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La Cloaca Massima è, con tutta probabilità, il più antico impianto fognario presente sulla faccia della Terra. Si trova a Roma, opera ed eredità di Tarquinio Prisco, uno degli ultimi re della Città Eterna. È ovvio, oltre al suo significato storico e sociale (prima di numerose opere tese a urbanizzare l’allora piccolo centro cittadino sorto sulle rive del Tevere) l’impianto aiuta ormai da due millenni a far defluire il guano capitolino, funzione praticamente vitale, soprattutto in tempo di consumismo e iper produzione come i nostri.

Nelle notti d’estate, camminando per le vie della Suburra, sui tombini chiusi dalle lastre bucherellate, si posso udire alcuni squittii. Sono degli animaletti che popolano i sotterranei della città e che nella notte, quando nessuno è in giro e diversi negozi lasciano i sacchi dell’immondizia appoggiati alle loro porte, escono fuori, per rubare una buccia di banana, piuttosto che gli avanzi di una cena “erroneamente” finiti per strada.

Non sono degli opportunisti. È semplicemente la loro natura. E a essa rispondono. Vivono nell’umido e nel fetore delle fogne, pur essendo, alla base, degli animali puliti. Ma si sanno adattare a ogni situazione ambientale. Non è un caso se, assieme alle blatte, i ratti sono tra le specie designate a resistere anche in caso di guerra nucleare.

Per le vie di Roma corre la vita di tutti i giorni. Con i suoi problemi (tanti) e i paladini della giustizia desiderosi di risolverli a suon di moralismo, becero populismo e soluzioni oltre che pressapochiste, anche poco consone a quel senso di civiltà che essi pensano di propagare. Tra loro, da qualche anno, spicca indubbiamente un discutibile contenitore di opinioni, volto a far leva sugli istinti primordiali dell’essere umano. Cavalcando quella Salviniana moda del momento, secondo la quale per accaparrarsi simpatie, voti e consensi tutto è concesso: anche fomentare l’odio smorzando qualsiasi barlume di ragione. Il fine giustifica i mezzi, si diceva.

Costoro ci dicono che “Roma fa schifo”, un titolo poco criptico, che lascia ancor meno all’immaginazione e già di suo rende appieno l’idea della sua “linea editoriale” (e siamo signori a definirla così). Tralasciando il significato ancestrale di quelle tre parole messe assieme e pronunciate da un romano (un po’ come il figlio che per coprire le malefatte del padre dà della meretrice alla mamma), a colpire sono quegli squittii con cui abbiamo aperto il pezzo. Versi seguiti dal rumore delle zampette che si arrampicano su per la Cloaca Massima, emergendo e cercando di bagnare con il guano qualsiasi cosa gli capiti a tiro.

Ovviamente qualsiasi cosa venga dal basso. Che il degrado, ahinoi, sia una parte integrante della Capitale, è cosa arcinota. Che chi, travestito da vigile urbano non autorizzato voglia farsi giustizia da solo è però fatto su cui riflettere. Tra le righe, spesso poco amanti dell’italiano, di codesta fanzine rionale, gli attacchi sono sempre propugnati nei confronti del più debole o del meno abbiente. Che magari trasgredisce le regole, è vero, ma per il quale non viene descritto il sistema contorto di una città che, verbali e inchieste alla mano, ha ampiamente dimostrato come si rotoli bellamente nel fango di alcune situazioni per trarne massimo vantaggio (Mafia Capitale docet).

Allora viene preso di mira il venditore ambulante, il ragazzo che prende l’autobus senza biglietto, il barbone (a proposito, augurarsi l’arresto e la caduta in cella di sicurezza per i senza tetto è quanto di più sgradevole e disumano si possa sentire, in una città dove il problema abitativo è una triste realtà con cui fare i conti) e via dicendo. Tutti definiti “feccia”, “teppa” e altri termini cari a questo genere di “stampa”. Ovviamente guai a fornire un’analisi approfondita del “perché”, si preferisce prendere freddamente gli episodi, sbatterli sui social network e condirli con frasi demagogiche cui, purtroppo, ormai la maggior parte degli utenti sembra intenzionata a dare seguito senza riuscire a effettuare il minimo ragionamento.

Così partono campagne per fotografare le targhe di macchine in doppia fila o parcheggiate in zone di divieto (cancro da estirpare, sia chiaro, ma la giustizia fai da te, così ci insegnavano nelle lezioni di Educazione Civica alle elementari, non è mai un qualcosa di ammissibile in una società civile), oppure si scrivono articoli fotografando lavoratori comunali in pausa, attaccandoli di nullafacenza (cosa che succede, sia chiaro, ma che non può essere testimoniata attraverso una foto che non contestualizza un bel nulla e sulla quale viene costruito un pezzo becero e sensazionalista per accalappiare la Massaia di Quarticciolo).

In quelle lezioni di Educazione Civica ci  volevano insegnare che la poca educazione, il degrado e l’involuzione della specie umana, si combattono con la cultura, con dei percorsi formativi e con l’approccio rispettoso e saggio anche verso chi nella testa dimostra di aver pochi neuroni. È un peccato che un servizio, autodefinitosi “di pubblica utilità”, invece di arrivare alla radice dei problemi, istituendo costruttivi dialoghi con le istituzioni o piani di recupero seri e compiuti, si limiti ad avere come unico obiettivo la salvaguardia dei propri interessi attraverso la diffusione di un verbo fondamentalmente ignorante.

