Uno spicchio dello Iacovone si impone già sullo sfondo. Due bambini e una bambina tagliano il tappeto di pece che porta allo stadio con falcate piccole ma rapide. Un lui e una lei canticchiano un coro “lalalalalalalalalala…”. Le vocine ornano delicatamente l’aria sfiancando evidentemente il terzo che, ormai esausto da quella cantilena che continua solo loro sanno da quanto, esorta disperatamente i due al silenzio con una lamentela. I due coristi, come ridestati da un incantesimo, si guardano l’un l’altra con intesa, ignorano la lamentela del piccolo compagno interpretandola anzi come un incitamento: aiutandosi con le braccia il loro canto aumenta di decibel “…SEGNA PER NOI, DOBBIAMO VINCERE!”. Un adulto dietro loro cerca di tenere il passo con fatica: “perché state correndo?”

Questa domanda è retorica, la risposta probabilmente meno. A mettere il turbo a quei passi fanciulleschi è quell’energia che da qualche settimana sta attraversando un territorio e chi lo abita. Anche se non si può vedere e forse per questo neanche descrivere, forse si può toccare, ma di sicuro i suoi segni invadono l’atmosfera. A muovere quel piccolo trotto carico d’attesa e infiammato d’eccitazione è la mano invisibile del mercato: la forza tangibile del desiderio collettivo.

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Lo stadio si presenta stracolmo come non lo ricordavo da tempo e in grande spolvero. Ci sistemiamo in curva, nel settore inferiore, al solito posto che troviamo occupato da tante facce nuove al posto di molte altre che ci accompagnano sempre, ma riusciamo a farci spazio e ritagliarci il nostro pertugio. Finalmente utilizziamo i telefoni per una buona ragione: dopo alcune peripezie, dalla balconata centrale arriva l’invito di utilizzare la luce dei telefoni per una coreografia insolita all’ingresso in campo delle squadre. È tutto lo stadio a raccogliere l’invito, tranne uno spicchio della Gradinata, nella sua prassi distintiva, e un altro, di fronte, in tribuna, occupato da un centinaio di vicentini, che si fanno notare sventolando il biancorosso al vento. Dal punto di vista del repertorio canoro, si opta per un ingresso in campo da brividi, con “tu, solamente tu” che un po’ assomiglia ai più celebri canti anglosassoni per potenza canora, per ritmo, per le parole e l’attaccamento e che dalla TV, dirà il telecronista, ricorda “un’atmosfera da Champion’s League”.

Prima della partita la voce carbonaia della tifoseria evidenziava un Vicenza potenzialmente in difficoltà nei primi minuti poiché non gioca da due settimane, forse, si diceva, avrebbe potuto incontrare difficoltà ad entrare in ritmo partita e, quindi, si sognava speranzosi un inizio arrembante. Quando la mente vola fa sogni strani, bramavo un 2 a 0 nel primo quarto d’ora pensando che a quel punto avrei potuto anche morire soddisfatto del bagaglio di esperienze belle della vita. La scelta canora della Curva sembra mossa dalla stessa bava: si sparano sin da subito, quasi con la forza della disperazione, alcune tra le migliori cartucce della sua artiglieria canora. Tolti di mezzo i telefoni, si parte con un tipico, carichissimo “quando l’urlo s’alzerà” col solito conseguente “Taranto!”, e poi, senza un attimo di respiro, “Segna per noi, dobbiamo vincere!”. Ripenso solo ora che sto scrivendo queste parole a quale piena emozione avranno potuto provare quel bimbo e quella bimba, di quelle che ti forgiano lo spirito facendoti uscire dal guscio dell’autoreferenzialità infantile, o esaltandola nel far corpo collettivo. Momenti così intensi che rendono denso il tempo, rendendolo relativo oltre la meccanica quantitativa della dittatura dell’orologio. Infatti quando il Vicenza segna e tutta la nostra strategia desiderante si scioglie come i ghiacciai delle Alpi durante il tardo-capitalismo, è solo l’11° ma avrei giurato fosse almeno il 20°. I veneti segnano su un calcio piazzato imponendo a tutto l’ambiente rossoblù la necessità dell’impresa di una montagna da scalare duramente. In una prevedibile e inevitabile coincidenza tra il fisiologico calo dell’incitamento dello stadio di una piazza radicalmente umorale, udiamo per qualche lunghissimo secondo il coro dei vicentini e ci accorgiamo che non esistiamo solo noi e in un raro squarcio democratico da stadio ci accorgiamo che esiste anche l’Altro. Non li sentiremo più perché lo Iacovone, anche se infiacchito, si presterà ad una commovente prova di supporto ma è stato un momento particolare che ci ha fatto capire che, pur nella limitazione dei biglietti che ha mortificato la partecipazione dei gruppi organizzati, avevamo a che fare con una piazza come Vicenza che con la serie C ha davvero poco o nulla da spartire. Una partita e una cornice che aveva il gustoso sapore del calcio che conta.

