Chi non muore si rivede
Sette. Sono gli anni passati dalla mia prima sortita in terra d’Ucraina. Sempre Shakhtar Donetsk-Roma. Ma alla Donbass Arena, da poco inaugurata. Sempre scali lunghi. Aerei, treni e autobus. Pezzi di vita mai scritti su nessun foglio ma ben scolpiti dentro e immortalati in istantanee stipate in memorie digitali.
L’arrivo in quell’Europa dell’Est così strana e diversa. La porta d’accesso all’Oriente e le sue bizzarre contraddizioni. Il suo cibo consumato con pochi spiccioli e la sensazione di passare in un’altra dimensione, quella che i nostri padri ci hanno sempre descritto con un velo di mistero. Tipico di chi è cresciuto negli anni della Cortina di Ferro, della Guerra Fredda e di quel Novecento che, giocoforza, per noi tutti rappresenta il mito a portata di mano. Nel bene e nel male.
E poi Kiev, Odessa, Dnipropetrovsk, a scandire quelle giornate. I biglietti del treno faticosamente acquistati traducendo dal cirillico su dei fogli volanti gettati sui banconi delle biglietterie. Preoccupati di farsi capire e certi di ricevere uno sbuffo scontento da parte dell’interlocutore. Tipico di quell’indolenza che a queste latitudini cozza sempre molto con lo stereotipo del lavoratore stakanovista e integerrimo.
Un solo rimpianto, oltre a non aver messo piede in Crimea: non aver lambito Leopoli, all’estremo ovest del Paese.
Ricomincerà da là il mio viaggio. Ricomincerà con un percorso arzigogolato, difficoltoso sin dagli albori. Come nelle mie migliori tradizioni. E stavolta sarà quasi totalmente in solitaria. Io, la valigia e un discreto freddo ad accompagnarmi per l’Ucraina.
Il primo impatto è subito spinoso e mi porta, ovviamente, a discutere con un tassista locale. Se doveste mai utilizzare un taxi da queste parti, dimenticatevi i tassametri e portate tanta pazienza e voglia di contrattare. Dato che io di queste virtù ne posseggo in qualità davvero limitata, le volte successive mi affiderò sempre ai mezzi pubblici. Una volta arrivati alla stazione, scendo dalla macchina e saluto il simpatico tizio che si congeda lanciandomi ogni tipo di anatema nella sua lingua madre.
Il bel sole ammanta una Leopoli imbiancata dalle corpose nevicate dei giorni precedenti. Avendo in serata il treno per Kharkiv ho l’opportunità di addentrarmi per il centro cittadino. Siamo a pochi chilometri (circa settanta) dal confine con la Polonia e in una zona da sempre vero e proprio snodo cruciale per la politica del Paese. Basti pensare che solo negli ultimi centocinquanta anni questo centro è passato sotto l’egida di ben quattro Stati: Impero Austroungarico, Polonia, Unione Sovietica e Ucraina. La sua “versatilità” è facilmente riscontrabile anche nelle diverse nomenclature con cui è riconosciuto in Europa. Lviv per gli Ucraini, Lwow per i polacchi, Lemberg in tedesco e Leopolis in latino.
Respiri quest’aria di commistione culturale vedendo le cupole delle chiese ortodosse all’orizzonte e camminando per le strade e le piazze agghindate in diversi stili europei.
Guerre, politica e bandiere
La città è tutta un susseguirsi di bandiere ucraine esposte dalle finestre e nelle piazze principali. Proprio in questi giorni, infatti, parte del Paese ricorda la Rivoluzione del 2014, quella dei sanguinolenti scontri tra sostenitori dell’Euromaidan e oppositori. Tumulti che di fatto aprirono la dolorosa faglia che ancora spacca l’Ucraina in due e che diede il via a una crisi, non solo diplomatica, con la Russia.
Un conflitto che è tenuto volutamente lontano dalle nostre frequenze. Troppo disdicevole far sapere che nella “benestante” e civile Europa ci siano tensioni così grandi da produrre ancora morti ammazzati, città sotto assedio e povertà esattamente come un secolo fa. Soprattutto quando ne è anch’essa causa e parte integrante.
