La scelta di far uscire questo pezzo proprio nel giorno della Festa dei Lavoratori non è casuale. Alt: non c’è nessun messaggio sindacale o politico dietro, ma solo ed esclusivamente un voler incensare chi si piega la schiena e suda alacremente fino ad arrivare ai risultati. Fino a realizzare un qualcosa di importante. Proprio come quei ragazzi della curva, che per far grande il loro settore, per farlo risplendere e diventare unico in mezzo ad altri, trascorrono ore a cucire metri e metri di stoffa (600 mq, per la precisione), a passare il pennello su uno striscione di carta e ad aspettare che la vernice sia totalmente asciutta – affinché questo rasenti la perfezione -, a confezionare bandiere, studiare altezza, larghezza e profondità della tribuna per non sbagliare le misure e, in generale, a partorire idee per essere diversi da ciò che si vede normalmente. Per essere originali, insomma. Perché il lavoro certosino, manuale e affascinante del gruppo che realizza una scenografia è l’unico, vero, punto focale di quest’ultima. L’esposizione è importante, ci mancherebbe. È la ciliegina sulla torta, il momento in cui – per pochi minuti – la fatica si tramuta in soddisfazione ed euforia. Ma in fondo è solo la domenica successiva al Sabato del Villaggio di leopardiana memoria. Quel sabato rappresentato dall’attesa e dall’aiuto di tutti, il momento che cementa un gruppo e ne solidifica l’aggregazione, la fantasia e la creatività. Tutto attraverso il lavoro. Perché è facile, dopo, dire: “Mi piace” o “Non mi piace”, o peggio ancora sminuire quando non si sa ciò che c’è stato dietro. Ovvio, il discorso cambia totalmente quando lo spettacolo viene ordinato su Amazon o, peggio ancora, realizzato con l’unico intento di spammarlo sui social e accalappiare like e visite. In tal caso parliamo di sciatteria mista a mitomania però!

In questa stagione mi è capitato diverse volte di parlare della Tivoli e dei suoi ultras. Una realtà cresciuta gradualmente negli ultimi anni e tornata in Serie D forse all’apice della sua maturità. Con il contingente ultras amarantoblù in grado di costruire un qualcosa di importante per una realtà alle porte di Roma e che, soprattutto, dopo i fasti della C2 di inizio anni duemila, si è ritrovata a ripartire dalle sabbie mobili del basso dilettantismo regionale. Una di quelle realtà, insomma, che paradossalmente ha compiuto un cammino contrario rispetto alla maggior parte delle tifoserie italiane. Migliorando, crescendo e radicandosi sul territorio in modo chiaro, forte e identitario. Certo, i numeri non saranno da capogiro, ma chi si attacca alla quantità non sapendo cosa voglia dire portare avanti un simile discorso a trenta chilometri da Roma, lascia il tempo che trova. E non tanto perché si voglia fare il, seppur sempre valido, discorso dei “pochi ma buoni”, ma quanto perché sulle sponde dell’Aniene si è trovata una continuità importante, con dei capisaldi ben delineati. Tra questi, per l’appunto, la fantasia. Già evidenziare come quasi nulla venga ripreso dalle curve di Roma e Lazio volge in favore dei tiburtini, sfogliare poi a ritroso l’album delle ultime scenografie realizzate in questi anni avvalora ancor più il buon pensiero che ho maturato su di loro. Eppure, devo ammetterlo, quando ancora non li conoscevo e il mio ricordo era perlopiù legato ai primi vagiti del tifo organizzato locale, vedendo i maxi spettacoli messi in piedi mi veniva sempre un po’ da storcere la bocca: “Chissà cosa ci sarà dietro”. E invece, faccio mea culpa, dietro non c’è nulla se non il lavoro manuale e di creazione di una gradinata da cui fuoriesce una bellissima e granitica trasversalità, quasi un’idea di famiglia. Sensazione che ti fa capire al volo quanto tutto quello che si è visto e che si vedrà è totale opera di questi ragazzi. A conferma di quanto le cose occorra osservarle con i propri occhi e non solo attraverso racconti o, peggio ancora, fredde foto utili a rimpinguare paginette pseudo-ultras.