Ripenso alle parole dette da un tizio all’ingresso: “amma fa nu gol almen?”, faremo almeno un gol? Le prime due partite dei playoff hanno infatti recitato entrambe il risultato ad occhiali, utile per proseguire il cammino e liberare il corpo dalla sofferenza solo al triplice fischio. Ma il gol, beh, il gol, è un’altra storia. È il termine minimo e massimo del calcio, è il suo segno per antonomasia, è la sua caratteristica principale, è quello che, per certi versi, davvero conta. Vedere la palla che si insacca è un’emozione che ha pochi eguali nella vita. E quelle parole mi fanno pensare a come possa essere importante l’impronta lasciata da quel momento, quell’istante in cui il cuoio tocca la rete e lo stadio esplode come un fiume in piena palesando tutta l’emozione nei tratti del corpo che da migliaia si uniscono nel caos più sensato che riesco a immaginare. E invece anche stavolta rimaniamo con l’urlo strozzato in gola ed una carica d’adrenalina difficile da smaltire. C’è una ragazzina che ha la sciarpa legata in testa come una fascia da combattente. Si è dimenata per tutta, davvero, tutta la partita senza soluzione di continuità, senza pretesa di essere da esempio né col piglio giudicante di tutti quelli attorno che spesso si sono fermati alla contemplazione. Anche lei si aggrega alla dichiarazione collettiva che saluta la squadra: “per la nostra città!”. L’impronta che lascia la macchina desiderante del pallone sarà anche invisibile e congetturale ma lascia segni sparsi che si vogliono lasciarsi cogliere.

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Finita la partita, mentre si leva un coro che, nonostante il risultato deludente, invita a caricare di birra le corriere e invadere Vicenza, lo stadio pian piano si svuota, gli ultras, e con loro altri inguaribili, restano a godersi quelli che potrebbero essere gli ultimi momenti su quei gradoni così come li conosciamo. Mentre la fiumana si dirige verso le uscite, i riflettori ancora illuminati insistono sui gruppetti, raccolti intorno a bandieroni e due aste, una perfetta metafora della città-groviera descritta da Alessandro Leogrande nel suo Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale:

«Chiunque prenda la macchina e si faccia un giro per Taranto, per tutta Taranto, per l’enorme perimetro della città di Taranto, ha davanti agli occhi una città slabbrata, una città esplosa, che si è estesa urbanisticamente senza senso intorno alla negazione del centro storico, una città che ha raggiunto in fretta i 250.000 abitanti e che ora ne ha solo 200.000. Ma questo è solo il dato che fotografa gli abitanti ufficialmente residenti. Come sappiamo, il dato non copre il fenomeno di massa della nuova emigrazione giovanile, intellettuale e operaia, verso l’esterno. Tra gli under 30 e gli under 40 che non intravedono prospettive concrete, questo è un fenomeno ormai radicale. Per cui i residenti effettivi sono molti di meno. In breve, Taranto è ormai una città svuotata in ogni suo isolato. Una città-groviera.»