Non è una novità. Chi ha valicato le Alpi Giulie anche una sola volta, conoscendo minimamente la storia degli ultimi 20/30 anni, sa bene che notizie e verità non convenzionali da quell’area, difficilmente filtrano verso il nostro Paese.
Voglio evitare di scendere nel merito politico della questione, anche perché non sarei in grado di destreggiarmi al meglio e si rischierebbero comunque facili strumentalizzazioni. Ciò che mi interessa, come sempre, è studiare il costume sociale di una popolazione e carpirne gli aspetti più intrinsechi. Andando ben oltre lo stereotipo e il sentito dire.
Ne parleremo anche più avanti, quando occorrerà descrivere l’esilio forzato dello Shakthar dalla Donbass Arena. Di sicuro però l’aria che si respira in Ucraina appare più scossa rispetto al mio primo viaggio. E ciò sarà confermato nei restanti giorni della mia permanenza, con il fondamentale passaggio in una Kiev visibilmente specchio degli attuali equilibri geopolitici.
Leopoli è anche la città del Karpaty Lviv, squadra che nei suoi 55 anni di storia può vantare una sola Coppa dell’Unione Sovietica ma che, di contro, possiede una delle tifoserie più corpose e attive del Paese. Banderstadt Ultras è l’insegna dietro cui si riconosce il tifo organizzato biancoverde. Con il campionato fermo e il Karpaty fuori da ogni competizione europea non avrò opportunità di vederli all’opera.
Un peccato per un “partitellaro” incallito come il sottoscritto, ma anche la mancata opportunità di entrare in contatto con una delle tifoserie che più sono state chiamate in causa nel conflitto di cui sopra. Come spesso succede nei Paesi dell’Est c’è infatti sempre un filo sottile che lega gli ultras alle vicende politiche nazionali. Non faccio una grande rivelazione dicendo che quasi tutti i gruppi dell’ex blocco sovietico sono generalmente di tendenza nazionalista. Così come non scopro l’acqua calda nell’evidenziare quanto, per stessa ammissione di alcuni loro componenti, le tifoserie di Leopoli e Kiev siano e siano state “fisicamente” invischiate negli eserciti paramilitari ingaggiati e riconosciuti nello scontro contro i separatisti filorussi.
È un mosaico contrito e difficile da analizzare scevri da qualsiasi pregiudizio, soprattutto per noi occidentali che non lo viviamo quotidianamente. Mi permetto di dire, anzi, che dal nostro pulpito è troppo facile tacciare di “fascismo” o “comunismo” questo o quell’altro schieramento. Facile e profondamente sbagliato. Fondamentalmente perché questi termini hanno significati differenti per noi e per loro.
Potrei fare un parallelismo abbastanza sempliciotto ma che rende l’idea: una volta cadute le dittature naziste e fasciste nell’Europa occidentale, tutto ciò che anche lontanamente si avvicinasse al ripristino delle stesse è stato combattuto e, soprattutto nei primi decenni post-bellici, a livello giovanile, un po’ in tutto il Vecchio Continente sono stati i movimenti sinistrorsi a farla da padrone, come veemente reazione a suddetti totalitarismi. Se volgiamo lo sguardo ad Est possiamo dire che è successa più o meno la stessa cosa dopo la caduta del comunismo. Sebbene con la preminenza del colore politico di segno opposto.
Ora, il mio non vuol essere un paragone tra “rossi” e “neri” ma una maniera molto banale e “terra terra” di porre la questione e astrarsi da giudizi sommari. Anche quando si guarda una curva e la si vede imbandita di colori politici. Del resto, al di là di facili sussulti per un simbolo estremo, bisognerebbe rammentare come solo qualche anno fa nei Paesi del Maghreb, i tifosi organizzati siano riusciti ad innescare e capeggiare vere e proprie rivoluzioni. E mai come in questi casi un concetto letto spesso sui libri di Valerio Marchi riecheggia fermamente veritiero: le curve sono lo specchio della società.
