Dopo diverse stagioni con i settori ospiti vicendevolmente chiusi, torna il derby tra Vastese e Chieti con entrambe le tifoserie. Per certi versi parlarne in toni entusiastici significherebbe legittimare la girandola di divieti che in queste stagioni hanno reso il nostro calcio un ricettacolo di proibizionismo e incompetenza gestionale, impoverendone ancor più i contenuti e rendendo il prodotto sportivo e aggregativo scadente, spesso ai limiti del ridicolo. Quindi permettetemi di dire che rivedere le due tifoserie – sia all’andata che al ritorno – è il minimo sindacale che ci si possa aspettare da chi è pagato appositamente per fare prevenzione e gestire eventi pubblici, peraltro caratterizzati ormai da un numero di partecipanti esiguo o nettamente inferiore al passato.

Certo, è sbagliato anche parlare di “trasferta libera”. I biglietti messi a disposizione dei tifosi teatini sono infatti trecento, un numero ben inferiore alla capienza effettiva del settore loro riservato. Ma in tempi di magra bisogna sapersi accontentare, soprattutto quando – come nel loro caso – da anni si mastica amaramente nei campi della Serie D, con poche occasioni di confronto e ancor meno possibilità di fare aggregazione “da trasferta” in un certo modo.

Lo stadio Aragona è una novità per me. Dopo un lungo tempo di chiusura (due anni) è tornato ad aprire i battenti nello scorso febbraio, ospitando nuovamente la compagine locale, lungamente costretta a emigrare lontano da Vasto (ultimo domicilio conosciuto, Agnone). Tralasciando tutta la querelle – che ne ricalca molte simili italiane – che ha determinato la sua chiusura per carenze strutturali e attorno alla quale le autorità locali hanno aggiunto la sempreverde dose di scarica barile allungandone ulteriormente i tempi, fa sicuramente piacere vedere restituita una simile struttura sportiva alla città. L’impianto vastese, infatti, è a mio modo di vedere notevole. Con le sue tribune attaccate al campo, la sua curva di casa coperta e i suoi gradoni dipinti di biancorosso e non ancora “inquinati” dai seggiolini – in particolar modo da quelli multicolor – che ormai anche in Serie C sono diventati obbligatori. Insomma, uno stadio che è stato ostaggio della burocrazia ma che ancora sembra sfuggire, parzialmente, a essa. Arroccato sulla collina che ospita il centro storico di Vasto e che domina la sua parte marina. Tutto molto bello, se non fosse per l’ingiustificato clima isterico che si respira attorno al suo perimetro, come avrò modo di raccontare.

Neanche a dirlo, il mancato utilizzo dell’impianto cittadino prima e la sequela di divieti poi – culminata con le porte chiuse per la partita contro il Termoli – hanno rappresentato per la società un grande problema, tanto da portare la presidenza a “minacciare” l’abbandono, con la possibile riconsegna del club nella mani del primo cittadino. Questo per dire che quando si invocano imprenditori per investire in realtà locali e risollevarne le sorti, quando si esortano i tifosi a riempire gli stadi per aiutare i club e quando si parla in generale a vanvera del calcio “minore”, bisognerebbe sempre ricordare le difficoltà – spesso insormontabili – che vengono poste tra il dire e il fare. Oltre a una burocrazia che, sovente, per qualche bizantinismo, ha reso inagibile o inadatta anche l’impiantistica migliore. E poi c’è la disastrosa, emergenziale e ormai risibile gestione dell’ordine pubblico. Con il suo modus operandi che oltre ad allontanare psicologicamente i tifosi dallo stadio, a volte chiude loro proprio materialmente le porte. Laddove l’incasso di un derby rappresenta ancora elemento vitale per completare un’iscrizione all’anno successivo o appianare qualche ammanco di cassa.

