Il Friuli, per uno che è di Roma, non è una terra di passaggio. Un luogo dove casualmente transitare. Quell’angolo d’Italia, che confina con i Balcani e con il mondo germanofono, è impegnativo da raggiungere e per questo a tratti suggestivo e fascinoso. La lieve, per modo di dire, scarpinata che mi conduce fino a Udine è di quelle strong, che richiedono l’antica elasticità corporea propria dei sedici anni. Ma su questo fronte, devo dire, forse ho molta più sopportazione oggi. Così le nove ore di viaggio scorrono tranquille, con l’Italia avvolta dal buio notturno che accompagna i sogni delle case poste al bordo dell’autostrada.
Udine dorme alle otto di mattina. Com’è giusto che sia. Se da piccolo tuo padre ti ha fatto vedere almeno una volta un ragazzotto brasiliano con una maglia bianca e una banda nera nel bel mezzo, sai bene che da queste parti Arthur Antunes Coimbra, anche detto Zico, non solo è un dio incontrastato, ma è uno che neanche le testate al tritolo di un tale Oliver Bierhoff e i gol prepotenti di un certo Marcio Amoroso sono riusciti a spodestare. Di certo, se sei un bevitore incallito, o se ogni tanto ti fai un bicchiere per accompagnare la pizza, saprai anche che il Birrificio Moretti è nato esattamente qui.
Moretti, peraltro, era il nome dello storico impianto dove i bianconeri hanno giocato per mezzo secolo della loro esistenza. Oggi, nell’area dove sorgeva lo stadio, ha luogo un parco urbano, intitolato all’allenatore e calciatore Alfredo Foni. Un peccato, uno dei tanti compiuti nei confronti della storia pallonara. Quello stadio Moretti, demolito nel 1988, aveva la sua particolarità nello sterrato che lo circondava e che fungeva da pista per le moto da speedway. Per chi, come me, non l’ha mai visto e mai lo vedrà, resta vivo il simpatico siparietto che vede Oronzò Canà spiare di nascosto proprio Zico, impegnato al Moretti, a quei tempi usato veramente come terreno di allenamento per i bianconeri.
Ci sono gli spritz e c’è la gente che pian piano comincia ad affollare le strade. Friuli è anche il nome che porta lo stadio locale. Attivo dal 1976 e ultimamente prigioniero di mille peripezie e battaglie senza quartiere. Lo hanno trasformato, rivisto e modificato. Ne hanno accorciato i tratti più antiestetici e sistemato le tribune, apponendovi anche dei discutibili seggiolini color arcobaleno. Eppure lo Stadio Friuli porta il nome per avere memoria di una tragedia. Una terribile tragedia. Quel terremoto del 1976. Quei morti. Quelle lacrime. Storia che nessuno deve osare cancellare. Nessuna Dacia. Nessuna Arena.
Lacrime che una terra non ha mai veramente asciugato e che è sempre pronta a difendere verso chi le vuole oltraggiare o cancellare. Che siano media dalla facile dimenticanza o presidenti della squadra di calcio. La Dacia ha versato il suo obolo. Chiaro. Importante. Eppure la promessa della famiglia Pozzo era stata lapalissiana: “Il nome non si cambia”. Parole non suffragate dai fatti. Con omaggi floreali e non che appaiono un po’ ovunque per la nota casa automobilistica. Interviene anche il comune, che diffida la società dall’utilizzare il nome Dacia Arena anche e soprattutto negli atti ufficiali.
Lo Stadio dei Rizzi, dal quartiere che lo ospita, ha cambiato connotati, ma per il suo popolo non deve cambiare spirito. C’è aria di maretta. Per questo e per il momento delicato dell’Udinese, che da ormai tre anni veleggia alquanto anonimamente in campionato, avendo scalfito la proverbiale pazienza dei suoi tifosi. Stanchi. Privati di qualsiasi mordente sportivo da una presidenza che, a onor del vero, ha dato tanto a questa piazza ma, sempre nel rispetto della verità, si permette di maneggiare tre squadre in tre campionati differenti, orchestrando compravendite di giocatori da una nazione all’altra e ponendosi in una situazione alquanto ambigua per quanto riguarda quell’etica e quella lealtà sportiva di cui organi come Uefa e Fifa si fanno spesso ipocriti alfieri.
Torno da queste parti quasi dieci anni dopo. Quella volta fu contro la Dinamo Zagabria. Partita sospesa per lancio di torce da parte degli ospiti. Stadio vecchio. E tanto, ma tanto, freddo. Pizzicore marzolino che oggi è ampiamente attenuato da un sole che, con il trascorrere delle ore, si fa sempre più caloroso, quasi a voler salutare il sopraggiungere della carovana giallorossa, in marcia dalla Capitale per spalleggiare la banda di Spalletti, che da ormai sette partite imperversa sui terreni di gioco.
Quattromila, scrivono i giornali locali. Circa tremila, dico a occhio nudo. Un numero importante, considerata la distanza. Un numero però accentuato, anche, dalle diverse simpatie che il club capitolino ha raccolto negli ultimi anni nel Nord Italia. Effetto postumo di una globalizzazione che investe un po’ tutto, anche i gusti e le simpatie calcistiche. Di certo è una delle presenze più massicce di romanisti a queste latitudini. E forse a incidere è anche il nuovo stadio. Lo stadio Friuli, val sempre bene sottolinearlo. Unico nome ammesso e concesso. Come ricorda anche uno striscione più che veritiero apposto dai Fedayn nell’antistadio, a rimarcare, inoltre, un rapporto di reciproca stima con la tifoseria organizzata bianconera.