Fuorviante ragionare con la mentalità italiana, dove nel 2018 portare la politica in curva è un qualcosa di totalmente astruso da un contesto sociale che politica non sa farla neanche più nelle piazze e che vede l’aggregazione curvaiola come un qualcosa da combattere a priori.
In treno verso Kharkiv
Senza incartarsi troppo, riavvolgiamo lentamente il nastro e torniamo all’origine dell’articolo. Nel bel mezzo di questa digressione, che fondamentalmente faccio mentre mi perdo tra l’Arsenale e l’Università alla ricerca di un posto dove mangiare, trovo anche il tempo per ricordarmi della partita del giorno dopo in quel di Kharkiv. Nonché di prepararmi per il viaggio in treno, con una stanchezza addosso non indifferente.
Leitmotiv di tutto il mio soggiorno ucraino sarà la battaglia (ovviamente persa) per comunicare e farmi capire. L’inglese lo parlano in pochi (non che io sia madrelingua, sia chiaro) e quasi tutti cercano in me la scappatoia del russo. “Niet” è l’unica cosa con cui posso replicare e si finisce sempre per spiegarsi a gesti. Comportamenti tribali che in fondo mi restituiscono una versione animalesca e primordiale dell’essere umano.
La colonnina è ampiamente sotto lo zero quando il mio treno arresta la propria corsa sul binario. Una volta trovata la cuccetta posso finalmente coricarmi, non prima però di aver scambiato quattro chiacchiere (si fa per dire) con i miei compagni di viaggio: un’allegra famigliola ucraina alquanto divertita nel vedere un italiano alle prese con i loro treni. “Football?” mi chiede la signora. Annuisco, prima di aprirmi una birre utile a conciliare il sonno e fare tutto d’un fiato mille chilometri su rotaia.
Ore 8:35: Kharkiv è proprio al di fuori del mio finestrino. La seconda città più popolata del Paese (oltre 1.400.000 abitanti), già capitale della Repubblica Sovietica Socialista Ucraina dal 1917 al 1934, nonché per anni primo centro per la produzione di mezzi dell’Armata Rossa.
Calcisticamente? La patria del Metalist, attualmente risorto dalle ceneri del club fallito due anni fa e ripartito dalle serie dilettantistiche. Proprio dopo alcune stagioni sulla cresta dell’onda, grazie all’ingresso – nel 2005 – di una proprietà parastatale che aveva portato il club ai vertici del calcio nazionale e a una costante partecipazione alle coppe europee (ne ha nitidi ricordi la Sampdoria, che diversi anni fa venne eliminata dagli ucraini proprio in Coppa Uefa).
Siamo a un tiro di schioppo dal confine con la Russia e a poco meno di trecento chilometri da Donetsk. Lo Shakthar è di fatto una squadra esiliata da quattro anni e soltanto da poco è riuscita a riavvicinarsi minimamente a casa, dopo diverse stagioni trascorse proprio a Leopoli. Dove il mio percorso è iniziato e dove finirà, a cesura di un viaggio che non ha mancato di mettere apposto tutti i tasselli del mosaico socio/calcistico.
Curioso destino quello della Roma di questa stagione, che tra le quattro squadre sinora affrontate è riuscita nell’impresa di pescarne due attualmente “nomadi”. Nel girone i giallorossi avevano infatti affrontato il Qarabag, lontano da Agdam da ormai venticinque anni.
Di Donetsk ho ricordi nitidi quanto particolari. Una città che sembra un bazar a cielo aperto, oggettivamente non bella e vistosamente adattata all’industria siderurgica. Unica costruzione “atipica”, tra le decine di palazzoni in stile sovietico e qualche immensa statua dedicata ai minatori, era proprio la Donbass Arena, che quell’anno aveva appena sostituito lo storico stadio dello Shakhtar.