Malgrado le previsioni minaccino temporali copiosi sul versante adriatico del Centro Italia, decido comunque di partire. Non sono un amante dei tifosi assiepati sotto agli ombrelli, ma so bene che decine di variabili possono far sì che la prossima occasione di assistere a questa partita senza troppe limitazioni possa allontanarsi anni luce. Così mi imbarco sulla poco frequentata linea ferroviaria per Pescara, cambiando successivamente per Vasto. Un viaggio sempre bello, che permette di tagliare in due gli Appennini, ammirandone le maestose cime e gli ultimi spruzzi di neve, fino a vedersi aprire davanti il mare. Il tempo tiene e terrà contro ogni pronostico, permettendomi anche una bella camminata sulla spiaggia di Vasto. Deserta ma affascinante, con improvvise folate di vento che sembrano esser attutite solo dal bel centro storico, situato per l’appunto nella parte alta e in cui spiccano il Castello Caldoresco, che ha ospitato le varie famiglie che nei secoli hanno dominato la città, e il Palazzo D’Avalos: probabilmente il vero e proprio simbolo locale, reso grande e magnificente dall’ominima signoria che per svariato tempo ha governato Vasto.

A Chieti sono stati venduti circa duecentocinquanta tagliandi. Per l’occasione la maggior parte delle strade attorno allo stadio, nonché la Villa Comunale, sono chiuse e avvicinandosi all’impianto ci si imbatte nell’ingente schieramento di forze dell’ordine. Evidentemente le turbolenze avvenute nel 2016 – quando un servizio d’ordine tutt’altro che inappuntabile permise ai teatini di giungere nei pressi della curva di casa – sono ancora vive nella mente di qualcuno. Ci si imbatte quindi in un clima palesemente nervoso, dove come sempre a farne le prime spese sono i poveri inservienti della società, costretti a rigide disposizioni che finiscono per mandarli in confusione e rendere macchinoso anche il semplice rilascio di un accredito. Non riuscirò mai a capire a chi possa giovare un’aria pesante, che di certo non favorisce l’afflusso e il deflusso sereno, né tanto meno un ordinato controllo della situazione. Peraltro mi si permetta: vedendo la conformazione dello stadio, appare abbastanza ovvio che la maggior parte delle eventuali problematiche possano essere arginate schierando gli agenti al posto giusto. Ma forse la disabitudine nel gestire eventi, il consolidarsi dello strumento del divieto e la grancassa mediatica che puntualmente instilla nella mente dell’opinione pubblica paura e terrore, non debbono essere d’aiuto neanche alle disparate Questure.

Mentre i supporter vastesi sono posizionati quasi per intero all’esterno del proprio settore, arrivano notizie di alcuni problemi tra la polizia e i teatini, che nel frattempo sono giunti in prossimità dello stadio e che probabilmente ha fatto gratuitamente i conti con l’isteria di cui sopra. Alla fine non si segnalerà nulla di veramente importante e a pochi minuti dal fischio d’inizio, entrambe le tifoserie saranno regolarmente al proprio posto.

L’Aragona torna a ospitare una grande cornice di pubblico dopo diversi anni, con la curva che presenta davvero un gran bel colpo d’occhio. L’ingresso dei neroverdi riscalda gli animi, con i padroni di casa che in diverse occasioni tentano di stuzzicarli, ottenendo però solo un paio di risposte “indirette”, tra cui il coro “In Abruzzo solo noi”. Gioco delle parti ma clima comunque bello e stimolante, a conferma di quanto questo genere di partite restino l’essenza del nostro calcio.

Più nello specifico: la Vasto ultras è tornata ufficialmente sugli spalti in questa stagione. Tra contestazioni e diserzioni è stato ovviamente complesso e duro rimetter su un discorso di tifo organizzato, ancor più se si pensa ai tempi correnti e alle pressioni che possono piovere dalle autorità cittadine. In balaustra ci sono tanti ragazzi, il che non guasta mai per un movimento che nasce come massima espressione della ribellione e della fantasia giovanile applicate al tifo calcistico. Continuando la tradizione in fatto di materiale, si è optato per un gigantesco striscione – che occupa la vetrata – su cui viene riportato il generico nome Curva Sud Vasto. Un po’ come avveniva in passato con Aragonesi. Ok, l’ho detto in più occasione e lo ribadisco: non impazzisco per questo genere di “nomenclatura” onnicomprensiva, però va anche detto che comprendo quanto sia difficile riprendere in mano una buona tradizione cittadina e cercare autonomia, pur mantenendo continuità con il passato. E poi parliamo pur sempre di ragazzi che stanno avendo il coraggio (oggi ci vuole pure quello!) di mettersi in discussione in una piazza piccola, che a livello sportivo sta balbettando e dopo diverse annate rischia seriamente di rivedere il baratro dell’Eccellenza.

