Una partita vissuta da due cuori e quattro occhi. Ognuno con il suo punto di vista. Simone e Gianvittorio ci coinvolgono nel loro Lione-Roma attraverso questa alternativa e – per certi versi – insolita chiacchierata iniziata da Simone.
“Il faut chanter!” (bisogna cantare) urla una signora sulla quarantina mentre passa in mezzo al marasma umano che, a pochi passi dall’ingresso della Virage Nord, carica l’ambiente con torce, bomboni, canti e fumogeni. È il mio primo impatto con il nuovissimo Stade des Lumiers. Proprio alcuni metri dopo che un agente della Gendarmerie mi ha fermato chiedendomi dove andassi. “Tribuna stampa” gli rispondo in francese. “Èvitez de parler italien” mi dice laconicamente facendomi passare. L’odore che sento è quello giusto. Quello dell’aggregazione del pre partita. Le birre a grappoli e centinaia di bottiglie per terra. I balli e i canti. Amici, compagnie appena conosciute e tanta voglia di fare dello stadio un caldo catino in grado di aiutare la squadra.
Avevo lasciato la Francia del pallone qualche anno fa, al termine di un periodo particolare della mia vita, dove sentii il bisogno di valicare i confini nazionali per vedere come vivevano stadi e calcio gli altri. “Gli altri” furono quasi subito i francesi. Forse per vicinanza, forse per alcune foto viste online relative alle tifoserie transalpine o forse per la vicinanza linguistica e geografica. Non era ancora il periodo del boom tedesco e tuttavia ancora oggi vedo molte più similitudini tra alcune curve d’Oltralpe e le nostre che tra quelle spesso plastificate di stampo teutonico (dove ovviamente esistono realtà di tutto rispetto, sia chiaro). Tornare a calcare il palcoscenico ultras dell’Hexagon mi fa uno strano effetto. Ma a spingermi è la curiosità. Soprattutto di vedere nuovamente all’opera una realtà come Lione. Casualmente già capitata sulla mia strada. Una volta a Parigi (la mia prima volta in uno stadio francese) e una volta a Nizza. Oltre a quella famosa partita del 2007 in cui l’OL cadde sotto i colpi di Totti e Mancini negli ottavi di Champions League.
Il mio Lione-Roma comincia esattamente il martedì. Ho deciso di vivere appieno ogni istante di questa sfida. Allora tanto vale iniziare subito. Con gli ormai celebri pullman low-cost che mi trasportano in ogni dove. Taglio l’Italia perpendicolarmente fino a Milano, dove mi attende il cambio per il capoluogo della Rhone-Alpes. Un simpatico gioco del destino vuole che più il mio bus volga a nord e più il sole conquisti spazio sulle nuvole baciando a tutti gli effetti il mio cammino. Un sole che promulga buona speranza e trasmette allegria. Viaggerei per sempre e per sempre assaporerei gli istanti e le sensazioni che chilometro dopo chilometro cambiano repentine. Perché in tutto ciò c’è il mio modo d’essere, compreso l’obiettivo: il calcio, il tifo, i colori, le città da vedere, le culture da accarezzare, rispettare e capire.
Mi sono dilungato un po’, ma adesso tocca a te Gianvittorio. Il tuo viaggio è stato sicuramente più confortevole!
Dopo dieci anni, ancora Lione. Niente più Stade de Gerland pronto ad ospitarci. Dopo quasi sette decadi l’Olympique Lyonnais si è trasferito da pochi mesi nel futuristico Parc OL – anche se i suoi tifosi preferiscono chiamarlo Stade des Lumieres. Le luci d’altronde son pressoché sacre nella città cullata dalle acque di papà Rodano e mamma Saona, tanto da aver preso il nome della festa più importante nel calendario degli abitanti.
