Da qualche tempo “Libreria dello Sport” si è lanciata in prima persona nel campo dell’editoria cercando di ritagliarsi la sua fetta di mercato come “produttrice” e non più solo limitandosi alla vendita. Per far ciò (oltre ai titoli tecnici) ha puntato sulla traduzione di titoli provenienti dall’Inghilterra sul floridissimo filone hooligan.
Ora, diciamoci le cose fuori dai denti: il 99,99% di quei libri sono immonda tortura a cui un essere umano dovrebbe essere sottoposto soltanto se finisse all’inferno dopo una vita di peccati indecenti. Letto uno, letti praticamente tutti e il presunto talento dei loro narratori non è altro che una bolla speculativa che farebbe impallidire persino quella dei tulipani in Olanda nel Seicento.
Per fortuna sembra essersene accorta anche “Libreria dello Sport” che, dopo “Gli indesiderati” e “Non piacciamo non importa”, consegna finalmente alle rotative un signor libro che si chiama “Togliatti Blocks”, partorito dalla mente e dalla penna di Daniele Vecchi. Libro che mi ha accattivato fin dalla sua uscita, nel 2016, ma che solo nel 2018 ho trovato il coraggio di leggere.
Due fortissimi pregiudizi mi hanno tenuto distante dalle sue pagine: il primo riguarda il genere narrativo, il cosiddetto “mockumentary”; stilisticamente vicino al documentario ma che nella sostanza racconta storie totalmente inventate, per quanto verosimili. Un artificio, questo, che aiuta a porre l’accento su determinate contraddizioni, ma verso il quale ho sempre fortissime resistenze. Non già perché non abbia fiducia nelle capacità di chi lo usa, bensì perché ho dubbi sui lettori che lo dovrebbero codificare. Un po’ come quelle bufale architettate per sbugiardare i creduloni, ma che finiscono ancor più grottescamente per aizzare ciò che vorrebbero arginare.
Allo stesso modo ho fortemente temuto la politica, l’altro binario su cui scorre parallela questa storia: quando si mettono assieme stadio e politica ho sempre paura di dove si finisca a parare, così come di strumentalizzazioni o di banalizzazioni sempre in agguato. E invece devo dire che questo “Togliatti Blocks” ha ampiamente fugato ogni mio dubbio e timore in tal senso, ma ne riparleremo più compiutamente in seguito.
Venendo al contenuto, si parla della storia di Gorky, militante comunista per metà spagnolo, da parte di madre, costretto dopo mille peripezie a cercar rifugio nella sua metà ungherese ereditata da parte di padre. Lungo il suo cammino tante battaglie politiche, persino battaglie vere e proprie come volontario in Palestina, passando per l’Italia e il Kosovo.
È proprio in Ungheria, nella Tatabanya del già leccese Istvan Vincze, più precisamente nei classici quartieri dell’architettura sovietica (i “blocks” per l’appunto), che Gorky trova nella tifoseria della locale squadra di calcio la via migliore per proseguire il suo percorso politico, fondando i “Togliatti Blocks” (facilmente intuibile la citazione al segretario del PCI), unica tifoseria rossa nel panorama indistintamente nero del movimento ultras ungherese.
Una scelta di scontro e rottura totale con la realtà in cui, facendo proprie le prassi tipiche degli ultras, l’attività del gruppo è totalizzante: dagli spalti alla strada, è riappropriazione e liberazione degli spazi, è messa a collettivo della partecipazione e delle esperienze, è traslazione della coscienza critica e dell’impegno fattivo dal confronto con le tifoserie avversarie alla quotidiana lotta politica.
Non puzza di propagandismo sciatto perché non manca la critica all’area politica di riferimento e ai suoi paradossi interni. Come nella realtà, i “compagni” che frequentano gli stadi devono difendersi da accuse di connivenze e ambiguità mosse da chi non conosce nemmeno lontanamente il substrato che anima questi mostri di cemento, la classe sociale lasciata a stato brado, a materia informe, che poi chi riesce a farvi presa plasma a proprio piacimento, magari facilitato dallo snobismo della controparte. Il progressivo smantellamento della sinistra, governativa o extraparlamentare, è anche figlio di questa ritirata dal campo pratico per arroccarsi a far vuota teoria durante un “apericena”, spaccando filosoficamente il capello in quattro su cosa sia politicamente ortodosso e cosa no, mentre il mondo fa i conti quotidiani con sé stesso e i suoi problemi di esistenza o sopravvivenza spiccia.
È anche fine analisi politica questo libro, è anche condanna dell’ipocrisia dei propri sodali che poi, quando il gioco si fa duro e la rivoluzione si presenta fuori dagli abiti di gala, allora accettano di buon grado e persino caldeggiano la presenza in piazza di “quei mezzi fascisti” dei Blocks.
È adrenalina, strategia marziale, odio puro per l’avversario eppure anche stranamente rispetto in certi frangenti e in un’ottica bilaterale, laddove il racconto si ribalta narrando il punto di vista o d’azione degli ultras o dei militanti politici avversari.
Pure laddove la logica vacilla pericolosamente, l’artificio del “mockumentary” permette all’impianto narrativo di rimanere in piedi in maniera egregia. Non so quanto Daniele Vecchi mastichi di ultras, non so in verità se sia o meno un’invasione di campo la sua; di certo, io sono uno di quelli che, di fronte a tali dubbi, assume sempre un atteggiamento ostilmente protettivo del mondo a cui – per certi versi – ancora sente di appartenere, ma alla fine della lettura posso dire che l’autore ha dissipato tutti i miei dubbi e le mie resistenze e s’è lasciato leggere davvero con grande piacere.
Oltre allo stile di scrittura, molto fresco e tagliente, questo libro tiene costantemente il lettore alle corde per il suo ritmo incalzante come una sassaiola, teso come l’aria prima di uno scontro lungamente pianificato e in procinto di scoppiare. È una lettura che in ultima battuta consiglio vivamente un po’ a tutti: a cuore leggero a chi vive lo stadio e ideologicamente afferisce all’area sinistrorsa, ma credo che anche ultras apolitici o “laici” totalmente estranei alle curve e alla politica possano leggerlo senza farsi troppe violenze morali..
In fondo, come recita il sottotitolo, “Togliatti Blocks” sono “frammenti di una sconfitta”, non esaltazione acritica e mitomane del sé, ma apologia del collettivo, consapevolezza che – come Gorky – si può andare incontro consapevolmente anche alla più cocente delle sconfitte, ma conservando il sorriso sulle labbra consci di aver risposto solo e sempre ai propri ideali, assolto ai propri obblighi morali di ultras o di militanti, creato un’eredità morale e materiale che si auto-alimenterà ben oltre una sconfitta transitoria.
Matteo Falcone