Roma-Verona per me non sarà mai una partita come le altre. Capitolini contro Scaligeri non è solo una contrapposizione geografica o calcistica ma rappresenta la mia prima volta. La prima volta in assoluto in cui misi piede in uno stadio. Mi risulta un po’ affannoso e malinconico pensare che da quel momento siano passati ben 17 anni. Era la stagione 1996-1997, annata non certo memorabile per il calcio a Roma, sponda giallorossa. Sulla panchina sedeva un certo Carlos Bianchi, calva figura tanto vincente nella sua Argentina (attualmente alla guida del Boca Juniors, all’epoca proveniente dal Velez) quanto fuori luogo e sconclusionato nel nostro calcio.
Quell’anno la Roma veleggiò costantemente nelle zone basse della classifica, per salvarsi solo nelle ultime giornate con appena quattro punti di vantaggio su Cagliari e Piacenza, che si giocarono la permanenza nella massima serie nel famoso spareggio di Napoli, dove a spuntarla furono gli Emiliani.
Avevo cominciato ad avvicinarmi al calcio durante i Mondiali del ‘94. Tutto, forse come un segno del destino, cominciò da mia madre, a dire il vero: quell’estate volle cucirmi una bandiera dell’Italia da portare a casa di mia zia, dove eravamo soliti seguire le gare della nazionale. Avevo solo sette anni eppure tutti quei colori su quel pezzo di stoffa, le urla della gente ai gol di Baggio e persino il tifo di mia madre contro la Nigeria (capii più tardi che quando gioca l’Italia, non si sa come e perché, tutti trovano interesse per il pallone, salvo poi, spesso e volentieri, maledirlo durante il resto dell’anno), quando proprio il Divin Codino ci permise di risolvere una partita che si era fatta proibitiva, suscitavano in me qualcosa più di un semplice interesse.
Quel Mondiale sappiamo tutti come finì. Gli errori dal dischetto di Baresi e, purtroppo, proprio di Baggio segnarono un punto di non ritorno per il sottoscritto. Senza accorgermene stavo piangendo. Piangendo perché qualcuno dall’altra parte dell’Oceano aveva sbagliato un rigore e consegnato la coppa al Brasile? Suvvia, non si può piangere per tali inezie. Ma lo stavo facendo. A conferma che non si trattava di un semplice interesse. Era nato un vero e proprio amore. Voglio dire, ci sono persone a cui interessa collezionare fumetti, eppure nessuno di loro si sognerebbe di piangere se non trova un numero di Dylan Dog piuttosto che di Topolino.
Adesso la cosa si faceva seria. E qualunque italiano sa che va bene la Nazionale, va bene Baggio, va bene la pizza ed il supplì per stare tutti assieme, ma a settembre la musica cambia. A settembre si inizia a fare sul serio. Quindi bisognava prendere una decisione. Diciamo che dentro casa mia non avevo molte scelte e forse inconsciamente fu proprio la stagione precedente al Mondiale ad indirizzarmi. Se non altro perché quando vedi tuo padre, a quasi quarant’anni, prendere in braccio tuo fratello di pochi mesi ed uscire urlando sul terrazzo perché Fonseca ha realizzato il terzo gol nel derby, le cose sono due: o pensi che a metterti al mondo sia stato un pazzo, oppure lo assecondi e cerchi di diventare come lui (poi, diciamo che negli anni io ho leggermente ampliato il tutto). Come diceva “Quèlo”: “la seconda che hai detto”.
Così, le prime due stagioni da tifoso passarono, cercando di seguire morbosamente le partite della Roma in tutti i modi possibili. Va ricordato che, fortunatamente, a quei tempi le pay-tv avevano da poco visto la luce ed a potersele permettere erano davvero in pochi, mentre internet, streaming et similari erano ancora dei perfetti sconosciuti. Quindi, o andavi allo stadio o appiccicavi le tue orecchie alla radio e alle televisioni private che nella Capitale hanno sempre proliferato beatamente. Si pensi solamente alla storica Teleroma 56 ed al suo altrettanto epico “In campo con Roma e Lazio”, vero e proprio contenitore cult per ogni romano, oltre che laboratorio di formazione per la maggior parte dei giornalisti sportivi che oggi imperversano nell’etere.