Il club ha dovuto abbandonarla nel 2014 quando fu colpita e parzialmente distrutta da una forte raffica di artiglieria. Donetsk infatti è attualmente capitale di uno Stato a riconoscimento limitato: la Repubblica Popolare di Donetsk. Sorto nel 2014, assieme alla Repubblica Popolare di Lugansk, con l’inizio della Guerra del Donbass tra esercito ucraino e separatisti filorussi, attualmente ancora in corso.
Esili , contrasti e società
La partenza dello Shakhtar (così come quella dell’Olimpik, altro club cittadino) dalla propria città natia ha prodotto due tipi di reazioni, entrambe negative per il club come ben spiega un articolo di Damiano Benzoni per “Il Romanista”: “Il governo ucraino accusa il patron Rinat Akhmetov di aiutare in segreto la Repubblica Popolare, dato che la squadra ha rifiutato di prendere parte a iniziative celebrative a favore dell’esercito ucraino e dei suoi veterani e visto che l’oligarca manda ogni settimana cinque camion di aiuti alla popolazione di Donetsk da quando Kiev ha chiuso i rubinetti. I filorussi invece hanno bollato lo Shakhtar come un traditore, promettendo che non permetteranno mai alla squadra di tornare. Le proprietà di Akhmetov nell’area controllata dalla Repubblica Popolare sono state confiscate dalle autorità”.
Infine, se penso a Donetsk non posso che rammentare un fantastico pomeriggio passato fra i palazzi popolari di una amena zona della città. Un luogo “magico” dove la proprietaria di una casa affittata per l’occasione, pensò bene di dissolversi nel nulla lasciando me e i miei amici a meno dodici gradi sotto lo zero e con il pauroso spettro di una notte da degrado post-sovietico. Timore accentuato dalla sua risposta al telefono: “Se avete problemi chiamate la polizia!”.
Ma a queste latitudini di una cosa si può sempre esser sicuri: dietro una sòla c’è sempre qualcun’altro pronto ad accontentare il tuo bisogno. Ovviamente in cambio di altri soldi. E così fu.
Dipanato almeno sommariamente il contesto in cui la sfida si andrà a disputare e detto della fragorosa caduta del Metalist nelle categorie inferiori, gli unici che sembrano aver preso di buon grado la presenza dello Shakhtar in città sono proprio gli ultras della squadra locale, apparentemente interessati a “dar la caccia” alle tifoserie ospiti.
Dopo gli incidenti registratisi contro il Feyenoord, durante il girone, in città non sembra fondamentalmente esserci molta preoccupazione. Ma anche qui occorre quanto meno una specifica: la quantità di polizia e militari dislocata in ogni angolo delle città ucraine è a dir poco impressionante. Forse paragonabile a quanto visto a Mosca e sicuramente superiore a sette anni fa.
È vero che la ricorrenza della Rivoluzione del 2014 ha fatto concentrare centinaia di militari in tutte le stazioni (diretti probabilmente a Kiev, più precisamente in Piazza Indipendenza) ma è altrettanto vero che si ha la netta percezione di essere in un Paese non proprio in pace.
C’è quel tocco europeizzante di negozi kitsch e fashion che di certo non bastano per far perdere l’aspetto fortemente orientale di questi posti. Fortunatamente aggiungo. Non è mai bello, infatti, notare l’omologazione e l’anonimato di tutte le più grandi arterie urbane, ormai dotate degli stessi negozi, degli stessi spazi e degli stessi svaghi. Una dannosa corsa a scimmiottare l’Occidente, con il serio pericolo di perdere in un battibaleno le proprie tradizioni.
Una deriva riscontrata anche nel cibo locale, ormai più difficilmente reperibile rispetto a sedicenti ristoranti italiani (sic!) ed esercizi commerciali dal dubbio gusto.
C’è poi anche la strana considerazione spazio/temporale della gente. Mi spiego meglio, perché è un qualcosa che ho sempre notato nell’Est Europa: esiste la sana abitudine di mettersi in fila per cose che, con tutta probabilità, noi italiani non ci sogneremmo neppure lontanamente. Vedi alla fermata dell’autobus, dove tutti si accodano aspettando il proprio turno per salire sulla maršrutka. Di contro, però, non si ha tempo, per esempio, di attraversare le strisce in maniera normale o perdere un solo secondo in più per svolgere una qualsiasi mansione che preveda una fila. Pena minima gli insulti e le invettive (quanto meno incomprensibili).