Una nuova esperienza europea è ormai alle porte, percorrendo la strada che due millenni e più or sono portò il luogotenente Lucio Munazio Planco – alle dipendenze di Giulio Cesare – a fondare una città intitolata inizialmente al dio supremo dei Galli. “La fortezza di Lud” – in latino semplicemente Lugdunum – con oltre mille romanisti in partenza, chi tramite cielo sfidando uno sciopero selvaggio dei controllori di volo francesi e gli altri, come il sottoscritto, pronti a macinare chilometri di terra. Al netto delle difficoltà dei primi, una soluzione potenzialmente scomoda rivelatasi fruttuosa. Ma andiamo con ordine. Partito dalla Stazione Termini mentre il sole albeggia timidamente in un giovedì come un altro – per molti – raggiungo Torino insieme ad un manipolo di amici, equamente divisi nella città sabauda in due macchine noleggiate per coprire le ultime centinaia di miglia. Una sosta per soddisfare le esigenze culinarie in quel di Bardonecchia, tra una polenta e un vino rosso, un agnolotto e la vista delle Alpi innevate; il viaggio riprende dritto verso il Traforo del Frejus, terza o quarta sosta di una lunga serie di pedaggi per raggiungere finalmente Lione. Chissà se qualcheduno tra Italia e Francia abbia mai pensato di accorpare le soste in un’unica fermata obbligata; in fondo un casello ogni dozzina di chilometri mi sembra un tantinello esagerato.
Sul calar della sera l’area metropolitana lionese si apre ai miei occhi tramite l’ultimo pezzo pregiato della collezione cittadina: il meraviglioso Parc OL. Sì, meraviglioso dall’esterno con le sue forme morbide e gradevoli. Non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina, ma l’ho fatto. E avevo ragione.
Tu sei arrivato prima di me in città Simone, immagino che avrai esaurito il tuo tempo camminando da una parte all’altra senza sosta?
Andiamo con ordine: Lione, ore 6 del mattino di mercoledì 8 marzo. La Festa della Donna non scalfisce minimamente le decise pulzelle locali che già affollano frettolosamente la Gare de Part-Dieu, nella zona commerciale della città. Non mi resta che girovagare, raggiungendo qualche amico sparso qua e là per la città e lasciando i bagagli in appartamento. Il mio flash va a una nottata di qualche anno fa, forse era il 2010. St.Etienne-Paris Saint Germain conclusa da poche ore e un passaggio fugace che mi aveva condotto proprio a Lione, da dove avrei dovuto prendere il treno per Modane (e poi per l’Italia) il giorno successivo. Nell’attesa di quella nottata fredda non avevo avuto modo di visitare per bene la città. Cosa che in questa occasione mi è riuscita alla perfezione. Lione per certi versi è la classica città francese, con alcune peculiarità: la deliziosa città vecchia con i suoi traboules, dei passaggi ad arco tra i palazzi che richiamano a tutti gli effetti le vicine città liguri, la collina della Croix-Rousse e la Basilica di Fourviere ad esempio, ma anche la confluenza tra il Rodano e la Saona che si uniscono dopo aver formato la Presqu’Ile, zona modaiola e ricca di negozi.
Ma oltre alle bellezze locali, cosa può cercare un “partitellaro” incallito da queste parti secondo te? Avrei mai potuto permettermi di lasciare Lione senza aver visto il vecchio Stade de Gerland? La curiosità di osservare con i miei occhi la storica casa del Lione, mi avvolge ancor più quando mi accorgo che in giro per la città sono disseminati numerosi adesivi degli ultras locali che ne celebrano la storia, lasciando trasparire ben più di un velo di tristezza nell’aver lasciato il fede alleato di tante battaglie. Dal 1920 al 2015 (ultimo match ufficiale disputato l’8 dicembre contro il Tours, ottavi di finale della Coppa di Lega). Una vita insieme all’OL. Una vita per l’OL. “Il tempo passa, le tue tribune cambiano ma per sempre i ricordi restano” recita una coreografia della Virage Nord. E ancora: “Quest’uomo ti ha donato la vita, Tony Garnier architetto di talento!” con una foto dell’architetto che ideò lo stadio. Un legame viscerale che capisco ben presto. Avvicinandomi allo stadio e riuscendo, dopo una simpatica trattativa con l’addetto alla sicurezza e il giardiniere, a penetrare sul terreno di gioco per effettuare qualche fotografia.
