Quattro anni fa, il primo febbraio del 2012, 72 tifosi dell’Al Ahly persero la vita a Port Said. La loro squadra si frapponeva all’Al Masri, ma fin da subito furono diverse le ricostruzioni che esulavano dal solito cliché secondo il quale, checché succeda allo stadio, è sempre colpa della violenza fra ultras. Un copione ormai più banale delle sceneggiature dei film porno, che solo chi ha parimenti più afflusso di sangue alle parti basse che al cervello può avvalorare. Peccato solo che questi lobotomizzati siano una significativa maggioranza ormai.
Da Hillsborough a Port Said, passando per tutte le grandi tragedie calcistiche della nostra storia, questa riduzione semplicistica di eventi così complessi ha sempre un solo, unico grande obiettivo: quello di smarcare le autorità dalle proprie evidenti responsabilità. Comprensibile che chi è causa del male tenti il depistaggio mediatico, meno comprensibile che gli stessi media e l’opinione pubblica caschino così a piedi uniti in questo mare di fango e spudorate menzogne.
Port Said, secondo la storiografia non ufficiale, non fu che la rappresaglia per il ruolo cruciale che gli stessi ultras ahlawiti rivestirono nelle manifestazioni di Piazza Tahrir, di fatto una delle spallate più poderose al regime di Hosni Mubarak. Senza voler rimestare nelle teorie del complotto (tutte comunque più che fondate), l’idiosincrasia globale fra ultras e potere politico è divenuta ancora più esasperata in questo versante del mondo del tifo.
Ieri al centro sportivo dell’Al Ahly è stato il giorno della commozione e del ricordo per le vittime di quella strage. Sugli spalti sono state esposte gigantografie dei ragazzi scomparsi, hanno sventolato bandiere, si sono accese torce, si sono viste diverse persone pregare. Ovviamente tanti e trascinanti sono stati i cori, e tra i tanti non sono mancati quelli contro la polizia, l’esercito, lo Stato e il potere in genere. In tutto ciò, nelle ore immediatamente successive, la polemica ovviamente è infuriata proprio su questi versanti. La società dell’Al Ahly è stata persino costretta a prendere le distanze in un comunicato ufficiale con il quale ha duramente condannato i cori contro lo Stato dei suoi tifosi.
È una storia vecchia: provi ad indicare la luna e gli stolti guardano il dito. Condannano i tifosi per dei cori di comprensibile risentimento verso uno Stato connivente, ma nessuno si pone domande sui perché, nessuno si pone il problema di chiedere conto a quello stesso Stato per questa sua zona d’ombra o per la sua totale mancanza di equità e giustizia. Nel frattempo fra capri espiatori immolati a placare la brama di vendetta, su Port Said nessuna verità è stata ancora detta.
Matteo Falcone.
(Foto: Ahram.org)