Centocinque anni di Tivoli Calcio. Centocinque anni di calcio a Tivoli. Un lasso di tempo che ha accompagnato una comunità le cui radici affondano in un passato antico e glorioso (basti pensare che la tradizione fa risalire la data di fondazione cittadina al 5 aprile 1215 a.C.), nonché ribelle, come si evince dal suo soprannome, la Superba. Una città in cui, prima o poi, non poteva non nascere un movimento ultras importante e in grado di dar lustro al folklore e alla storia locale, ma anche e soprattutto in grado di portare i colori amaranto e blu ovunque. E sì che in questi due anni, per noi modesti cronisti, entrare all’Olindo Galli è stata sempre un’impresa. E sì che “in via del tutto eccezionale” anche oggi siamo riusciti a documentare la classica “festa” per il compleanno del club – fondato il 21 aprile 1919. E sì che, assecondando la mia natura, altrove avrei mollato e boicottato per principio il campo. Ma quando dall’altra parte hai un’ondata di umanità del genere, quando cogli il profilo umile nel fare ogni singolo gesto che avvalori la propria militanza, allora è l’istinto a prevalere. Ma anche la voglia di non darla vinta a chi vorrebbe fare del calcio o delle società un oggetto personale. Perché poi, come purtroppo la storia di questo sport ci insegna, nei momenti di fango, nei giorni in cui il letame mangia la gloria e butta nel dimenticatoio quanto di buono fatto, rimangono solo ed esclusivamente i tifosi. Loro sì fedeli sempre, comunque e ovunque. Senza un prezzo e senza un compenso!

Mentre la nostra macchina corre solitaria sulla bretella che unisce l’A1 con l’A24, il sole splende maestoso sulle colline circostanti Roma. Gli ultras tiburtini stanno ultimando dalle prime ore del mattino il loro lavoro, che andrà sicuramente a incasellarsi in tutti quelli realizzati sinora. Personalmente ho apprezzato moltissimo quello del centenario, con la frase ripresa da Cara di Lucio Dalla, gli stendardi con tutti gli stemmi della Tivoli e una fitta fumogenata. Un omaggio a quel 21 aprile di centocinque anni fa, quando all’Osteria Baiocco venne sancita la nascita dell’AS Tivoli, con sede in Piazza del Plebiscito e le prime gare disputate al campetto del Rione San Giovanni. Prime gare che videro i locali fronteggiare i frati irlandesi di Villa Greci e i seminaristi scozzesi di stanza a Roma. Curiosità: tra le fila dei padri irlandesi militava un sacerdote dal fisico imponente, che venne subito ribattezzato dagli sportivi tiburtini “Il Barozzaro” (il “barozzo” era un carro a trazione animale tipico della campagna romana) che diede vita a cruenti e spettacolari scontri con i giocatori dirimpettai, inscenando contese memorabili sul dissestato terreno del campetto San Giovanni. Non a caso la sede di gioco venne spostata, poco tempo dopo, al Campo Gregoriano, soprannominato in quegli anni Fossa dei Leoni, dove – peraltro – i tiburtini riuscirono nell’impresa di battere 2-0 la Lazio in un incontro amichevole. Questo campo rimase casa della Tivoli fino allo scoppio della guerra, quando divenne un orto. Resta nella memoria comune la sua fama, anche grazie al suo particolare posizionamento, tra il Ponte Gregoriano e il canale che si getta nell’Aniene. Un pezzo di storia ormai sopito, ma padre delle prime battaglie amarantoblù, nonché di quello che fino al termine degli anni ottanta sarà lo stadio di intere generazioni tiburtine: il Campo Ripoli. Predecessore dell’attuale Olindo Galli, inaugurato nel 1991.

Spesso ci soffermiamo a sottolineare quanto la memoria sia importante per tramandare tradizioni e identità. La memoria passa, nel calcio, anche e soprattutto per l’opera di valorizzazione storica della tifoseria. E qui torniamo al discorso di aggregazione che si faceva in avvio: scrivere uno striscione, allestire una scenografia, lavorare lungamente su un progetto, prevede anche il conoscere e sapere ciò che si sta facendo. Leggere, cercare fonti storiche e rifarsi al passato. Oggi, spesso, va di moda imbarcarsi in esperienze estemporanee e di breve durata, dove anziché dar lustro alla propria città e riportare a galla riferimenti storici del club, si preferisce fingere una militanza in favore di social, per poi sparire qualche tempo dopo senza lasciare nulla nella mente e nel cuore dei ragazzi che si cimentano in tali situazioni. Senza lasciare quel legame con la città che in ogni momento della vita dovrebbe essere la spinta a difendere il proprio gonfalone, la parte essenziale del tanto abusato “ultras 7 giorni su 7”. Quel concetto per il quale anche chi non è direttamente appassionato di calcio riesce ad avvicinarsi a un gruppo o a una tifoseria, sentendosi parte della comunità.