Il Gerland è clamorosamente bello: raccolto, attaccato al campo, con una conformazione particolare e non asetticamente anonima come gli stadi contemporanei. Ha subito diversi lavori di ristrutturazione nella sua storia, è vero, ma ha saputo mantenere quel fascino che solo gli impianti di calcio di un tempo hanno. Al di fuori si possono vedere le sue entrate tipicamente anni ’20 e mettendo piede sul terreno di gioco sembra di tornare con la mente alle vecchie partite dell’OL. Con quel settore ospiti stipato su due anelli e le battaglie dialettiche alquanto ravvicinate con il pubblico locale. È immerso nell’omonimo quartiere e giocoforza tutto ruota attorno a lui. Adesso è la casa del Lou (Lyon Olympique Universitaire) la squadra di rugby della città che lo ha rilevato recentemente, permettendogli di continuare a vivere. Sebbene ora i suoi interni siano decorati con i colori rossoneri lasciami dire che rimarrà, anche per chi lo ha visto sempre da foto e televisione, l’eterna culla dell’Olympique Lyonnais.
I chilometri percorsi, le poche ore dormite e una stanchezza paurosa fanno capolino in me, spendendomi tra le braccia di Morfeo ben presto. L’indomani sarà il giorno del match. Gambe e cervello dovranno lavorare come, se non più, di quelle dei giocatori in campo. Come ben immaginerai.
E quindi Simone, mentre io ero ancora in viaggio o prossimo all’arrivo come te la sei cavata?
Discretamente! In mattinata sole non ne vuol sapere di uscire, malgrado una bella camminata nell’esotico Parc Tete d’Or mi rimetta al mondo fungendo da vera e propria colazione. La Place Bellecour, nel cuore della Presqu’Ile, comincia a popolarsi di tifosi italiani. La maggior parte del contingente giallorosso ha optato per macchine e transit proprio come te, approfittando della distanza non impossibile. La differenza dal giorno precedente si nota dall’ingente presenza di Police Nationale, che sin dall’ora di pranzo sorveglia attentamente i punti nevralgici della città.
Farò davvero fatica a inquadrare il comportamento di polizia e gendarmeria, che ricordavo alquanto dure e poco inclini a lasciar passare comportamenti insubordinati. Spesso anche con atteggiamenti pretestuosi. Non mi posso spingere in analisi sociologiche perché non vivo la realtà francese a 360 gradi, posso però immaginare che gli ultimi due anni, caratterizzati da sanguinosi attentati in diverse città del Paese e dal costante spettro del terrorismo internazionale, abbiano spostato il focus dei problemi in altri settori, dove comunque le cose non sembrano andare per il meglio, basterebbe andarsi a leggere alcuni articoli che mettono in serio dubbio l’atteggiamento della polizia in occasione dell’attentato di Nizza, il 14 luglio scorso. Ma forse sarebbe sufficiente tenere a mente le furibonde immagini dei numerosi incidenti consumatisi durante l’Europeo per nutrire qualche dubbio sull’intelligence locale.
Ma dimmi Gianvittorio, raccontami invece il tuo arrivo in città e allo stadio.
Lasciate le vetture in un albergo prossimo all’impianto, ci dirigiamo con passo svelto verso il settore ospiti, notando con fare curioso come il parcheggio delle macchine provenienti da Roma fosse stato posto di fronte alla Virage Nord – dimora dei Bad Gones gruppo portante del tifo locale resosi protagonista un’estate fa di alcune scaramucce con i vecchi nemici di sempre: gli inglesi. Qualcuno si sarebbe stupito di alcuni disordini? Io sinceramente no. Per fortuna in settimana non vi è stato spazio nei rotocalchi nostrani per questo genere di notizie, tanto per sottolineare quanto troppo spesso certe scene, seppur violente, siano mediaticamente ingigantite per meri fini di visibilità e, perché no, guadagno.
Così con l’animo trepidante la masnada giallorossa raggiunge alla spicciolata le porte del Parc OL. Una breve e sommaria perquisizione da parte di alcuni steward, come se davvero non fossimo bestie possedute dal Demonio ma ragazzi, uomini e donne dalle più disparate personalità, e il terreno di gioco si mostra d’un verde speranza circondato da spalti affacciati sulle linee di demarcazione. Io, abituato allo Stadio Olimpico, rimango ancora basito al cospetto di stadi del genere.
Il palchetto posto ai piedi di ogni curva – rispettivamente Virage Nord e Sud – con l’impianto di amplificazione dei megafoni e la presenza di un numero discreto di tamburi mi lasciano ben presagire. Mancavano soltanto i tifosi affinché spettacolo avesse inizio.
