Francamente non so ancora cosa possa spingere un bambino ad avvicinarsi al mondo del calcio. Ho affrontato talmente tante volte questo tema che sono persino stanco di parlarne e scriverne. Eppure, quando si gioca un Mondiale, volente o nolente, i miei pensieri ed i miei ricordi vanno sempre ad un tempo che mi sembra così vicino ma che, in realtà, è lontano e forse neanche tanto più distinguibile tra le righe dello spartito della vita.

Sarà perché per me il Mondiale è stato un po’ l’anno zero a livello calcistico. Ricordo ancora, in quella lontana estate del 1994, mia madre che un pomeriggio mi domanda: “La vuoi la bandiera dell’Italia?”, ed io, che ancora non avevo ben chiaro cosa fosse il pallone, il tifo e tutto quello che gli gira attorno, a risponderle: “Perché?”.

Sì, a pensarci il mio feeling con questo sport è iniziato proprio in quel preciso momento. Quando mia madre, con tutto l’amore possibile (e provo una strana sensazione a scriverlo, forse solo tre colori legati ad un pallone che rotola possono farmi essere sentimentalista verso la mia famiglia), si mise alla macchina da cucire ed in un paio d’ore sfornò un tricolore gigante che orgogliosamente, per anni, ho portato con me quando giocava l’Italia, appendendolo vita natural durante sul balcone.

I colori mi hanno avvicinato allo sport. Al calcio. Ed infine al tifo. Tutto inevitabile. Come fu inevitabile l’empatia con questo stupidissimo gioco che consiste nel rincorrere una sfera ed insaccarla nella rete oltre la linea della porta avversaria.

Fino ad un paio di mesi prima non sapevo neanche le regole, ed ora mi ritrovavo a tirar tardi la sera non solo per la Nazionale, ma anche per un’inutile Bolivia-Corea del Sud. A tal proposito, ricordo ancora l’incazzatura di mia zia quando scoprì che, dormendo da lei, avevo acceso la tv del salone in piena notte per assistere all’incontro. Un meccanismo inconscio e transumante (proprio come le pecore che vanno da una campagna ad un’altra senza capirne realmente il perché) che lentamente si impossessava di me.

Perdemmo quella volta. Ai rigori. Baggio, Massaro e Baresi sbagliarono. Proprio loro. Proprio lui, il numero 10. Quello che aveva trascinato in finale l’Italia. Quello che ci aveva letteralmente resuscitato con la Nigeria ed era, ma forse lo è tutt’ora, diventato il mio personale idolo. Quella sera, sul balcone immenso di mia zia, nel popolare quartiere di Quarto Miglio, piansi nel vedere il Brasile alzare la coppa. E come me anche i miei cugini.

Tante volte nella mia vita ho pensato a quel momento. Forse enfatizzandolo, forse minimizzandolo. Chissà. Quando siamo piccoli non vediamo l’ora di esser grandi e quando siamo grandi ci accorgiamo di quanto faccia schifo esserlo, volendo tornare ad essere bambini. Strana la vita, eh? Del resto “È un po’ mignotta e va con tutti, si però…”,come diceva qualcuno.

Ma questo sogno, questo entusiasmo, questa parte del nostro cuore che viene letteralmente regalata a questo sport ed a tutto quello che gli gira intorno, è ancora ben spesa? Me lo sono chiesto per l’ennesima volta ieri sera. Davanti a quella finale tra Germania ed Argentina, vista più per dovere di cronaca che per altro.

Uno spettatore fa invasione di campo, per dare un bacio al tedesco Howedes e la regia internazionale decide di non inquadrarlo, non solo offrendo quindi un servizio fazioso e manchevole, ma anche e soprattutto dando uno spaccato di come ormai FIFA e soci siano una vera e propria Gestapo/Stasi che esce ben oltre i confini del calcio.

E come se non bastasse i telecronisti della situazione, almeno quelli di RAI e Sky Italia, pensano bene di dar manforte a questa decisione definendola giusta e ragionevole, svestendosi quindi totalmente del ruolo di cronisti quali, seppur di sport, sono. E nella cronaca non si deve mai nascondere, ma se possibile esaltare e mettere a nudo.

Siamo arrivati al punto di censurare un bacio? Un gesto di affetto verso il proprio giocatore preferito o la propria squadra di calcio? Beh allora penso che il nostro tempo, almeno come fruitori ancora minimamente pensanti di questo spettacolo, sia giunto al termine. “Eh ma è il calcio di oggi, ci sono gli interessi, le televisioni, non siamo più mica nel 1978”, dicono.

Intanto io, rispetto al mio fatidico 1994, vedo una moria tecnica e spettacolare in campo, a favore di un appiattimento che, se da una parte ha reso competitivi anche Paesi un tempo davvero improponibili (pensiamo agli USA, ai quali rendo onore per il grande lavoro fatto nell’ultimo ventennio), dall’altra ci ha fatto perdere totalmente il contatto su cosa sia il bello di questo sport.

Il bello del calcio non è Messi che vomita a centrocampo a fine primo tempo perché, dice la mia cultura del sospetto, giocare centinaia di partite all’anno non è umano ed ha per forza di cose bisogno di un aiuto esterno. Il bello non è il Brasile che non è più tale. Una nazionale ormai composta da veri e propri oriundi che lasciano il proprio paese a 16 anni per sbarcare, spesso, veramente nelle lande più desolate ed insolite del nostro pianeta. Il calcio non è mai stato uno sport pulito. Ma è stato uno sport bello. In grado di generare sentimenti e regalare sogni.

Ora voi vietate di inquadrare un invasore e preferite propinarci Blatter, Platini e la Merkel che gioiscono felici accanto alla Coppa del Mondo. Una volta quella coppa era il sogno di ogni bambino. Il mio momento felice un’estate su quattro. Ora non ci penso più. Posso dire solo grazie a mia madre. Almeno ho fatto in tempo a vedere l’ultimo gol della carriera professionistica di Maradona. Quello realizzato contro la Grecia. Il suo urlo assatanato ed i tifosi argentini dietro la rete che esultano, rimarranno una delle immagini simbolo dei mondiali per me. Tutto il resto, oggi, è merda decomposta.

Simone Meloni.