Avevo in mente un articolo sulla Curva Sud. Per la Curva Sud. Per il suo ritorno sugli spalti. Con i suoi cori, il suo sostegno e i suoi vessilli liberati nel cielo di Roma, in un tiepido pomeriggio dicembrino. Sarebbe stato bello tornare a parlare, anche se per una volta, per qualche ora e per una sola pagina Word della passione e del cuore palpitante dei ragazzi di curva. Ma il condizionale è d’obbligo, perché quel cuore è stato ancora una volta bloccato. Avvicinato all’arresto cardiaco forzato nonostante abbia del sangue perfettamente in circolazione e le sue arterie pulsino forza e amore costantemente.
“Solo 600”. Il campanello era suonato chiaro e forte il giorno prima della gara. “Motivi di sicurezza”, il leitmotiv che ormai risuona angosciante nelle nostre vite, un po’ come la sigla del TG1 alle 20. Ai ragazzi in maglia giallorossa, a quei giovincelli scesi ardentemente sul terreno del “Di Bartolomei”, importava dei limiti strutturali? Loro quando hanno visto sulle gradinate tutte quelle bandiere, tutti quegli stendardi e sentito il classico grido sull’Aida che ne ha scandito la discesa in campo per il riscaldamento, hanno provato un lungo brivido sulla schiena. La Curva Sud era là, anima e sentimento. Tutto per loro. Mentre fuori ai cancelli continuavano ad arrivare fieri ragazzi, ragazze e famiglie.
Io l’ho sentito, “Quando l’inno s’alzerà, tutto il mondo tremerà”. E ho provato un brivido anch’io. Perché quasi avevo dimenticato la sua possenza nel rimbombare. Il suono ha battuto sulla collinetta che a destra circonda il centro tecnico “Fulvio Bernardini”, ed è rimbalzata fino a centrocampo. Nel cuore dei ragazzi. “Perchè Roma ce sa fa”, dice lo splendido inno di Campo Testaccio. Mani alzate, bandiere e voce. Tutto come un tempo, tutto tornato alla normalità a sberleffo di prefetto e avventori di una tavola apparecchiata per sparecchiare il cuore del tifo romanista. Eppure. Sì, c’è un “eppure”.
“Solo per 600, mi raccomando”. Lo aveva detto la società, chissà, forse su spinta esterna, sicuramente perché la capienza massima di quelle gradinata non è superiore a tale numero. Ma qualcuno può fermare la voglia di tifo e il legame con tutto ciò che si è amato fisicamente fino a qualche mese fa e da cui si è stati allontanati coattivamente e senza pudore? Continuavano ad arrivare là fuori. “Basta, non potete più entrare, limite raggiunto”. Perché in una città e in un Paese che sono in costante ritardo nei nostri confronti e che si apprestano soltanto ad emanare e far rispettare ridicoli editti, volti più a farsi odiare che a stabilire un quieto vivere, ovviamente il ritardo non è ammesso, solo se a compierlo sono determinate categorie.
Il limite è raggiunto. E chissenefrega se alcuni bambini, in braccio ai genitori, cominciano a piangere e sbraitare. Le loro lacrime valgono la sicurezza. Non c’è dubbio. Il loro pianto innocente vale la totale mancanza di buon senso di cui questa città si è fatta ormai (in)sana portatrice. Il loro mugugno vale lo spirito ferreo di una società che di ferreo, su altri aspetti, ha ben poco. Io, uscito qualche istante, vengo fatto rientrare. “Sei giornalista? Potevi dirlo prima. Vai”. Già, dimenticavo, io ho più diritti degli altri soltanto perché annualmente pago una retta. Pace se circa duecento persone debbono rimanere a bocca asciutta, a fronte di ampi spazi vuoti all’interno.
I ritardatari, nonché in numero eccessivo, debbono restare fuori. Chi dentro, chi fuori. Lo spettacolo non può essere per tutti, anche se l’accesso è gratuito. Poco importa se fino a qualche tempo fa, con il buon senso, questo genere di situazioni si sono sempre risolte. Poco importa se questi stessi spalti, in passato, hanno visto ben oltre 600 persone affollarle. I tifosi devono rispettare le regole. Solo loro, sia ben chiaro. Perché in un’Italia che, nei suoi alti esecutori, non sa neanche dove siano di casa regole e rispetto delle stesse, si pretende che a rigare dritto e dare l’esempio siano sempre i “sudditi” e mai i “monarchi”.
Ma l’assioma individualista ed egoista che ormai abbaglia bellamente la nostra società, è un qualcosa che generalmente non appartiene ai ragazzi di curva. Siano essi di Roma, Milano, Napoli, Firenze o Torino. Non gli appartiene perché conservano ancora quel senso di solidarietà che caratterizza/va i loro interminabili viaggi in treno, o il loro vivere comune del tifo. “Non fanno entrare tutti, allora usciamo noi e si tifa fuori”. A dare una dimostrazione di civiltà ci pensano quelli che spesso i media definiscono senza scrupoli “feccia del calcio”. Una dimostrazione senz’altro più nobile di chi li ha voluti dividere e vessare in casa propria e un comportamento che smentisce, nei fatti, tutti quelli che da quel maledetto Roma-Siviglia si sono affrettati a dire che la Sud sciopera per tutelare i propri interessi e il proprio tornaconto (del resto spendere quasi 400 Euro di abbonamenti per restare a casa come può non essere uno schiribizzo per reclamare la propria egemonia e tutelare chissà quali loschi traffici?).