Simone tu come hai raggiunto lo stadio e cosa te ne è parso in generale?
Raggiungere il nuovo Stade des Lumiers è impresa facile ma non breve. Dalla Gare de Part-Dieu un tram parte a intervalli di tempo vicinissimi. Italiani e francesi si mischiano apparentemente senza problemi, con la sicurezza privata che controlla sommariamente i movimenti sulle banchine. Lo stadio si trova a venti minuti dal centro, nell’area di Décines-Charpieu, popoloso comune della metropoli di Lione e quando arriviamo a destinazione una polizia – ora sì – isterica e preoccupata ci dirotta per una via secondaria: si sono registrate alcune tensioni e le forze dell’ordine, che sembrano alquanto impreparate, vogliono evitare che nel tourbillon degli incidenti finiscano un po’ tutti.
Lo dico francamente: il fatto che uno stadio si trovi fuori la città non mi fa impazzire. E ancora: in Francia si è dibattuto molto su eventuali sprechi dovuti alla costruzione di nuovi stadi in vista del Campionato Europeo. Che in questi casi ci siano speculazioni è del tutto normale (non può piacerci, ma è così, tutto il mondo è Paese) di certo però l’impianto per come si presenta oggi appare un po’ la versione migliorata del San Nicola di Bari. Una cattedrale nel deserto. Bella ma nel deserto.
Di contro – e questo lo dico ad appannaggio di tutti quei “capiscioni” che continuano a propinarci stadi nuovi obbligatoriamente guarniti con diecimila servizi che nulla hanno a che vedere con il pallone – non vi è praticamente null’altro di commerciale al di fuori dello store ufficiale e di un paio di ristoranti situati nella pancia dello stadio. Eppure le gradinate si riempiono sempre e comunque e il Lione resta uno dei marchi più importanti del calcio francese. Chissà se in questa voglia di venire allo stadio influisce anche la libertà di poter tifare senza divieti e restrizioni negli strumenti da portare dentro. Chissà (sic!).
A questo punto la signora di cui parlavo in precedenza ha già smesso di “fomentare” i suoi compagni e ora sta cantando anche lei. Non sono un ammiratore del modello francese (ammesso che esista). Anche qua esistono divieti di trasferta, repressione all’ennesima potenza e gestioni alquanto discutibili dei tifosi. Però – c’è un però – a differenza nostra neanche l’opprimente e spesso bacchettona Francia ha saputo creare veri e propri mostri burocratici come i fitti prefiltraggi (ci sono, ma si passano in maniera snella), la tessera del tifoso, i biglietti nominativi (salvo rare eccezioni), le autorizzazioni da chiedere per portare un megafono o un tamburo (anche se qua i gruppi ultras sono tutte organizzazioni registrate) e tutta la sfinente trafila per acquistare un biglietto ed accedere allo stadio.
Ripeto: tutt’altro che la perfezione e sicuramente il movimento ultras francese per grandezza, turbolenza e radicamento sul territorio non è minimamente paragonabile a quello italiano, però in queste occasioni ci si rende conto di quanto i tifosi italiani siano ormai i più discriminati e maltrattati d’Europa dentro i confini nazionali. Mentre – ironia della sorte – quasi tutto il Vecchio Continente si rifà alle nostre gesta, al nostro portamento e alla nostra idea di curva. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere.
Gianvittorio invece tu cosa mi dici sull’ambiente all’interno dello stadio?
Mah, il tifo si sa, va a mode e il battimani islandese di Euro2016 ha mietuto molte vittime. Tra queste anche i tifosi del Lione, protagonisti però di un “Ahou” di pregevole fattura, con le tribune anch’esse coinvolte nel gioco. L’ingresso in campo delle squadre è accompagnato da due coreografie, rispettivamente una per curva. Sul settore alla nostra sinistra si intravede un telo su cui capeggia un gallo armato di scudo, una sorta di Obelix. Il resto è però invisibile agli occhi, mentre visibile è il telone alla mia destra raffigurante un lupo divenuto preda di un leone. “Ave Ludgunum” posto sopra di esso e “Per la gloria della nostra città” al di sotto, questa l’accoglienza dei padroni di casa a cui rispondono i romanisti con il consuetudinario coro iniziale. Le sorti della contesa sugli spalti sono evidenti per manifesta inferiorità numerica e strumentale, tuttavia la prima frazione di gioco è stata contraddistinta da un paio di momenti fortemente favorevoli, complici sicuramente le due reti siglate dagli uomini di Spalletti. “Dentro lo stadio ti sostengo, fuori io vado a caricar”, il motivetto lo intonavano tutti con fierezza, lo fanno anche nell’Olimpico ormai triste dimora del bon-ton, eppur non ci sono più “ultras” là dentro.
