa che di Salerno ho sempre riconosciuto, e che credo sia innegabile anche agli occhi dei suoi nemici giurati: la passione per il calcio. Quella passione che cinquanta chilometri più a nord trabocca, esplode, eccitata da un tricolore che dopo trentatré anni sta tornando alle falde dal Vesuvio. Ma che qua – a parte ogni retorica – non sembra tangere più di tanto. La strada è la miglior confidente in queste situazioni. Le sue finestre, i suoi colori e le sue voci, lasciano intendere molto di una città. Certo, sarebbe poco credibile dire che un colosso del calcio come il Napoli (soprattutto nel meridione, dove affonda radici ben più grandi della semplice appartenenza calcistica) qua non faccia proseliti e non abbia gente pronta a festeggiare. Ma è l’appartenenza alla Salernitana che sembra rendere questo più cauto. Forse più rispettoso? Non so. Di sicuro passeggiando dalla stazione, inoltrandosi per Torrione, Pastena, Arbostella, risulta difficile non farsi rimanere impresse le tinte granata che orgogliosamente colorano questi spazi. Un discorso che va ben al di là degli ultras, ma che in questi ultimi trova ovviamente i pionieri. L’avamposto incaricato di difendere e onorare il vessillo.

Che poi Salerno, nel bene e nel male, non differisce tanto da molti modi di essere tipici del popolo campano. Anzi, per certi versi li accentua. Salerno crea il melodramma anche dove sarebbe sufficiente fare il proprio compito (salvezza dopo uno 0-4 con l’Udinese docet), si lamenta all’estremo anche quando bisognerebbe avere un pizzico di pazienza in più e respirare a pieni polmoni l’aria della massima divisione – che fino a qualche anno fa era ossigeno rarefatto, trattenuto a stento in scontri al cardiopalma per riconquistare la cadetteria e poi preservarla -, ma è anche capace di stringersi attorno alla propria squadra, alla propria comunità e ai propri colori per rendere più dolce il tramonto sul mare, proprio dietro lo stadio Arechi. In giornate come queste.

Arriva l’Internazionale e per chi vive lo stadio in una certa maniera questa non è una grande notizia. Top club significa innanzitutto prezzi dei biglietti alle stelle. Su questo la gestione Iervolino è tutto fuorché impeccabile, basti pensare ai 60 Euro per un Distinto e ai 45 per una Curva. Anche se poi si dovrebbe sempre aprire un’ulteriore appendice: mai si reagisce, mai si boicotta, ci si limita ad alleggerire il proprio portafogli o al massimo a qualche sterile striscione esposto rigorosamente nell’antistadio, cosa che dall’altra parte difficilmente potrà portare a un passo indietro. Mera e triste legge di mercato. Osservazione ovviamente riferita all’intero mondo ultras italiano.

L’arrivo dei grandi club è anche una costante e perenne “carneficina”, prodotta dal miscuglio nei settori di casa tra i tifosi provenienti dalla provincia e da tutta Italia e quelli granata. Che logicamente poco tollerano show festanti con maglie e sciarpe di altri colori, che rendono spesso e volentieri il clima incandescente. Insomma, giocare contro le big è sicuramente un fattore di orgoglio, ma è innegabile che nell’anima profondamente autolesionista del tifoso incallito e onnipresente, tutta questa serie di circostanze finisca con il produrre una sorta di odio per queste giornata. Un dolce odio, ovviamente. Ma pur sempre odio!

Quando manca una mezz’ora al fischio d’inizio la brezza marina porta una forte carica di salsedine sul lungomare, coprendo il forte odore dei tubi di scarico causato dalle macchine ancora incolonnate a poche centinaia di metri dallo stadio. Fortunatamente ho i miei piedi a disposizione e in un modo o nell’altro riesco (quasi) sempre a raggiungere le gradinate prima che il direttore di gara sia sulla soglia del tunnel, pronto a far scendere in campo le due formazioni. Ci tengo in maniera maniacale ad entrare prima, a non perdere neanche un minuto di gioco. Anche quando non si tratta della mia squadra. Non ho mai capito chi se la prende comoda, ritenendo quasi normale l’ingresso a gara già avviata. Figuriamoci, poi, cosa possa pensare di chi esce prima “per non trovare traffico”. Praticamente è come andare al cinema e alzarsi dieci minuti prima delle fine per non trovare ressa alle uscite. Anzi, è anche peggio. Al cinema non va in scena l’elemento fideistico, liturgico, che caratterizza il tifoso. Al cinema non porti i colori della tua città, tanto per intenderci. Miscredenti!