A proposito, non mi dite che non sapete cosa sia una maršrutka: si tratta di un servizio di taxi collettivo svolto in quasi tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico. Un pullmino da 9 o 14 posti, generalmente di colore giallo, che effettua percorsi simili a quelli degli autobus, implementando così il servizio di trasporto pubblico. Questo mezzo si è fortemente sviluppato dopo la caduta del comunismo, quando al trasporto urbano è stato sottratto molto del finanziamento esistente fino ad allora. Pur essendo efficiente e alquanto veloce (del resto l’autista, un privato, guadagna in base al numero di passeggeri trasportati) conserva uno dei tipici aspetti pittoreschi dell’Est: le fermate vengono prenotate a voce. Quindi, da forestieri, vi può tranquillamente capitare di sobbalzare vedendo omoni dagli occhi di ghiaccio gridare: “Na ostanovkie pajalusta” (“Alla prossima fermata”).
Partite a orari improbabili
Già dalle prime ore del mattino alcune sciarpe giallorosse fanno la loro apparizione per i vialoni di Kharkiv, mentre l’iniziale cielo azzurro lascia lentamente spazio a nuvole cupe e a una temperatura a dir poco rigida. Non sembra interessare poi tanto alle squinzie locali, che senza problema sfoggiano maniche corte e persino qualche gonna.
Con la partita in programma alle 21:45 locali, assieme ad altri amici raggiunti al mio arrivo, abbiamo il tempo di girare per la città, mangiare e preparare tutto il necessario per andare allo stadio. Il fischio d’inizio posticipato rispetto all’orario italiano mi costringe a calcolare al dettaglio i tempi dopo la fine del match, quando dovrò correre in stazione per salire sull’ultimo pullman diretto a Kiev. Ma questa è un’altra storia. L’ennesima che mi farà scontrare con i “virtuosi” tassisti locali.
Il Metalist Stadium è stato ristrutturato nel 2012, in occasione degli Europei ospitati assieme alla Polonia. Rassegna continentale che ha lasciato le proprie tracce su qualche palazzo attorno all’impianto, ancora leggermente decorato con i loghi ufficiali. Così come da antiquariato, purtroppo per loro, risultano le effigi del Metalist affisse sempre sui palazzoni. Sul gusto di decorare interi edifici in questa maniera ne potremmo discutere, ma apriremmo un lungo dibattito sull’architettura popolare sovietica. E probabilmente parleremmo per ore concordando sulla sua atavica bruttezza. Tanto antiestetica quanto affascinante però.
Anche Kharkiv è “addobbata” con numerose bandiere ucraine e nella sua immensa Piazza della Libertà, a pochi passi dalla statua del poeta Ševčenko, si erge un bandone che commemora il Battaglione Azov, raggruppamento militare formato prevalentemente da volontari e attualmente inglobato nelle formazioni militari ucraine, impegnato principalmente nella Guerra del Donbass. Tra le sue fila militano e hanno militato diversi esponenti delle tifoserie organizzate locali. E non è un caso se in quasi tutte le curve ucraine sventolino bandiere con il suo simbolo, oltre a quelle con il rossonero dell’UPA, l’Esercito Insurrezionale Ucraino fondato nel 1942 dal controverso leader dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, Stepan Bandera, con l’intento liberare il territorio ucraino dai sovietici.
In tanti passano là vicino e si fermano a leggere, omaggiando i militari caduti. Mi viene da ripetere: l’Ucraina è una nazione in guerra e forse fa parte di quelle aree del mondo che difficilmente riusciranno ad avere, primo o poi, degli equilibri ben precisi. Profondamente dilaniata dalla sua compressione tra Est e Ovest e ancora lontana da una stabilità sociale.
