Tifare è una gran seccatura. Tifare, per chi tifa una squadra come la mia, significa andare a dormire nervosi e svegliarsi demoralizzati, salvo poche eccezioni. Svegliarsi felici il giorno del match e smadonnare nella settimana della pausa nazionali. Fare un passo avanti quando vinci e diciotto indietro quando pareggi in casa. Novanta minuti, perno primordiale dell’esistenza e della socievolezza, variabile impazzita che determina e condiziona la tua posizione all’interno della società. Il prima e il dopo: in mezzo, poche gioie e tanta sofferenza. Tifare significa consegnare mente e cuore nelle mani – meglio nei piedi – di undici figli di puttana che, probabilmente, non provano e mai proveranno quello che provi tu. Tifare significa accettare una vita da tossocodipendente: per fortuna, a differenza degli standard lapiani, l’unica striscia bianca che amiamo è quella della linea di porta e varcarla con quei 400 grammi di cuoio ci manda in estasi. E non v’è metadone che tenga. “Basta, non seguo più da oggi si cambia”: è come quando dopo aver fumato pensi di voler e dover smettere, o dopo le lasagne della nonna ordini a te stesso il “domani dieta”. Balle!

Tifare è un impegno troppo grande e dispendioso. Forse non ne vale la pena. O forse ne vale troppo la pena. Anche se in fondo, pensandoci, ci sono cose ben più importanti del campionato di Serie A. E questo, in piena maturità, l’ho ormai capito.

C’è la Champions, ad esempio. Forza ragazzi!

Mauro Di Donna.