Non avevo mai avuto l’opportunità (e sembra incredibile a dirsi data la mia assiduità), da un paio di anni a questa parte, di vedere, nei palazzetti, i Pesaresi. Lo scorso anno, infatti, la trasferta era stata incredibilmente vietata, nonostante tra le due tifoserie esista un’amicizia ormai ultradecennale, e, al momento, non ho ancora marcato visita all’Adriatic Arena.
Sia chiaro, non avevo grandissime aspettative. Dallo scioglimento dell’Inferno Biancorosso il tifo pesarese attraversa, inevitabilmente, un momento di crisi e, oltretutto, a favorire un clima sereno ed una maggiore aggregazione curvaiola non c’è neanche il fattore sportivo. Attualmente, infatti, i biancorossi occupano desolatamente l’ultimo posto in classifica, rischiando seriamente il declassamento in Legadue. Una discesa verso il baratro che sembra non finire e si protrae anno dopo anno, annichilendo una delle roccaforti storiche della nostra pallacanestro.
Con queste credenziali mi preparo a raggiungere il Palatiziano. Avendo avuto la sfortuna di incappare nel turno pomeridiano al lavoro, cerco di dare un colpo alla botte ed uno al cerchio, raggiungendo attraverso varie peripezie l’obiettivo: cambio turno, con uscita anticipata. Non che di tempo ce ne sia moltissimo, dato che la partita è alle 18:30 ed io esco alle 17:30, ma è sufficiente per arrivare in tempo. Con la macchina percorro prima il Raccordo, poi un pezzo della Flaminia ed infine Corso Francia.
Trovare un parcheggio non è questione per deboli di coronarie, tanto che, quando ritiro l’accredito, la partita è da poco iniziata. Pertanto posso solamente riportare lo striscione che gli ospiti hanno esposto ad inizio gara e che, per ovvi motivi, non ho potuto fotografare. Il medesimo recitava: “Roma-Pesaro… rispetto ed amicizia!”. A conferma che, nonostante siano passati anni e siano cambiate diverse cose nelle rispettive curve, la fratellanza tra Romani e Marchigiani resiste inossidabile.
Gli ultras biancorossi sono quantificabili attorno alla trentina di unità, tutti posizionati sulla pezza Vecchia Guardia IBR. A dispetto di quanto potessi pensare, mi fanno un’impressione più che decorosa. Con la squadra ultima, che in campo va quasi da subito sotto pesantemente, tifano con passione e sentimento. Diverse le bandiere sventolate, tra cui un bel bandierone agitato a più riprese. Poi un paio di sciarpate e tanta voce. Successivamente saprò che alle entrate, come di consueto a Roma, è stato loro inibito l’accesso del tamburo. Nella Capitale vige questa strana, ma purtroppo molto radicata nel calcio, usanza. Un giorno sarei curioso di parlare con chi prende questo genere di decisioni e chiedergli semplicemente il perché. Possibilmente avendo una risposta sensata, e non il solito “per ragioni di ordine pubblico”. Dato che con un tamburo non è mai stato ucciso nessuno, fino a prova contraria.
Per quanto riguarda il pubblico di casa, è pressoché inutile ribadire il fatto che il palazzetto presenti ampi spazi vuoti, forse anche a causa dell’orario che favorisce più una passeggiata a Via del Corso con le prime giornate di sole, piuttosto che una partita di uno sport già di suo iper snobbato dai palati fini della Capitale. I ragazzi della Curva Ancilotto però fanno quadrato, ed oggi sembrano davvero volersi divertire, nonostante tutte le difficoltà nel tirare le redini del tifo. Così, dopo un inizio un po’ soft, con il passare del tempo ingranano, sventolando il loro bandierone a scacchi e fomentandosi sulle note di “Lella” di Lando Fiorini, base musicale che è stata rispolverata alla grande a Roma in questo periodo. Molti sono i cori di stima tra le due curve, cosa che viene molto apprezzata anche dal resto del PalaTiziano.
Come detto, in campo la partita è davvero a senso unico, nonostante la Vuelle nel secondo quarto ci provi a raddrizzare la situazione, raggiungendo temporaneamente i giallorossi. Ma è più che altro una casualità, dovuta a una delle tante amnesie in cui spesso il quintetto di Dalmonte cade ostaggio. Alla lunga la Virtus saprà incrementare senza appello il divario, mettendosi in tasca due punti comunque importanti per il cammino stagionale. Ai Pesaresi non resta che tifare per l’orgoglio di appartenenza, fino alla fine, non facendo mancare qualche coro di contestazione nei confronti di una squadra che, tuttavia, a fine partita si reca sotto il settore a salutare, ringraziare ed “ascoltare” chi, per l’ennesima volta, si è sobbarcato chilometri, sacrificando un sabato pomeriggio, per tornare a casa con un’altra sconfitta sul groppone.
Sistemo la mia attrezzatura ed abbandono il palazzetto, mentre le due tifoserie si lanciano gli ultimi attestati di stima. Nel basket c’è ancora tempo per vivere il tifo con serenità ed un po’ più di spensieratezza rispetto alla repressione ed alle carceri di massima sicurezza quali sono ormai diventati gli stadi del calcio. Non mi stancherò mai di sottolinearlo.
Testo e foto di Simone Meloni.