O tutti o nessuno. Come farebbe una famiglia che vede un nipote, un cugino o un fratello rimanere fuori. Si chiama solidarietà. Mentre dall’altra parte c’è chi architetta tutto questo con fare, quello sì, malevolo, dando in pasto all’opinione pubblica una tutela di diritti base che in realtà vengono calpestati e violentati. Mentre un presidente viaggia da Boston a Roma parlando di incontri prefettizi e tavoli in Questura, salvo poi farsi sbeffeggiare dal Prefetto stesso (che, stando a quel che dice, riceve “cani e porci”) e trionfare nella battaglia dell’immobilismo che, evidentemente, lo vede finora netto vincitore. Ci si chiede a cosa siano servite le parole al vetriolo di Baldissoni, qualche mese fa, se poi la società non gli abbia dato seguito con i fatti? E ci si chiede come faccia la stessa società a pretendere il rispetto e la benevolenza dei tifosi se poi, anche in queste occasioni, è pronta a lasciarli fuori dai cancelli senza batter ciglio, persino di fronte a poppanti che indossano la maglia giallo ocra e rosso pompeiano (seppur quest’anno abbia un grado cromatico più simile a quella del Torino)?
È il 30′, la Roma conduce 1-0. Lo spettacolo è finito. Si esce e si continua fuori. “Vergognatevi” è l’esclamazione più gettonata, prima dello scroscio di applausi che accoglie l’uscita dei ragazzi della curva. “La Sud non abbandona la propria gente”, grida qualcuno, prima di riunirsi nel piazzale e strillare a gran voce la propria rabbia. Senza però cadere in provocazioni e sempre esternando i propri sentimenti con compostezza e civiltà. Nonostante l’ennesima ingiustizia subita. Sì, perché noi possiamo parlare fino a domani di questo benedetto limite di capienza e di questi benedetti motivi di sicurezza, ma chi pensa sia giusto lasciare dei tifosi fuori, per giunta per una partita di Youth League, senza tifoseria avversaria e in un clima fondamentalmente di festa, ha capito davvero ben poco. Quel poco che basterebbe per accaparrarsene il consenso, quel poco che (forse volutamente?) non si fa, scaturendo proprio l’effetto contrario.
Nessuno di certo pensa che l’AS Roma sia in grado di andare in Prefettura a fare la parte del leone e far cambiare idea allo sceriffo Gabrielli. Tutti sappiamo che, di fatto, Roma versa in una condizione para dittatoriale, ma è l’atteggiamento a lasciare sgomenti i tifosi. Peccato. Perché era una grande occasione. Una chance per dimostrare quanto l’unità della tifoseria fosse importante per tutti, società compresa. E il messaggio che è passato non è affatto questo. Semmai si è acuita la spaccatura e in tanti, in troppi, sono convinti che la gloriosa storia della Curva Sud sia ormai giusta al capolinea. Uccisa dalle scelte autoritarie di istituzioni più degne di un regime totalitario, sia chiaro, ma anche lasciata a sé stessa da chi l’avrebbe dovuta quantomeno spalleggiare. E spalleggiare la battaglia della Sud non vuol dire fiancheggiarne anche i comportamenti sbagliati che in passato può aver tenuto. Siamo tutti esseri umani intelligenti e credo siamo tutti in grado di capire ciò.
Finisce così amaramente questo pomeriggio. Passato con estrema facilità dal clima festoso e allegro all’aria pesante che ormai avvolge quasi tutte le partite della Roma. Mi spiace che qualcuno, stamattina, si sia sbrigato a parlare di “contestazione a Trigoria”, perché più che di contestazione si è trattato di rabbia prodotta da comportamenti, atteggiamenti e decisioni ottuse e becere. Si continui pure a etichettare la Sud come il male della Roma. Del resto i fischi preventivi alla squadra, in serata impegnata nella sfida fondamentale dell’Olimpico, sono un chiaro segnale di cosa si sta perdendo e lasciando andare come nulla fosse. Così come le parole di Garcia, che a più ripresa ha rimarcato l’assenza della curva per parlare di un ambiente ostile e ovattato.
Ma chi glielo spiega a quei ragazzi delusi, a quei bambini piangenti e a tutti quei pischelletti che con occhi sognanti e bandieretta alla mano si erano avvicinati al campo per portare calore e sostegno? In fondo la vergogna sarebbero già le decine di agenti schierati in tenuta anti sommossa, manco stessero arrivando gli Unni, ma a questo ormai siamo tristemente abituati.
Ancor più vergognoso resta il tentativo di far passare per normale un’altra divisione: quella tra tifosi in orario e ritardatari (sic!). Si cominci a reinterpretare il calcio semplicemente come uno sport e si dia l’opportunità a questi ragazzi di passare un pomeriggio sereno e felice. Lo avete capito che soffrono più di tutti nello stare lontani dall’AS Roma 1927? Non sono bambini viziati che fanno i capricci. Tanti sono uomini adulti e vaccinati. Si inizi a vederli come tali e si rispetti la loro dignità. Oltre che il loro diritto al dissenso. Garantito dalle più basilari norme costituzionali ma, di fatto, irriso di volta in volta.
“Sono gli altri a decidere per noi”, diceva Proust. Vero. Ma a nessuno piace rimanere in balia di questi “altri”. Tirar fuori le unghie e i denti per difendere un proprio patrimonio è un qualcosa di legittimo e doveroso. Se avverrà il contrario sarà una delle tante dimostrazioni di come Roma sia morta e sepolta. Inghiottita dai propri carnefici e resa triste e pallida come un cadavere appeso in Piazza del Popolo, in attesa che il boia lo deponga nella più squallida delle fosse comuni.
Simone Meloni.