Sugli spalti dell’Arechi si registrano oltre 23.000 spettatori, di cui 1.800 di fede interista. Pochi minuti prima delle 15 la Sud mette in scena la sua classica sciarpata. Sicuramente ben riuscita e seguita anche da altri settori dello stadio. A inizio campionato avevo avuto modo di parlare in modo critico del tifo salernitano. Lo avevo fatto in maniera rispettosa e costruttiva, proprio perché conosco il grande potenziale di questa piazza. Oggi – volente o nolente – mi trovo a confermare l’analisi fatta contro la Sampdoria. Il colpo d’occhio è importante, le fiammate sono spesso da brividi (soprattutto nel secondo tempo), ma complessivamente si ha sempre l’impressione che i campani sovente viaggino col freno a mano tirato. Ed è strano. Sapete perché ho voluto inserire nel pezzo quei ragazzi che giocavano a pallone fuori alla stazione di Torrione? Perché, come scritto, mi hanno restituito appieno la devozione di una città per il calcio e per la sua squadra. E forse, in base a ciò, mi aspetto sempre di più. Per una passione che nasce e cresce in maniera così focosa, credo sia dovuta una tifoseria a grandissimi livelli canori e di sostegno. Intendiamoci: parliamo del pubblico salernitano, uno dei più fedeli e folkloristici d’Italia. Un valore aggiunto per una Serie A che deve far i conti con “favole” create ad hoc dalla stampa di tanto in tanto, ma non suffragate da nessun elemento fiabesco. Il mio discorso parte proprio da questi presupposti. La Sud può fare di più, credo sia indubbio. Lo dice la sua storia e lo dimostrano i momenti di picco che anche oggi si sono registrati.

Nota a margine: le sfide con le grandi squadre portano, inevitabilmente, anche un’annacquamento del pubblico. Ed è purtroppo chiaro che in tanti abbiano preferito biglietti o abbonamenti di curva per il prezzo, più che per la voglia di fare tifo. Questo svela anche un’altra debolezza, generica, del mondo ultras italiano: il non aver saputo, da un certo punto in poi, coinvolgere la maggior parte dei tifosi presenti nei settori popolari. L’essersi chiusi in sé stessi e l’aver rallentato il processo di aggregazione, ha ovviamente lasciato molti fuori da certe dinamiche. Ha fatto sì che quella percezione di curva come luogo sacro, come tempio del tifo, sia venuto meno. Relegandola spesso solo alla scenica mitologia da stadio. Quella con cui il lunedì successivo ci si vanta al bar o a scuola di esser stati parte integrante degli ultras. Quando magari non ci si è impegnati neanche a seguire un battimani!

Nel settore ospiti, poco dopo l’inizio della partita, prendono posto anche gli ultras interisti, sistemati dietro lo striscione della Curva Nord. Il loro arrivo produce uno scambio di invettive con la curva di casa, per una rivalità che sebbene sia stata accantonata per anni a causa della differenza di categoria, non ha mai smesso di esistere. Un’antipatia dovuta anche agli intrecci di amicizie e rivalità delle due rispettive fazioni (basti pensare, ad esempio, al furto di una pezza degli Ultras Plaitano avvenuta nel 2005 prima un Inter-Reggina), che mette un po’ di pepe al confronto curvaiolo.

Ora, cerco di essere onesto anche sui bauscia: per tanti anni li ho visti davvero in grande difficoltà, almeno in trasferta. Capisco perfettamente che coordinare quella miriade di occasionali non sia per nulla facile, ma si percepiva anche una certa disorganizzazione lontano da San Siro. Devo dire che, invece, negli ultimi tempi il progetto unitario ha saputo ridar dignità anche all’aspetto canoro (oltre a confermare i meneghini tra clienti meno comodi da trovarsi di fronte). Sicuramente non si assisterà a una magistrale e ribollente prova in stile Boca Junior o Partizan Belgrado, ma la parte di settore dove sono sistemati gli ultras tifa costantemente fino al ’90. Venendo ben coordinata da un paio di tamburi e coinvolta con una certa veemenza dai ragazzi con i megafoni in mano.

In campo le cose si mettono subito bene per l’Internazionale, con Gosens che dopo 6′ trova il vantaggio. Eppure, malgrado tutto lasci pensare a un facile successo, tutto vira nel modo più inatteso. I nerazzurri sciupano di tutto e di più con gol sbagliati a porta vuota e interventi fenomenali di Ochoa, fin quando non vengono raggiunti da un cross sbagliato dall’ex Candreva. Classica punizione che fa letteralmente esplodere l’Arechi, proprio quando anche il più ottimista dei presenti aveva cominciato ad archiviare nella propria mente la sconfitta. Un gol che vale quanto una vittoria e che certamente rende la Pasqua dei supporter campani più che soddisfacente.

Grande giubilo al triplice fischio e di nuovo strade intasate, stavolta per celebrare un uovo di Pasqua in cui è stata trovata una sorpresa imprevista. Il mare granata marcia parallelamente a quello fatto di acqua e onde, poco più in là. Fieramente l’uno parte dell’altro. Quei ragazzi impegnati qualche ora prima alla stazione di Torrione avranno abbandonato il pallone per dar voce alle loro ugole. Indossando l’elmetto e cercando di difendere la propria passione. Del resto il loro quartiere deve il nome al Forte Le Carnale, una torre cavallaria eretta sulla costa – nei pressi della foce dell’Irno – per fronteggiare le incursioni saracene. Nonché la base del Comando Popolare costituito da tale Ippolito di Pastena, uno degli eroi cittadini seicenteschi, ribellatosi ai soprusi degli spagnoli e seguito da un discreto numero di salernitani per circa un anno. Sarà per questo che da quel dedalo di viuzze del popolo (qua, come in altre parti del Mondo) si riesce ancora oggi a difendere con ogni mezzo possibile la propria natura e la propria anima.

Di Salerno colpisce sempre la sensazione di trovarsi in un posto preciso. Ben delineato. Probabilmente si chiama autodeterminazione.

Simone Meloni