Alla stessa maniera di come lo sfilacciamento interessa i quartieri, a cui spesso fanno riferimento i gruppi nelle loro stesse denominazioni, questi rappresentano delle isole di aggregazione, veri e propri centri di riferimento contro “il nulla che avanza”, in questi anni galoppante non solo sportivamente, e che tutt’attorno lasciava, per dirla sempre alla Leogrande, non buchi ma macerie. Se negli scorsi anni i vuoti nel settore rappresentavano la disaffezione delle “zone grigie”, i gruppetti invece erano la Resistenza. Stasera però rappresentano il sedimentarsi di un desiderio, come se non lo si volesse ancora ad abbandonare. E a legare queste isole, a riempire questi vuoti, ci sono persone impazzite che come formiche operose li legano con abbracci, saluti, strette di mano, pacche sulle spalle, sorrisi amari, pugni chiusi, occhi gonfi di delusione ma rossi di voglia di riscatto. La promessa che non è finita. Spesso si paragonano le immagini delle reti neuronali a quelle delle foto dell’universo che sembrano restituire la stessa forma di ramificazione intorno ad aggregati di energia. A me piace pensare che, guardandoci dall’alto, l’immagine a cui avremmo rimandato sarebbe stata la stessa.

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Il finale è stato degno, epocale, forse indimenticabile, ma ancora non ne ho abbastanza. Si può voler bene a uno stadio, questo ormai è chiaro, ma come puoi salutare davvero calcestruzzo e acciaio? Quello stesso cemento che ti ha sorretto ma anche lasciato in balia delle intemperie, che ti ha cresciuto ma anche portato a rischiare svariate volte la tua stessa incolumità. Che hai calciato, odiato, bistrattato, sporcato, su cui sei caduto e ti sei arrampicato. Trovi un angolo, fatto di grate, vicino alle scale, già riparato in penombra dai riflettori, quasi intimo e come d’istinto lo abbracci.

Scendi le scale, ti ritrovi nell’antistadio, con gli ultimi che stanno uscendo, la luce dei riflettori è ormai un ricordo e tutto assomiglia a una metafora della discesa negli inferi di pensieri e solitudine. L’adrenalina trova spesso delle vie insolite: i tuoi occhi diventano perfetti balconi da cui le lacrime possono gettarsi per sfogare questo turbinio di sensazioni, come non accadeva da anni. E forse pensi che è vero che si vive insieme ma si muore da soli. 

A spezzare questo flusso l’abbraccio di un amico di spalti, che forse prima di te si accorge  di cosa sta succedendo: “ce je cumbà…?”. Non riesci ad alzare lo sguardo ma lui ti capisce e ti abbraccia: “t’ vogghie buene cumbà…”. Dobbiamo smettere di considerare il corpo secondo un paradigma anatomico, come un involucro dai confini chiusi e inviolabili. In certi momenti la nostra relazione con l’ambiente è troppo profonda per poter tracciare una netta divisione tra interno ed esterno: gustiamo, respiriamo, spingiamo, beviamo, sudiamo, odoriamo, tocchiamo. La stessa pelle è porosa, aperta al mondo, anche se non si dà a vedere. Dovremmo invece considerare il corpo per quello che è in realtà: sensazione. Provare, vivere, esperire, sperimentare emozioni e con questo restituire il senso del mondo e della vita che in quello spazio e in questo tempo, fluisce. Questo è il fare corpo. Lo stesso accade in una comunità, così come in una tifoseria. Provare insieme delle sensazioni, in una dimensione profondamente individuale gettata in pasto a una sincronia molto simile a quella che qualcuno chiamerebbe follia: anche questo è fare corpo e significa farlo insieme. E allora te le godi quella tristezza, sei contento di quelle lacrime. Significa che sei vivo e che questo è uno dei modi per combattere l’idea che, morire, lo si fa da soli. Se la felicità è reale solo quando è condivisa, vale lo stesso anche per il suo opposto più lontano nello spazio più buio lontano dagli spalti e dai riflettori.

Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri