E’ mezzanotte di un sabato sera di dieci anni fa. E’ inverno, manca poco a Natale. Fa freddo. Persino a Roma, fa incredibilmente freddo. Salgo sul Regionale per Civitavecchia. Là ho appuntamento con altri ragazzi per partire alla volta di Torino. La brezza marina dell’ultima grande città costiera dell’alto Lazio si infrange sui nostri volti sorridenti, mentre aspettiamo l’Intercity Notte per il capoluogo piemontese. Sappiamo di trovare la neve e la colonnina di mercurio ancor più bassa. Ma siamo al contempo eccitati. Sì, perché dopo più di quindici anni, sotto la Mole si tornano a disputare le partite di calcio al vecchio “Comunale”, ribattezzato, dopo le olimpiadi invernali, “Olimpico”. Nomignolo che ci fa storcere ovviamente la bocca. Per noi di Olimpico ce n’è uno solo. Con sede a Roma, in Viale dei Gladiatori.

Torino, la Torino sportiva, è una tappa obbligatoria per chiunque segua il pallone italiano. Una storia calcistica tra le più profonde, radicate e ricche di aneddoti del nostro Paese, oltre a due tifoserie (quella granata e quella juventina) che hanno scritto la storia del movimento ultras. Non nego che gli ultras torinesi hanno sempre esercitato un certo fascino nei miei confronti. Chissà, forse è colpa di quel “Ragazzi di stadio” che ha segnato il mio post-adolescenza, o semplicemente delle sigle storiche che per anni hanno campeggiato nelle curve del Comunale prima e del Delle Alpi poi, e che di tanto in tanto rivedo sui miei vecchi Supertifo o sulle immagini d’archivio delle gare anni ’80.

Come dieci anni fa, anche stavolta il freddo non scherza. Anche se a tener banco è la nebbia. Mi basta mettere piede in Corso Vittorio Emanuele per capire che sarà difficile vedere il cielo azzurro. Ma ancora peggio va ai miei propositi di raggiungere la Basilica di Superga. Nonostante mi inerpichi sin lassù a piedi, faccio fatica a capire dove sia la chiesa e, soltanto dopo qualche istante, mi accorgo che è proprio qualche metro alla mia sinistra. Anche la targa in onore al Grande Torino è offuscata, ma reca sempre la sua suggestione, ancor tetra a causa delle goccioline di nebbia che di tanto in tanto si spengono sulla mia testa.

Torino-Roma è una di quelle rivalità che si perde nella notte dei tempi. Impossibile non associare questa gara al tourbillon di gemellaggi e rivalità andate in onda nei vari decenni. All’inizio fu Roma/Juventus contro Torino/Lazio, per poi restare in piedi solo il secondo sodalizio e infine infrangersi per dar vita a un sanguinolento “tutti contro tutti”. E’ così che va. Ed è esattamente a questo che penso mentre il mio tram percorre Corso Agnelli. Scendo all’incrocio con Via Filadelfia. Non posso non buttare un occhio sull’omonimo stadio. O meglio, sulle macerie che ne restano, ormai ricoperte da quintali di terra alzati dalle ruspe che nel 2016 dovrebbero riconsegnare alla città e al popolo granata il suo storico impianto di gioco (verrà utilizzato per la Primavera).

Anche se sono passati tanti anni e anche se il movimento in Italia ha perso molto del suo appeal, da queste parti si respira ancora un’aria minimamente piacevole. Intrigante direi. Più che altro per i tanti racconti letti sulle schermaglie che erano solite verificarsi in questa zona, ma anche perché, e mi fa piacere constatarlo, il Torino è vissuto ancora come una fede. Parliamo pur sempre di una squadra che, a dispetto di una storia gloriosa, si ritrova ormai quasi da un trentennio ad affrontare campionati anonimi, retrocessioni e risultati umilianti. Al cospetto di una rivale cittadina vincente ed affermata.