La ripresa vede invece un Lione capace di ribaltare e arrotondare il vantaggio, trascinato da uno stadio che mi ha sorpreso in positivo. Cori a rispondere, battimani ordinati, cori a tempo (il vantaggio del tamburo…), “pogate” e addirittura pacifiche e festanti invasioni di campo, con i tifosi respinti in curva dopo aver festeggiato con il portiere. Scene che, nel dramma sportivo di una sconfitta ed il vedersi costretti ad un’ulteriore sfida all’ultimo sangue, riconciliano la passione di una persona a questo sport.
Simone ora però voglio una tua disamina dettagliata sull’ambiente.
Cominciamo con il dire che supero i controlli senza che nessuno steward vada oltre il proprio compito (ormai da noi succede con regolarità) ed entro finalmente allo stadio. Il colpo d’occhio è molto bello, inutile negarlo. Un’ora prima del fischio d’inizio le tribune sono quasi già piene e s’intuisce stiano allestendo le rispettive coreografie. Il tifo lionese può contare su due anime, come hai giustamente detto: in Virage Nord prendono posto gli storici Bad Gones (il termine “Gone” non vuol dire altro che “ragazzo di strada” nel dialetto lionese) mentre in Virage Sud ci sono i Lyon 1950. Teoricamente i primi hanno un’ispirazione hooligans mentre i secondi si avvicinando più alla visione ultras della curva. A quanto mi è parso di vedere, tuttavia, al giorno d’oggi questa differenza è andata un po’ scemando, con i Bad Gones che hanno rafforzato la loro componente ultras. Almeno al momento del tifo.
Una delle poche pecche di questo stadio, secondo me, è la collocazione del settore ospiti. I tifosi capitolini, come avviene in quasi tutti gli stadi nuovi, sono sistemati nella parte più remota dell’impianto dietro una serrata recinzione.
Man mano che l’inizio della gara si avvicina le curve di casa cominciano a scaldarsi, fino ad arrivare, per l’appunto, all’odiosa emulazione del “treno” (battimani ritmato col tamburo esistente in Italia da almeno trent’anni) in versione islandese. Dico subito che ho apprezzato molto il tifo dei ragazzi di Lione. Un po’ meno lo scimmiottare un qualcosa che, seppur simpatico al momento, fondamentalmente non esiste.
Mi permetto un commento sintetico prima di approfondire: frequentare e osservare gli italiani ha avuto degli effetti benefici incredibili. Se è vero che a Lione il tifo organizzato esiste ormai da tanto tempo è altrettanto vero che negli ultimi tempi, a livello di calore e colore, ha fatto dei netti passi in avanti. Lo Stade des Lumiers di questa sera rientra tra gli ambienti più belli e passionali visti negli ultimi anni. Anche grazie a una certa libertà di cui i tifosi di casa possono usufruire (le esultanze ai quattro gol del Lione con tanto di invasione dello spazio davanti alla curva, a pochi centimetri dal terreno di gioco, resta una delle cose più belle viste in Europa. Roba che in Italia costerebbe come minimo una diffida). A prescindere da ciò, se vogliamo parlare prettamente di tifo, si nota palesemente come – almeno tra le mura amiche – ci sia uno zoccolo duro ampio e forte che è riuscito a creare una vera e propria cultura di curva, in grado di far cantare quasi sempre l’intero settore in Nord e buona parte dei presenti in Sud. Cori a cui spesso partecipa anche il pubblico delle tribune.