Questa sfida assume, pertanto, un aspetto fondamentale in chiave salvezza. Con gli ospiti che cercano un successo salvifico e i padroni di casa una vittoria per continuare a sperare nella permanenza diretta, senza passare per i playoff. Su fronte vastese la prestazione della Curva D’Avalos è di ottimo livello. Al cospetto di una sciarpata iniziale forse non proprio compatta, il sostegno canoro si mantiene sempre alto. Tante manate ben ritmate dal tamburo, qualche coro a rispondere che, anche grazie alla copertura, rimbomba imponente e in generale tanta voce fino al 90′. Anche il pubblico della tribuna rumoreggia in più di un’occasione, aiutato dalle ragioni di campanile che giocano un ruolo chiave nella fattispecie.

A proposito, un siparietto che merita di essere raccontato è quello tra un tifoso vastese della tribuna e l’allenatore del Chieti. Il primo, intento a provocare il mister, trova evidentemente pane per i suoi denti, con quest’ultimo che risponde a più riprese. Il tutto avviene nei rispettivi dialetti e con improperi poco ripetibili in questo articolo. Ma il sottoscritto non può che ridere di cuore nell’osservare una scena propria di questi campi. Una scena che racchiude molto di quel folklore italiano, quello che qualche grigio burocrate vorrebbe eradicare per sempre!

Venendo ai tifosi ospiti: sui teatini in realtà c’è ben poco da dire. Parliamo di una tifoseria rodata, che malgrado i tanti bocconi amari mandati giù in questi anni, ha mantenuto una certa linea e un certo modo di andare allo stadio. I neroverdi entrano tutti insieme, sistemandosi dietro lo striscione della Curva Volpi e dando vita a una maiuscola prestazione di tifo. Oltre alla ormai celebre ottima fattura del materiale, gli ospiti dimostrano ancora una volta tutto il loro valore. Tifo costante e compatto, una sciarpata nel secondo tempo e il merito di coinvolgere quasi sempre tutti i presenti. I teatini peraltro annoverano un buon repertorio corale, che mischia qualche hit “moderna” a vecchi cavalli di battaglia del movimento ultras italiano, cosa che non fa mai male in un’epoca in cui sembra d’obbligo dover partorire cori lunghi, estenuanti e infiniti, che spesso finiscono per distruggere chi li canta e affievolire il tifo. Il che non vuol dire che il contingente ospite non si produca in canti tenuti a lungo, ma che questi hanno la velleità di contenere un paio di strofe, senza dover per forza ricalcare il Dolce Stil Novo di Francesco Petrarca…

In campo la partita è diametralmente opposta al bel confronto sugli spalti. Le due squadre si annullano, impattando in uno scialbo 0-0. Come dico spesso: meno male che sono venuto per il tifo e non per il calcio. Altrimenti mi darei a qualche altra disciplina!

Ho giusto il tempo per immortalare qualche scena al fischio finale, poi devo assolutamente correre per il mio pullman per Roma, che partirà poco dopo. Non amo lasciare uno stadio in fretta e furia, ma non avendo scelta compio a passo svelto la poco distanza che mi separa dal capolinea, ascoltando i cori delle tifoserie allontanarsi metro dopo metro. Ho imparato ad apprezzare le cose piccole, che ormai non si possono dar più per scontate. Giornate come queste, dove in uno stadio ci sono state due tifoserie avversarie e in cui per novanta minuti ho potuto assistere a un derby. Questa parola, tanto odiata e combattuta in Italia – nel Paese del campanile per eccellenza – sebbene abbia perso molto del suo contenuto, conserva sempre un fascino primordiale. Lo stesso unico del mare che dopo qualche chilometro viene ricoperto da una vera e propria tempesta. Lo stesso dell’arcobaleno che, una volta attraversato l’Appennino, si staglia imperioso, quasi a volermi dare una pacca sulle spalle e ricordarmi che per oggi mi ha graziato.

Simone Meloni