Franz Kafka è senza dubbio uno dei personaggi più affascinanti e intricati della letteratura. I suoi dubbi, le sue situazioni (per l’appunto, “kafkiane”) i suoi paradigmi e i suoi paradossi; tutte sfaccettature che ritroviamo quotidianamente nelle nostre vite e su cui spesso soprassediamo anche in maniera grossolana. È quasi un peccato fare riferimento alla sua opera più conosciuta, “La metamorfosi”, perché ne esistono altre in grado di emozionare, coinvolgere e stupire come e quanto la stessa. Ma per titolo, contenuto e trasporto psicologico credo sia giusto prendere in prestito l’opera realizzata dallo scrittore praghese all’inizio dello scorso secolo.
L’angoscia dell’esistenza è alla base del tifoso romano di questi tempi. E mi dispiace se qualcuno faccia a gara per dare un’idea diversa da questa e provi a far passare la proverbiale “cacca” per cioccolata. Qua di dolce e gustoso c’è ben poco. Perché una metamorfosi è stata richiesta, voluta e imposta. Gregor Samsa si è svegliato una mattina tramutato in insetto. Stordito e incapace di comprendere. Ciò che avviene attorno e dentro lo stadio Olimpico è molto più annacquato, forse meno netto, come un’iniezione di penicillina, dolorosa nella sua parte finale, quando sembra annunciare lo sterminio del batterio. Ecco, in questo caso i batteri sono e restano i tifosi, in generale. Non solo quelli di curva, bensì anche quelli del “Siamo persone per bene: biometria, tornelli, barriere, biglietti nominativi, prezzi assurdi, tessere del tifoso sono giuste e le facciamo perché nonabbiamonulladanasconderenoi!”. Già, triste epitaffio del pubblico da stadio, un tempo unito, forte e compatto, oggi disgregato e messo sapientemente l’uno contro l’altro. Dividi et impera. Così avevamo finito, così abbiamo ricominciato.
Non sto qua a spiegare cosa sia la prima giornata di un campionato per chi vive il calcio in maniera passionale. Da sempre è un momento atteso con relativo conto alla rovescia. C’è l’ansia, la curiosità, la voglia di inebriare le proprie narici con quel profumo di gradinate, che ti arriva dritto fin dentro i polmoni. Sorrido amaramente riflettendo mentre percorro le zone adiacenti agli accessi dello stadio, rivedendo, di tanto in tanto, momenti di vita vissuta, discorsi, voci e risate. Ma il momento dopo ho come l’impressione di essere in una dimensione impropria, diversa. È un’eterna attesa affinché qualcosa cambi. Ma è inutile. Perché la metamorfosi si è avviata da tempo.
Spesso è un cambiamento che ti lascia di stucco. In una città china sulle ginocchia, che non sa nemmeno raccogliere i propri cocci, c’è sempre più voglia di puntare il dito con fare giustizialista. Hanno talmente ficcato nel cervello del cittadino medio questo spregevole buonismo e questo bisogno di rivalsa nei confronti di chi è come te, o di chi ha meno di te, che ogni decisione volta a togliere un pezzettino di libertà o a burocratizzare/complicare il vivere quotidiano, diventa una squallida occasione di giubilo da parte di questo popolo assetato di moralismo, perché privo di un “modus ragionandi” vero e proprio. Così, costringere le poche migliaia di tifosi presenti a parcheggiare lontano dallo stadio, a minimo due chilometri, con una ragione che potrebbe anche esser corretta (l’eliminazione della sosta selvaggia) ma che non viene corroborata da azioni d’ausilio (bus sostitutivi e sufficiente campagna informativa) portando come sempre a isteriche liti tra Vigili Urbani e cittadini, resta tutto sommato un qualcosa di sottaciuto e giustificato. Ovviamente con il mantra delle ragioni di sicurezza e decoro urbano (se poi un anziano o un ragazzo in carrozzella devono compiere una gincana sugli sgangherati marciapiedi di Roma, sotto la canicola estiva, poco importa). E tutto sommato è andata anche bene, ma vanno considerati due fattori fondamentali: il periodo agostano con molta gente ancora fuori città e i pochi spettatori presenti. Ne riparliamo in un mercoledì sera di novembre, con il traffico di rientro e qualche tifoso in più (ovviamente toglietevi dalla testa grandi numeri). E l’impeccabile macchina organizzativa capitolina.
Dicevamo delle “ragioni di sicurezza”. In tempi di attentati terroristici le istituzioni stringono sempre più la vite attorno a questo discorso. Ed è ovvio che in tutto ciò si tenda a forzare la mano. Rimane però incomprensibile il perché, attorno a uno stadio ormai già adibito a laboratorio sociale/campo di concentramento, sia piazzata con regolarità la fanteria della Polizia di Stato. E sì che il Piave è lontano, e al 24 maggio prossimo venturo manchino ben 9 mesi. Se poi vogliamo riportare la questione su un fattore meramente economico, sembra che tutti si siano dimenticati di quanto questo imponente dispiegamento di forze dell’ordine, per una manciata di inermi e (diciamocelo pure) quasi totalmente imbambolati spettatori, rappresenti un costo ingente per l’intera comunità. Mi snerva scriverlo, perché mi rendo conto di averlo fatto almeno cento volte in precedenza. Ma mi snervano ancor più l’indifferenza e la rassegnazione con cui si è in balia di qualsiasi decisione, senza affrontarla con un minimo di senso critico. Anzi, ho come l’impressione che chi mantiene questa virtù sia ormai malvisto, addirittura etichettato come reietto di professione, a prescindere. Per la serie: “Ti danno da mangiare del cibo scaduto? Tu abituatici, non fare domande. Al massimo muori. Tanto tutti dobbiamo morire”. E allora va da sé che prima o poi saranno i cittadini stessi a chiedere misure repressive per loro stessi. Già immagino i tifosi del 2050: “Ma come, ci mandate in uno stadio dove non c’è il riconoscimento preventivo con l’esame delle urine? No, ci dispiace, boicottiamo, non ci sentiamo sicuri!”.