Eppure già un’ora e mezza prima del fischio d’inizio, c’è davvero tanta gente attorno allo stadio. E’ pur vero che si tratta di una sfida di cartello e che la squadra di Ventura da un paio di anni si è attestata su buoni livelli, tornando a disputare una competizione europea dopo moltissimi anni. Ho sempre riconosciuto al “nuovo” Comunale un aspetto accogliente e grazioso. Costruito con tutti i crismi adatti per seguire una partita di pallone senza apparire per forza un grande centro commerciale con attività annesse che poco hanno a che vedere con la partita. Ovvio, i vecchi tifosi torinesi potranno controbattere che una trentina d’anni fa si respirava tutt’altra aria, e non lo metto in dubbio. Ma quando faccio questo genere di analisi parto sempre dall’assunto “bisogna accontentarsi”.

Faccio il mio ingresso in tribuna stampa quando manca mezz’ora al fischio d’inizio. Le gradinate si stanno riempiendo e in Curva Maratona si può già chiaramente vedere lo striscione degli Ultras Granata, tornato in prima linea negli ultimi tempi, dopo alcuni anni di assenza in seguito ai Fatti di Catania. Anni in cui il tifo granata, come del resto quello di tutte le curve italiane, ha perso quasi tutti i suoi gruppi storici e molto del suo smalto. Non me ne voglia nessuno, ma il ricordo che ho della prima volta che vidi la Maratona è davvero unico: tifo per 90′, intenso, passionale, colorato e compatto. Purtroppo non è minimamente paragonabile alla prestazione odierna. Sono cambiate troppe cose, e troppo velocemente.

Il settore ospiti va via via popolandosi, alla fine saranno un migliaio i romanisti presenti. Numero perfetto che include l’assenza di molti tifosi solitamente “meno canterini”(delusi dalle altalenanti prestazioni della squadra) e rafforza l’unione di chi ci vorrebbe essere sempre (vista la situazione dell’Olimpico, il condizionale è d’obbligo). Ed il risultato infatti sarà più che buono, con una prestazione buona fatta di tanta voce, un’intensità ottima soprattutto nella ripresa, diverse manate e molte bandiere e stendardi a due asti che colorano l’anello inferiore. Non mancano ovviamente i cori contro il prefetto Gabrielli e l’invito alla tifoseria a non mollare una battaglia che oggi come mai appare fondamentale per la tutela della propria dignità e il diritto di essere tifosi. Degna di nota l’esultanza al provvisorio vantaggio di Pjanic, una gioia che dura qualche minuto e che probabilmente esterna tutta la frustrazione di non poter cantare, gioire e soffrire per la Roma anche tra le mura amiche.

Dicevamo degli ultras di casa. I granata aprono le danze con una coreografia composta da cartoncini e telone centrale, semplice, d’impatto e sicuramente apprezzabile. Poi subito un paio di cori a mettere in chiaro i rapporti con i dirimpettai, che rispediscono al mittente le offese. Uno scambio con solfeggi d’altri tempi, che è sempre piacevole udire per un nostalgico come il sottoscritto. I primi dieci minuti della Maratona sono apprezzabili, con un paio di belle manate che immortalo davvero piacevolmente. Dopodiché gli Ultras faticheranno e non poco a trascinare dietro tutto il settore, e i picchi di tifo si conteranno davvero sulle punta delle dita. Bellissima, invece, l’esultanza nel finale, quando al 94′ un rigore di Maxi Lopez riacciuffa un pari ormai insperato.

Da segnalare anche il gruppo posizionato in Curva Primavera. Circa 150 ragazzi che “amoreggiano” sovente con i vicini romanisti e si dilettano in un sostegno tutto sommato rumoroso e continuo, tanto da trascinare spesso l’intero settore.

Alla fine è un pareggio, che sta persino stretto a un Torino disastroso in fase offensiva, ma perfetto in quella di costruzione del gioco. Lo stadio applaude i granata e sbeffeggia gli ospiti, chiaramente delusi dal gol subito in extremis. Ora il freddo si comincia davvero a far sentire. E’ una tipica serata torinese, con quel vento gelido che arriva dalle Alpi ma che non ferma la vita di una città che negli ultimi anni è orgogliosamente uscita da quel cliché che la voleva dipinta esclusivamente come una grande e grigia catena di montaggio, costretta a dimenticare il proprio bagaglio culturale. Ne approfitto. Per girarla nuovamente, in attesa del mio pullman per Roma.

E’ l’epilogo di una giornata intensa. Vissuta in tutto e per tutto “on the road”.

Simone Meloni