Arrivando all’esterno dell’Arci, il solito stuolo di polizia e carabinieri tenta di filtrare i tifosi in arrivo. Sull’ipocondria dei tutori dell’ordine potremmo scrivere un saggio, ma sarebbe comunque inutile. Ormai anche in partite senza rivalità e con una manciata di tifosi ospiti attesi vengono sperperati soldi pubblici e costretti gli spettatori a intricati giri per entrare sulle gradinate o acquistare un tagliando. Ragazzi e ragazze della tifoseria organizzata sono impegnati nel banchetto posto davanti ai cancelli, in cui si vende materiale celebrativo, mentre un paio di ragazze sono incaricate di raccogliere fondi per la scenografia, invitando chiunque passi ad unirsi agli ultras. Ho un certo revival fine anni novanta/inizio duemila, quando queste scene erano all’ordine della domenica e rappresentavano uno dei momenti cruciali della vita di un gruppo. Anche perché qua c’è da fare un distinguo: se giustamente col passare degli anni in molti hanno voluto prendere le distanze da chi, attraverso queste modalità, lucrava sulla tifoseria vendendo materiale improbabile o, peggio ancora, organizzando trasferte a prezzi gonfiati e con biglietti “poco ortodossi”, dall’altra c’è un sacrosanto discorso di “finanza collettiva” che sin dagli albori ha contraddistinto il popolo curvaiolo. E che non può lasciar spazio a cattive interpretazioni verso chi davvero con l’autofinanziamento manda avanti la propria attività.

“Solo chi osa non sarà una preda” recita uno striscione affisso sulla grata dello stadio. Un monito alla squadra, chiamata all’impresa nel finale di campionato, dove con tutta probabilità saranno i playout a decidere le sorti della zona retrocessione. Un dentro o fuori che per la Tivoli calcistica vorrà dire molto in termini di sopravvivenza e pianificazione dei prossimi anni. L’ansia e l’attesa sono palpabili e una volta entrati sulla pista d’atletica – “in via del tutto eccezionale” – possiamo cominciare ad “ammirare” il lavoro di preparazione alla scenografia, con diversi ragazzi intenti a srotolare lo striscione di carta (alto tre metri e lungo trentacinque), recante un passaggio dell’inno sociale, che proprio quest’anno compie venticinque anni: “Gradinate di noi amaranto e blu”. Lo stesso verrà ultimato dal telone realizzato e cucito totalmente a mano e calato proprio durante l’inno. Con la scelta, voluta, di rappresentare solo i colori della Tivoli, rimarcando ancor più il legame indissolubile con gli stessi. Attorno a noi la giornata primaverile esplode prepotente, con la sagoma dei Monti Lucretili a scrutarci sempre senza timore e le verdi foglie delle collinette attigue a spolverare polline come se non ci fosse un domani. Nel rimirarmi attorno mi accorgo che i tifosi avezzanesi verranno sistemati, anch’essi, nella tribuna coperta, anziché nel settore ospiti. Non ne conosco il motivo, comunque chiudo immediatamente la parentesi loro dedicata dato che, per problemi riscontrati in strada, non faranno mai il loro arrivo in quel di Tivoli.

Quando le prime note vengono irrorate dagli altoparlanti, tutta l’ansia e l’adrenalina dei ragazzi in gradinata devono per forza di cose esser tramutate in operatività. Decine di mani fanno scendere il telone, fino a congiungerlo con lo striscione di carta. Metri e metri di stoffa (ventisei strisce da 1,50 metri, alte 15: tredici blu e tredici amaranto, per la precisione) adesso fungono da “giacca” al settore degli ultras, con il coro “Noi siamo la grande Tibur” che sale imperioso nel finale dell’inno, poco prima che il telo venga messo giù e i gruppi si compattino dietro la consueta balaustra. Scenografia riuscita, senza sbavatura, dal bell’impatto e atta a caricare tutti i presenti, consci di dover dare qualcosa in più per la prime delle tre finali che porteranno all’ultima giornata. Il bandierone con il Tempio di Vesta si leva al cielo sventolando sinuoso, così come lo stendardo con l’effige comunale – perfettamente realizzato – e le altre insegne della tifoseria tiburtina, che come nelle altre occasioni in cui ho avuto modo di vederla, sfoggia una gran bella prova di tifo grazie agli elementi essenziali del modello italiano: bandiere, mani, cori tenuti a lungo e a rispondere, tamburo e sincronia con il match (quindi non un sostegno robotico, come se la partita giocata non ci fosse). Match che non volge propriamente in favore dei laziali, i quali vanno negli spogliatoi in svantaggio per 2-0 per la rabbia del proprio pubblico.