Arriviamo dunque alla stagione 1996-1997 e più precisamente ad una delle tante sere in cui mio padre tornava dal bar in cui lavorava. Quella sera per me fu diversa e magica allo stesso tempo. Dalle sue mani infatti apparvero due biglietti con un lupetto argentato. Roma-Hellas Verona, Tribuna Montemario. Sembra che un giudice che frequentava spesso il suo bar e a cui il calcio proprio non interessava, glieli avesse generosamente regalati. Avete presente quando ricevete una notizia così bella che per qualche minuto rimanete quasi storditi? Ecco, passatemi la superficialità, ma la reazione fu proprio quella. Li chiusi gelosamente in un cassetto della mia camera e durante la settimana capitò più di una volta di svegliarmi la notte per andare a rimirarli. Erano sempre là, tranquilli e paciosi.
Contai i giorni e le ore che mi dividevano dal giorno fatidico, la domenica, finché questa arrivò. Una bella domenica di sole. Primi battibecchi con mamma e papà per l’ora in cui uscire. Chiaramente io spingevo per avviarci verso lo stadio mentre mio padre temporeggiava. Alla fine, neanche a dirlo, la mia pressione ebbe successo, e con buone due ore e mezza di anticipo lasciammo casa. Avevo con me una sciarpa ed una bandiera, sotto lo sguardo sconsolato e compassionevole di chi mi aveva messo al mondo. Lo stesso che più o meno hanno ancora oggi quando mi vedono uscire di casa, direzione stadio. La domenica mattina di metà anni ‘90 era senz’altro più animata di quella di oggi, o almeno sono i miei ricordi da bambino a darle tale parvenza. Però, ricordo strade piene di gente e persone che in ogni angolo parlavano di calcio con romanisti e laziali costantemente impegnati a sfottersi. In molti andavano allo stadio, perché a differenza di oggi non era né un lusso né un qualcosa di così terribilmente complicato e burocratico. Arrivavi, compravi il biglietto ed entravi. Stop, fine dei giochi.
La strada passò veloce, prima il Raccordo e poi la Tangenziale. Ed infine ecco avvicinarsi lo Stadio Olimpico. Ora, sarà anche uno stadio indecente, dove l’acqua filtra ad ogni minima pioggia e la partita per vederla bene da curve e distinti devi portarti il telescopio. Però quando sei bambino e piano piano ti ci avvicini, lo stomaco ti si stringe ed una sensazione di suggestione pervade l’intero corpo. È un qualcosa che in minima parte, proprio grazie a questo retaggio infantile, riesco a provare ancora oggi, tutte le volte che mi avvicino all’Olimpico.
Parcheggiammo parecchio lontano perché, come in molti ricorderanno, diciassette anni fa allo stadio ci si andava molto presto. Ed anche per un semplice Roma-Verona, con la squadra dodicesima in classifica ed invischiata in piena lotta per non retrocedere, minimo 50.000 anime fedeli ai propri colori c’erano sempre. Poche e davvero ancora deboli le televisioni a pagamento, acquisto dei biglietti direttamente ai botteghini dello stadio in cambio di soldi e nessun’altra complicazione. Zero tornelli, zero tessere del tifoso e controlli non così asfissianti come oggi. Questo va sempre ricordato.
Ci incamminammo arrivando all’Obelisco, che oggigiorno è la zona dove cominciano i prefiltraggi, all’epoca normalissimo luogo di passaggio. Camminando si giunge alla Palla, celebre come luogo di incontro-scontro nelle partite più accese. Per entrare in Monte Mario, giocoforza bisogna passare sotto la Curva Sud. E questo non mi rimase certo indifferente. Ai cancelli una moltitudine di ragazzi coloravano quella zona con sciarpe, bandieroni e bandiere, intonando cori e facendo un baccano che subito mi entrò nel cuore. Purtroppo tirammo dritti superando anche il Distinto Ovest e giungendo così in Tribuna Monte Mario. Entrammo e ci sedemmo nei posti scritti sul biglietto. Forse una delle poche volte che l’ho fatto nella mia vita.