Anche io voglio dedicare qualche riga alle coreografie iniziali, con Roma e la sua storia chiamate ampiamente in ballo, esattamente come nel 2007, quando i Bad Gones, a corollario della propria scenografia, esposero l’ironico striscione “Veni, vidi, persi”. Stavolta la Virage Nord si rifà all’antico nome di Lione con un telone che raffigura un leone intento ad uccidere un lupo e attorno cartoncini e bandierine a dare ulteriore colore. Più semplice ma non da buttar via la coreografia della Sud con lo striscione “Tutte le strade portano a… Stoccolma” ultimato da un guerriero (suppongo gallo) che col suo scudo scalza l’indicazione “Roma” in favore della capitale svedese dove si disputerà la finale di Europa League.
Sotto il profilo del colore molto belle le tantissime sbandierate e le sciarpate effettuate da ambo i settori. Il calcio fondamentalmente è questo. Pensa che in Italia vengono fatte leggi e decreti per vietarlo e renderlo impossibile.
Per quanto riguarda gli ospiti – ti dico il mio pensiero sincero – non si tratta della miglior prova della stagione. Tifo troppo frammentato e altalenante, nonostante qualche bel picco. Sicuramente la disposizione del settore non ha aiutato, così come l’andamento del match che dopo il primo tempo chiuso sull’1-2 ha pesantemente condannato i giallorossi. Un 4-2 per i transalpini che mettono una seria ipoteca sul passaggio del turno.
Al triplice fischio è un vero e proprio tripudio per il pubblico lionese, ancora esaltato dalla prodezza di Lacazette al 90′. Un gol festeggiato dal giocatore proprio in mezzo ai tifosi della Virage Nord. Immagini rare da vedere ormai negli stadi europei. Prima di riprendere la via del ritorno mi soffermo proprio ad osservare lo stadio che si svuota, ragionando su quanto in Italia sia errato e idiota il concetto di impianto nuovo. Da noi deve per forza essere sinonimo di ulteriore repressione e incremento esponenziale dei prezzi. Qua – con tutti i difetti e le note dolenti del caso – ha mantenuto più o meno gli stessi criteri del Gerland. Compresi quelli economici.
Se equipariamo il costo della vita e i salari italiani con quelli francesi e il costo dei biglietti per la gara disputata a Lione (a partire da 20 Euro in vendita libera e 10 Euro per gli abbonati) con quelli che generalmente vengono applicati per le partite casalinghe della Roma (minimo 25 Euro contro avversari di seconda fascia, che nel finale di campionato diventano praticamente amichevoli vista la scarsa competitività del nostro campionato), sommando a ciò la sfrenata repressione esistente all’Olimpico, possiamo avere un quadretto chiaro e lucide spiegazioni sul perché uno stadio si riempia e l’altro no. Ma soprattutto sul perché “stadio nuovo” non debba per forza significare “fine del tifo organizzato e del coinvolgimento popolare”.
Gianvittorio, le tue note a margine?
A Lione hanno capito che si possono fare stadi a misura di tifoso e tifo, monetizzando dai settori più costosi e concedendo al “popolino” i suoi spazi co-gestiti. Al netto di alcune escandescenze. Probabilmente senza quell’atmosfera il risultato sarebbe stato diverso, o forse no. Ma uscendo dal Parc OL mi sono sentito piuttosto impotente. Sconfitta per 4-2, quattro ore di macchina, un’attesa del semaforo verde al cospetto del Frejus e altre quattro ore abbondanti di treno. E soprattutto una grande invidia per quella libertà di espressione del tifo e della felicità di partecipare attivamente alla sfida. Si tornava nel deserto dello Stadio Olimpico con un’impresa sulle spalle. Ma come disse un poeta di Lione: “Ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte vi è nascosto un pozzo”.
E le tue ultime riflessioni Simone?
Prima di voltare le spalle alle gradinate mi concedo un ultimo giro dentro allo stadio, da una parte all’altra. Non ci sono barriere a impedirmelo. È l’ultimo sfizio prima di riprendere il tram. Un lungo viaggio in pullman verso Genova mi aspetta. All’orizzonte si prospetta il derby della Lanterna, perché non ci si deve mai fermare. Ma prima un’ultima occhiata al Rodano che rispecchia la luce di una solitaria Lione notturna. Ultima visione prima di intraprendere altre strade e cominciare nuovi racconti.
Testo di Simone Meloni e Gianvittorio De Gennaro.
Foto di Simone Meloni.