Come detto il calcio d’inizio è previsto per le 21:45. Una scelta tanto stupida quanto dannosa da parte della Uefa. Ennesima dimostrazione, peraltro, di come per la parte orientale del continente ci sia sempre minore considerazione. Scendere in campo poco prima delle 22, il 21 febbraio, con la temperatura che arriverà sino a dieci gradi sotto lo zero, come può essere sensato?
Non ho neanche il tempo di chiedermelo, essendo impegnato a capire come difendermi dalle folate polari di vento. Nel frattempo lo stadio si va riempiendo, saranno circa 40.000 gli spettatori. Credo neanche la metà provenienti da Donetsk. Questa mia deduzione è figlia della scarna partecipazione al match da parte dei presenti.
Sembra di essere entrati in uno stadio dell’Est Europa una ventina d’anni fa. Se si fa eccezione per un volenteroso gruppetto posto alla mia sinistra, formato dagli ultras della Shakhtar ovviamente a ranghi ridotti, il resto dello stadio segue la partita quasi in silenzio, rumoreggiando di tanto in tanto quando la squadra di casa segna o attacca. Un ambiente non indimenticabile, ma era impossibile aspettarsi qualcosa di diverso. Inoltre, anche a livello ultras, la tifoseria di Donestsk non è esattamente la più rinomata d’Ucraina.
I romanisti e to be continued…
Nel settore ospiti sono circa 300 i presenti. Un numero discreto, anche se forse leggermente inferiore a quanto prevedibile. È vero, arrivare a Kharkiv direttamente non era affatto impresa facile: voli alla modica cifra di 300 Euro, minimo una giornata di lavoro da sacrificare e freddo assicurato. Di contro si tratta pur sempre di un ottavo di Champions League con la possibilità di accedere ai Quarti, un risultato cui la Roma non è certamente abituata.
Comunque molto bella la disposizione delle pezze, che colora tutto il settore assegnato ai supporter capitolini. Così come notevole è l’esultanza al provvisorio vantaggio di Under, nel primo tempo. Un grido che sembra scrollarsi di dosso un gelo che lentamente penetra anche nelle più anguste fessure degli abiti. A livello canoro gli ultras della Roma offrono una performance luci e ombre: buoni picchi soprattutto nel primo tempo e qualche pausa di troppo in generale. Il mio è un giudizio non positivo che verte soprattutto su un concetto: una tifoseria come quella della Roma, abituata a viaggiare in grandi numeri, in una situazione come questa, con 300 unità quasi tutte ultras, aveva davvero l’opportunità di mettersi in evidenza in maniera maiuscola.
Per la cronaca la partita finirà 2-1 per lo Shakthar, che ribalta il risultato nella ripresa.
Quando l’arbitro porta il fischietto alla bocca e decreta la fine, io fuggo letteralmente per non perdere il pullman. Per i tifosi romanisti non sarà esattamente così. Le autorità ucraine li terranno nel settore per circa un’ora. Una vera e propria punizione, considerato il clima. Scelta forse dovuta anche a qualche piccolo contatto avvenuto prima del match con i supporter del Metalist.
La prima parte di questo mio viaggio sta per terminare. Così come la mia permanenza a Kharkiv. Mi aspetta Kiev, la capitale, dove assisterò alla sfida tra Dinamo e AEK, potendo mettere un altro importante tassello alla mia conoscenza calcistica.
Il torpedone parte caricando diversi tifosi con la sciarpa arancionera. Scenderanno nelle città successive, in stazioni che sembrano abbandonate dal Signore, dove solo piccoli chioschetti e qualche senzatetto osano resistere con fare spavaldo.
Vedo tutto ciò nel dormiveglia. Fin quando non trovo la posizione per riposarmi qualche ora e sentire lontanamente la steppa scorrere al di fuori del finestrino. Fuori fa sicuramente freddo e la neve rende tutto il paesaggio uniforme. Eppure questa terra è uniforme solo in superficie e il candore del suolo invernale nasconde ferite e buchi che per me continuano a rappresentare dei veri rompicapo da interpretare e raccontare.
Mentre il calcio continua a fare da musica di sottofondo.
Simone Meloni