Salire le scalette fu un’emozione quasi indescrivibile, ogni scalino era un pezzetto di prato in più che si vedeva. Fino a vederlo tutto. Alla mia destra la Curva Sud, davanti a me la Tribuna Tevere, alla mia sinistra la Nord e alla mia estrema sinistra il settore ospiti. Mancava forse un’ora all’inizio della partita e lo stadio continuava a riempirsi, in me cresceva la tensione. Ricordo che già nell’ascoltare la partita alla radio dovevo convivere con un’ora e mezza di palpitazioni. Adesso, che avevo i giocatori proprio là davanti a me, era quasi troppo per il mio cuore d’infante.
Arrivarono anche i veronesi, li ricordo in numero discreto e con torce e fumogeni. Nessuno scandalo allora, era la prassi. La Curva Sud, se non sbaglio (e visto che gli anni sono passati potrei anche sbagliare), presentava ancora lo striscione del Commando, con ai lati gli altri gruppi e, sopra, un grande striscione di contestazione nei confronti di Franco Sensi. Su una cosa però sono certo di non errare, il fracasso dei tamburi che, se da una parte spazientiva mio padre, dall’altra fomentava me.
Era tutto diverso da come me l’ero immaginato. Non pensavo potesse essere così bello. Alla mia destra c’era una massa di persone in piedi che cantava, saltava, suonava i tamburi ed accendeva torce e fumogeni. Sogno o son desto, probabilmente mi domandai. Il mio sguardo era talmente fisso sulla Sud che mio padre mi disse in più di un’occasione “Guarda che stanno giocando, eh!”. Che poi a dire il vero la partita la stavo vedendo eccome. Dopo pochi minuti Di Biagio siglò il vantaggio della Roma. Bellissimo. Esplosi di gioia. Esultanza forse smisurata rispetto all’ambiente asettico e borghese che mi circondava. Anche se tuttavia ricordo benissimo come il tanto educato e culturalmente evoluto pubblico della Monte Mario inveisse e si lasciasse andare a veri e propri sproloqui nei confronti di arbitro e giocatori. Inutile dire che questo, per chi come me era bambino e si recava per la prima volta allo stadio, non potesse che esser divertente.
La pochezza delle due squadre in campo (il Verona, ad esempio, retrocederà a fine stagione) fu palese quando in pochi minuti i veneti ribaltarono il risultato, pugnalandomi letteralmente allo stomaco, con mio padre che mi guardava sconsolato (ma anche lui dispiaciuto per quanto stava accadendo, lo so bene, inutile che provasse a fare finta di nulla) e la Roma che sul finire del primo tempo ribaltò a sua volta il punteggio con Candela ed un giovane Totti.
Arrivò l’intervallo, non avevamo i cellulari e mio padre si preoccupava di come fare ad avvertire mia madre che tutto stava procedendo tranquillamente. Le paturnie dei genitori! Ma cosa vuoi mai che succeda in Tribuna Monte Mario? Intanto i minuti che ci separavano dall’inizio del secondo tempo si assottigliavano sempre di più e l’ansia cominciava nuovamente a montare dentro di me. Pronti, via. Si ricomincia.
Forse non lo avevo notato fin da subito, o forse preso dall’euforia del caso non ci avevo prestato abbastanza attenzione. Ma anche in Nord c’era qualcuno che suonava i tamburi e, seppur in maniera misurata e confusionaria, provava a fare tifo. Erano i “Roma e Basta”, così comunemente chiamati per il loro striscione che prendeva l’intera vetrata della curva: Roma, solo Roma… Roma e basta!
Al 61’ però mi arrivò una mazzata quasi letale, Pierluigi Orlandini da San Giovanni Bianco pensò bene di riequilibrare le sorti dell’incontro. Esultanza liberatoria, la sua, sotto il settore ospiti, disperazione leopardiana la mia. Fischi del pubblico da tribuna, incoraggiamento della curva, almeno questo con il passare degli anni non è cambiato anzi, forse si è ancor più acuito. Ma le emozioni, a discapito del mio delirium tremens, non erano ancora finite. Minuto 89, Candela lascia partire un destro da fuori area, il pallone scheggia la caviglia dell’arbitro e spiazza il buon Guardalben. È il 4-3 che mi restituisce qualche anno di vita e mi fa sentire per la prima volta il vero e proprio boato dell’Olimpico. Una gioia indescrivibile, perché era una gioia di bambino. Le più belle, le più intense e le più spensierate.