Gli ultras di casa, sulla scorta del malumore di cui sopra, entreranno con 15′ di ritardo. Sarà il primo passo di una contestazione civilissima che si svilupperà a fine gara e che verrà, ovviamente, enfatizzata dai soliti lacché di corte dotati di una penna o di una sedia da cui condurre i loro favoleggianti programmini del dopo gara.
Se i lavori hanno migliorato il design interno dello stadio, di sicuro le cancellate e i labirintici prefiltraggi hanno ancor più deturpato l’aspetto esteriore del Friuli. Mostrando tutto il suo volto carceriero più che quello di un luogo dove passare due ore spensierate. Ma è l’aspetto moderno. Che ci ricorda i tempi che viviamo e tutto il loro carico d’ansia per la sicurezza e il possibile attacco nucleare da parte dei tifosi organizzati.
Alle 14,45 il settore ospiti è praticamente esaurito, mentre gli occupanti dell’attigua Curva Sud, venduta sempre ai capitolini, continuano ad affluire copiosi. Si cominciano a sentire i primi cori, in un clima più che disteso. Silenzioso e tramortito su fronte udinese, dove fanno capolino soltanto due striscioni che accompagnano il primo quarto d’ora di gioco e che invitano l’undici di Colantuono a mettere in campo un maggiore impegno, rispetto a quello mostrato sinora.
La realtà dei fatti parla di una Roma padrona del campo nei primi 45′, supportata da un pubblico che, tuttavia, oggi stenterà a decollare come in altre occasioni. La macchia giallorossa infatti propone una prestazione canterina, sì, ma non all’altezza di altre situazioni. È soprattutto in fase di intensità che i romani risultano scostanti, alternando ottimi momenti a fasi in cui a sgolarsi è soltanto il nucleo ultras posizionato nella parte bassa del settore. Appare chiaro come l’effetto esodo si faccia sentire, con l’ennesima conferma che di questi tempi non sempre quantità fa rima con qualità.
Profondamente diverso il discorso su fronte friulano. I ragazzi della Curva Nord fanno il looro ingresso allo scadere del 14′ e, subito prima novità di giornata, a risuonare è nientepopodimeno che un tamburo. Sempre bello udirlo in uno stadio di Serie A, soprattutto se nuovo di zecca. In grado di rimandare la mente indietro, a tempi in cui gli strumenti di tifo erano normale routine su tutte le gradinate del Belpaese.
Gli ultras bianconeri si dispongono nella zona centrale della curva e fanno subito quadrato, dimostrandosi volenterosi di tifare e divertirsi. Una conferma netta e chiara di quanto visto la settimana prima nel settore ospiti di Frosinone. una crescita palese rispetto agli ultimi anni, dove l’unica pecca rimane senz’altro quella numerica, ma alla quale si può anche soprassedere se si pensa alle condizioni in cui versano tante curve della massima serie. Il tifo organizzato dell’Udinese c’è e si fa sentire chiaro, tra manate, cori eseguiti in maniera coreografica, cori a rispondere e canti ballati e ritmati dall’armonico battito del tamburo. Non c’è momento della gara in cui lo spicchio centrale della Nord non sia in movimento.
In campo le cose si mettono subito bene per la Roma, che trova il vantaggio con il redivivo Dzeko. Il bosniaco segna sotto il settore ospiti e corre a raccogliere l’abbraccio dei propri sostenitori, regalandomi la più facile delle foto da copertina. Nella ripresa ci pensa Florenzi a chiudere le ostilità, mentre a nulla serve la marcatura di Fernandes. Per i giallorossi è l’ottava vittoria consecutiva mentre per i friulani, ora a quattro punti dalla zona retrocessione, si palesa minuto dopo minuto una contestazione nell’aria. Voluta non solo dagli ultras, ma da buona parte dell’ambiente. Un malumore che va ben oltre il momentaccio tecnico, ma che conosce le proprie radici in una gestione societaria che negli ultimi anni ha lasciato più di qualche perplessità tra cospicui investimenti nel calcio estero e lacune nella programmazione, un tempo vero e proprio cavallo di battaglia dell’Udinese.
Il resto è storia contemporanea. Con Danilo che reagisce malamente a una situazione più che tranquilla, regalando agli sciacalli dell’informazione il più facile degli assist per parlare di ultras padroni del pallone e violenze inaudite. Violenze che non hanno mai avuto luogo. Basti pensare alle scuse del giocatore brasiliano il giorno dopo la gara e alla forte presa di posizione della Questura locale, che con un comunicato ha sottolineato come il tutto si sia svolto nel rispetto delle regole, senza margini per sanzioni amministrative nei confronti dei tifosi, e come sia stata la squadra a volersi recare sotto la curva.
Ho pensato, per un momento, che se per caso arriveranno daspo o multe a qualche ragazzo con la sciarpa bianconera, più che ad opera delle autorità preposte, saranno figlie di un processo mediatico vigliacco e ingiustificato. E la cosa mi ha fatto un po’ schifo. Un po’ come questo calcio, dove sono tutti bravi a prendersi applausi e pacchette sulle spalle e nessuno è capace di abbassare la testa e prendersi anche un po’ di insulti da chi ti permette di fare un lavoro e una vita da privilegiato. Del resto dal calcio e dai suoi protagonisti non dovremmo aspettarci di meglio.
Simone Meloni.