Qua non è soltanto un discorso di barriere o di foto segnaletiche all’ingresso dei tornelli. È la somma che fa il totale, e in questo caso il totale ci restituisce l’immagine di un posto quasi totalmente asettico. Se la guardiamo da tifosi, amanti di un calcio tradizionale e minimamente ancorato alle proprie tradizioni (sono d’accordo che bisogna fare i conti con i tempi che cambiano, ma è pur vero che ciò non implica forzatamente la cancellazione dell’identità) dobbiamo ancora rimarcare come i frequentatori dell’Olimpico odierno, sponda giallorossa, siano in gran parte forestieri, gente a cui probabilmente non interessa il calcio e che sicuramente non risiedono all’interno del Grande Raccordo Anulare. Ma neanche in Italia. Insomma allo stadio come a uno spettacolo itinerante. Come al circo. E questo non è un successo. Innanzitutto perché basta dare un’occhiata agli spalti (i dati ufficiali parlano di 30.000 presenti, ai quali tuttavia vanno sottratti coloro i quali hanno sottoscritto abbonamenti continuando però a non entrare) per evincere come buona parte del pubblico della Roma (romani, romanisti, tifosi da generazioni) abbia abbandonato la propria “casa”, evidentemente stremati dalla gestione complessiva dell’evento sportivo e da biglietti sempre più esosi, a fronte di uno spettacolo calcistico mediocre e di uno stadio lontano dal campo una manciata di chilometri (e comunque, l’esempio tedesco ci insegna, il calcio è sport popolare, e il prezzo dei tagliando dovrebbe essere accessibile a tutti a prescindere dalle strutture). Le famiglie allo stadio sono sempre più un becero strumento propagandistico al quale i noti personaggi si aggrappano per giustificare le proprie malefatte e le proprie decisioni folli e liberticide. Così il tifoso che alberga all’Olimpico nel 2016 è quello che si infuria se gli altri non guardano la partita da seduti, quello che ti chiede di spegnere la sigaretta per educazione, quello che al rigore del vantaggio è intento a fare il video con il cellulare anziché a far palpitare il cuore perché la palla muoia nel sacco e lui possa esultare abbracciando i propri simili. Lo abbiamo visto anche l’anno scorso, è quello che alla minima difficoltà fischia la squadra anziché sostenerla. A chi piace questo stadio? Un luogo dove il brusio la fa da padrone. L’ineffabile capo gabinetto della Questura Roberto Massucci lo ho detto chiaramente: “I tifosi la devono smettere di pensare che il calcio vada vissuto con striscioni e fumogeni”. Il tifoso deve diventare un consumatore silente, supino e manipolabile.
C’è poi anche un aspetto da rimarcare. Quello della politica, sinora totalmente ininfluente sulla faccenda. Un discorso che riguarda tutto l’arco costituzionale. Sindaci, parlamentari e assessori sembrano aver perso qualsiasi potere, persino mediatico. Giornali e televisioni evidenziano la faccenda, ma spesso lo fanno come tornaconto per tutelare il proprio mecenate, schierato alla destra o alla sinistra del Presidente della Camera, e attaccare il proprio oppositore politico. E in fondo, in una Capitale utilizzata da palestra per costruire carriere e caste, è anche normale sia così. Non c’è nulla di cui sorprendersi. Si continua a esser vittime di un sistema bulgaro (a questo punto meglio definirlo italiano), che però viene lentamente assimilato dai nuovi consumatori/tifosi, anche con una certa soddisfazione.
Desertum fecerunt et pacem appellaverunt, “Fecero un deserto e lo chiamarono pace”. Tacito fotografa appieno la situazione di Roma. Con il deserto delle gradinate che ancora una volta è protagonista e che viene persino incensato da chi l’ha creato, descritto come il progresso di un pubblico di base incivile e ignorante (sic!). In questo quadretto da segnalare il settore ospiti popolato da una cinquantina di ultras friulani, che si danno da fare per tutta la gara facendosi ampiamente sentire, anche grazie al silenzio del soporifero pubblico pagante, che di tanto in tanto si sveglia per insultarli (del resto davvero non si può pretendere che chi mette piede allo stadio due volte l’anno sappia che le maglie bianconere non sono sempre sinonimo di Juventus e soprattutto tra le due tifoserie vige una storica amicizia). Mentre in Curva Sud va sottolineata la presenza dei Fedayn (prima della gara, a Piazza Mancini, hanno esposto uno striscione ironico sul rilevamento biometrico), che seguono il match in silenzio, salvo un paio di cori contro la polizia e per i diffidati nel finale.
Finisce così. Con il successo decantato da Questura e Prefettura. Una farsa che ogni volta mi ricorda la celebre scena del film “In fuga per la vittoria”, nella quale i gerarchi nazisti alzano il volume di un audio registrato in cui il pubblico esulta ai gol degli invasori tedeschi, a fronte di tifosi intenti a cantare la Marsigliese dopo l’ingiusta assegnazione di un calcio di rigore ai teutonici. In questo caso l’icona della giornata è rappresentata da un bambino con la maglia del Barcellona. Ignaro di non essere al Camp Nou e forse troppo impegnato a cercare i Pokemon. Se non è una metamorfosi questa…
Testo Simone Meloni
Foto Cinzia Lmr, Valerio Curcio