Finisce così. È ora di uscire, ma io vorrei rimanere ancora un altro po’ a guardare quel campo e quegli spalti che sento già miei. Ma stavolta papà è irremovibile. Si esce abbastanza lentamente raggiungendo la macchina, tra lo stuolo di auto festanti che suonano clacson e mostrano dai loro finestrini bandiere e sciarpe. Non avevamo vinto nulla, la Roma era una squadra mediocre che aveva battuto fortunosamente una squadra altrettanto mediocre, eppure l’entusiasmo era a mille. Negli ultimi anni fatico, onestamente, a trovare simile euforia anche al termine di una partita importante. Siamo diventati una città esigente e pretenziosa pur non avendo mai vinto nulla ed essendo sempre stati, nella geopolitica del calcio, una realtà secondaria. Ma tutto questo, mentre tornavo a casa e vedevo scorrere davanti ai miei occhi il film dell’intera giornata, non potevo certo saperlo.
Ho voluto descrivere questo Roma-Verona, il mio Roma-Verona del campionato ‘96/‘97, perché penso che su quello targato 2013-2014 non ci sia molto da dire. Curve chiuse, divieti e restrizioni. Diciassette anni dopo il calcio è davvero tutta un’altra cosa, e tutto ciò che mi faceva battere il cuore da bambino è praticamente scomparso. Siamo arrivati alla farsa di chiudere i settori per razzismo, nel caso di offese nei confronti di un giocatore.
E seppure fosse razzismo, mi domando io, davvero si pensa di riuscire a risolvere questo problema chiudendo una curva? Troppo facile, così. Certo, perché invece, provare a fare informazione, insegnare l’educazione civica nelle scuole e portare avanti un discorso di avanzamento culturale è un percorso che richiede troppi sforzi, troppo impegno da parte di uno Stato che, al momento, è assente. Allora è sicuramente più semplice e sbrigativo fare una salda propaganda mediatica: “Hai visto? Abbiamo chiuso gli ultras razzisti fuori dallo stadio, adesso sì che abbiamo ripulito la società”. Poi, fai 50 km di Aurelia e ai bordi della strada ti ritrovi poveri Cristi provenienti dalle zone più disagiate della terra che raccolgono grano e cocomeri per 1 euro all’ora, magari sfruttati da quelli che si credono anti-razzisti o gente per bene. Il razzismo è un discorso di comodo negli ultimi anni, un qualcosa che attraverso la pietosa e pietistica propaganda dei media, consente a volte di reprimere e distruggere qualsiasi forma di dissenso e/o folklore.
Poi è chiaro che, almeno tra di noi, non bisogna essere ipocriti: a volte gli stessi ultras hanno sbagliato ed esagerato, finendo con il darsi la zappa sui piedi. Ma di una cosa sono certo, il “modello” di lor signori è quello che si è visto in questo desolato pomeriggio allo Stadio Olimpico. Pochi spettatori e tutti ammaestrati. Cori per i giocatori e tanti bravi soldatini che ripetono il nome degli stessi giocatori alle chiamate dello speaker. Questa è la mestizia dei giorni nostri, con cui bisogna convivere.
Nascessi oggi e riuscissi a non essere inglobato dal rincoglionimento multimediale ed informatico degli adolescenti attuali, odierei in assoluto il calcio. Quella domenica di tanti anni fa all’Olimpico è ormai forse più un bel sogno che non la realtà. E magari una notte di queste riuscirò anche a far ritornare a galla bei ricordi come quelli. Cosciente che la modernità può offrirci solo modelli finti e spettacoli per marionette ammaestrate. Pena minima: la curva chiusa per razzismo. Pena massima: il carcere e il Daspo a vita.
Testo di Simone Meloni.
Foto di Cinzia “lamiaroma”.