Da segnalare l’esposizione di uno striscione di solidarietà agli ultras sorani, per le note e tristi vicende che li stanno riguardando in questo periodo. Un messaggio che fa il paio con la scelta dei tiburtini, maturata una settimana prima all’esterno del Tomei, di non entrare nell’impianto sorano. Scelta che si è unita al gesto dei senigalliesi, i quali avevano abbandonato le gradinate dopo aver subito minacce neanche troppo velate per aver appeso una pezza con la scritta Diffidati. Ci sarebbe lungamente da parlare sull’arbitrarietà che taluni funzionari e talune Questure si permettono nel nostro Paese, ma forse è sufficiente sottolineare come l’aver ormai conferito a questi organi poteri illimitati, spesso ben oltre la normale gestione dell’ordine pubblico, ha reso atteggiamenti liberticidi e contrari alla nostra tanto decantata Democrazia quasi “normali”. Sicuramente accettati se compiuti nell’alveo dello stadio. Una “zona franca”, come piace tanto scrivere ai cantori della “follia ultrà”, ma non certo per i ragazzi con la sciarpa al collo! Ciò detto, anche nella ripresa la performance degli ultras amarantoblù si conferma di ottimo livello, sebbene la loro squadra riesca solo a dimezzare lo svantaggio su calcio di rigore, uscendo sconfitta dal campo e venendo prontamente rimbrottata sia dal pubblico normale che dagli ultras. Dispiace notare come, tra le fila societarie, qualcuno sia arroghi addirittura il diritto di deridere il pubblico con un presuntuoso e irrispettoso gesto dei soldi. Ma qua bisogna riprendere quanto scritto prima: se si pensa che una società di calcio, col nome, il simbolo e i colori della città, sia un giocattolo di proprietà di un singolo o di una cordata, una “fabbrichetta” da portare avanti senza empatia, si è davvero capito poco di come funziona il calcio. E su questo – a meno che tu non sia il Sassuolo, e pure là quest’annata ci dimostra che mai tirare la corda – il football alla lunga presenta il conto.

Le gradinate vanno velocemente svuotandosi, con i tiburtini che smontano il materiale e si portano all’esterno dello stadio. Malgrado l’amara sconfitta, malgrado il futuro incerto, oggi resta pure sempre 21 aprile. E la festa non può comunque essere cancellata o sminuita. Proprio perché la Tivoli non è una “fabbrichetta” ma un sentimento che non conosce burocrazia e non risponde solo ed esclusivamente al vil denaro. A me slogan come “solo gli ultras vincono sempre” non piacciono, per il semplice fatto che – ahinoi – gli ultras non vincono quasi mai nei fatti. Ma nelle idee, nella forma, nell’aggregazione sì. Questo è innegabile. Pertanto dopo una settimana del genere, dopo il sudore speso, il giusto finale è portarsi nel cuore della città e brindare ai propri colori. Perché sono questi i momenti in cui la trasversalità si trasforma in senso di appartenenza. E l’appartenenza trascina dentro tutti e scalda i cuori più di qualsiasi ambiente, festa o incontro si possa fare al di fuori si questo mondo che le gradinate creano. Il tramonto sulla Superba accende di rosso montagne e colline che la cingono lungo tutto il suo perimetro e mi regala la visione, fortemente italica, di due signore che spalla a spalla si avviano lentamente su una delle viuzze del centro medievale. Giornate come queste mi lasciano di buon umore, perché trasmettono vita e tengono ancorati alle proprie radici. Mi guardo attorno, almeno idealmente, e capisco quanto – malgrado le mie stranezze – possa dire di vivere fino all’ultima fragranza il profumo buono che la vita in alcuni suoi frangenti ti regala, invitandoti a non lasciarlo andare!

Testo Simone Meloni

Foto Marco Meloni