Se ci vogliamo avvicinare al contesto stadio, dobbiamo ricordare come lor signori riuscirono a costruire un caso su uno striscione per il piccolo Marco, morto nella stazione metro di Furio Camillo, definendo quell’atto oltre che incivile, “inquietante e fascista” in base al ‘font’ con cui la scritta era stata composta (http://www.romafaschifo.com/2015/07/quella-inquietante-scritta-fascista.html). Che poi si trattasse semplicmente di un omaggio a una giovane vita scomparsa in maniera crudele, poco importa. La mannaia del boia socialnetworkizzato si era già abbattuta senza azionare minimamente gli ingranaggi mentali e, inoltre, riportando nel succitato articolo diverse inesattezze frutto di un’informazione sommaria e pressapochista, cavallo di battaglia di questa congregazione del bene e della moralità.

Ma non ci fermiamo lì. Gli squittii devono continuare e, attualmente, non si conoscono trappole o formaggi avvelenati in grado di arrestare la corsa al click. Nonostante in più di un’occasione la pagina Facebook sia stata bannata per incitamento all’odio razziale. E nonostante il Gran Vizir di tutta questa coordinata orchestrina sia finito diverse volte al centro di scabrose vicende o inchieste sul perché alcuni ingranaggi del suo giornaletto siano oleati in una certa maniera (a tal proposito l’inchiesta di Dinamo Press potrebbe/dovrebbe essere più che esplicativa: http://www.dinamopress.it/inchieste/cosa-fa-davvero-schifo-a-roma).

Altri squitti sui tifosi sono stati quelli riguardanti l’idea dell’avvocato Lorenzo Contucci di metter su una vera e propria campagna contro la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. In particolar modo, il modus operandi che ha scandalizzato i soliti noti, inducendoli alla risalita dalla Cloaca Massima, è stata la volontà di creare adesivi e volantini per pubblicizzare l’iniziativa. Se fossimo in un posto normale non dico che ci si unirebbe alla protesta, ma quanto meno se ne cercherebbero di capire i motivi, dal momento in cui se ci si erige a paladini dell’ordine cittadino, sicuramente si ha interesse affinché non si creino Italia ’90 bis e i suoi impianti non vengano gestiti come lager. Ma no. Qua parliamo di soggetti per i quali i lager sono un modello da seguire. Fosse per loro ne aprirebbero uno per ogni angolo del Grande Raccordo Anulare.

Così è subito partita la grancassa dei tag. All’Ordine degli Avvocati, alla Roma, alla Lazio, al Comitato Olimpico e chi più ne ha più ne metta. Un reazione fortificata, qualche giorno più tardi, dalla ferma condanna per gli affissori di uno striscione su Spalletti in zona Colosseo. “Prenderli, metterli dentro e buttare la chiave”, ci hanno detto i paladini. Dimenticando alcune cosucce fondamentali: le vie e le piazze delle nostre città, da sempre sono l’espressione popolare del dissenso o del pensiero popolare su ogni argomento. Vietare uno striscione, una frase o un concetto, è leggermente più grave che sopportare lo striscione stesso. Si chiama civiltà, pensate un po’, la stessa per la quale dite di vivere e battervi.

Ma il “radical chic” pomposo e profumato non solo non capisce tutto ciò, ma è ovviamente il primo fautore dell’enorme chiusura mentale e di spazi sociali che lentamente sta stritolando Roma, come le altre città d’Italia. È l’interlocutore con cui non poter parlare, perché fermo sulle sue strane idee e convinto che chi gli stia davanti sia per forza di cose un minus habens.

Quando eravamo bambini e giocavamo a pallone per le strade (senza nessuno che definisse ciò contrario alla morale comune) c’era una parola che tutti stavamo attenti a pronunciare. Perché era grave puntarla contro qualcuno. Poteva provocare una damnatio memoriae non indifferente: Infame (agg. [dal lat. infamis, comp. di in2 e fama «fama»]. – Di persona che, per aver compiuto azioni particolarmente turpi e spregevoli, si è resa indegna della pubblica stima) era l’aggettivo da utilizzare proprio come extrema ratio. Quando ci si macchiava di qualcosa difficilmente ripulibile. Come rubare al più debole senza capire le sue debolezze, o picchiare chi non reagiva senza capire il motivo delle sue mancate reazioni.

Oggi che tutto ciò praticamente non esiste più, è diventato socialmente accettato essere infami. Perché l’infamia, così ci stanno dicendo tra le righe, porterà ordine e rispetto nella società odierna e in quella del futuro. Inoltre, è sempre più semplice far fuori una decina di ragazzi che affiggono uno striscione di fronte al simbolo della città, piuttosto che analizzare e contrastare fenomeni di abusivismo e illegalità ben più grandi e certamente capisaldi e giustificatori per quelli più piccoli e accessori. Del resto è giusto che ognuno guardi bene ai propri tornaconti, senza interpellarsi sulla validità e l’etica con cui partorisce talune amenità. Nulla di nuovo all’ombra del Colosseo. Neanche gli striscioni. Per quelli, dovremmo condannare e decapitare anche la statua di Pasquino, che in fondo è stato padre e ispiratore del pensiero di una comunità un tempo definita per antonomasia irriverente e turbolenta.

Simone Meloni.