Nel 1312 il commerciante e navigatore italiano Lanzarotto Malocello scopre l’isola delle Canarie, da lì in poi detta “Lanzarote”. Nello stesso anno muore, ormai centenario, Malatesta da Verucchio, nobile romagnolo che, dopo un passato ghibellino, divenne egli stesso persecutore di ghibellini, dando luogo a una grande campagna repressiva contro le istanze anti-papaline per tutto il Riminese.

Lanzarote era sempre stata lì, non distante dalle tratte marittime più note del tempo. E non solo a Rimini e a Verucchio le cronache italiane sono piene di notabili che aggiornano la propria ideologia a convenienza, pronti a diventare feroci rivali di cordate e gruppi cui fino all’altro ieri appartenevano.

Queste suggestioni tardo-medievali non sono un fuor d’opera per comprendere che stia succedendo nel calcio di oggi.

Il football europeo e, solo in parte, quello latino-americano si sono sempre rappresentati con un certo esclusivismo, quali i veri custodi dei campionati nazionali più rilevanti: quelli dove giocano i top player, dove si decidono le sorti del calcio e dove il calcio giocato, sì, è quello vero, l’unico.

Ovviamente, all’industria calcistica un subcontinente ricco di contraddizioni sociali e un continente ipostatizzato sulle sue posizioni non potevano bastare. Già nel 1994 i Mondiali – l’attrazione principale del circo equestre… pardon, pedestre, che snobba le Olimpiadi – si trasferiscono negli Stati Uniti. Dirette ad orari improbabili, tassi di umidità abnormi, Baggio coperto di sponsor che gioca malconcio una finale difficile (quattro anni dopo sarà il turno di Ronaldo, il vero, il brasiliano), stadi sold out. Qualcosa, però, non funziona a dovere, non solo perché Maradona si becca la squalifica definitiva per doping, non solo perché Bebeto e Romario sono giocatori troppo scomodi per diventare gli uomini copertina dell’edizione a stelle e strisce. È che il football come multinazionale non può rinascere soltanto a partire dagli USA, che sono ancora freddini, chiamano la sfera che rotola presa a calci “soccer” e le notizie del campionato stanno nei trafiletti, nelle colonne da pagina quaranta a salire, e non in prima. L’industria del calcio si impossessa però del bello del tifo organizzato: cori, coreografie e striscioni, tutto o quasi gloriosamente etero-diretto. Il pallone degli anni Zero sbarca senza indugio in Asia, gli States insorgono e vedremo perché. Già all’inizio degli anni Novanta si era provato a contagiare il Giappone, che una tradizione calcistica bene o male la aveva (e anche una sua tradizione di tifo sportivo, come valvola di sfogo di una società sin troppo irreggimentata). Il capocannoniere di Italia ’90 chiude in Giappone la sua carriera, così il bomber di rincalzo di un Milan che vince tutto. Dal Giappone arrivano molti centrocampisti offensivi dai piedi buoni, ma solo uno davvero degno di nota: Nakata. Miura a Genova aveva aperto la pista, senza entusiasmare.

Il fatto nuovo degli anni Zero, per l’economia e, conseguentemente, per l’economia calcistica è l’enorme crescita di Paesi come l’India e la Cina. Nei due Stati asiatici è ormai fatta e formata una classe dirigente di capitani di industria, detentori di materie prime ed esclusivisti della manifattura, che, grazie alla Borsa e all’indebitamento pubblico di molti Paesi del vecchio “G7”, hanno denaro da spendere anche nell’industria ludica. Quella che produce beni più costosi e, però, socialmente più percepiti di qualunque indotto ortofrutticolo.

I campionati cinesi e indiani – soprattutto i primi – cominciano ad investire cifre da urlo per portarsi in campo giocatori europei o latinoamericani o a fine carriera o non proprio incedibili in patria. Gli stipendi non sono più semplicemente stellari, sono quasi inqualificabili: artisti della pedata e vecchi killer del goal si prendono mezzo milione di euro a settimana per insaccare con facilità estrema in campionati ancora poco agonistici.

I cinesi e gli sceicchi arabi hanno, poi, altre strade per rivendicare l’egemonia nel football che conta (e che prima contava ancora di più): acquistare società stremate, indebitate, frustrate, fare campagne acquisti faraoniche, riportare le suddette società non sempre al top, ma almeno nel pieno tempio del Dio Calcio, e non più nelle retrovie.

Gli Stati Uniti non stanno a guardare e anche la massima serie americana torna a investire massicciamente in calciatori europei o latinoamericani che, forse, il meglio della carriera lo hanno già dato, ma che, rispetto al mite Donadoni milanista sbarcato a New York negli anni Novanta, hanno a tutti gli effetti lo status di star. Muovono magliette, producono brand. E gli imprenditori americani, con giudizio, tornano a fare incursioni negli asset societari del Vecchio Continente, in special modo nel campionato italiano.

Il campionato degli stadi vuoti si prepara alla transizione: le platee vogliono essere nuovamente riempite, ma il pubblico pagante non è più voce di bilancio. Per la coreografia non serve creatività, ma ridondanza. Non passione, ma ordine pubblico. Gli ultras, che molto hanno anticipato e testimoniato delle controculture italiane dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, ci sono e non ci sono nel calcio che verrà. Quelli che seggono a tavola con le società, ultras non sono mai stati. Quelli che contestano norme repressive, stadi divisi e calo di passione persino nei giocatori (che di difendere le maglie hanno sempre meno voglia) rischiano una marginalità ancor più netta che in passato. E il rischio di colmare il margine con gesti eclatanti è purtroppo mal pensiero che ancora alligna qua e là. Nella più parte dei casi, l’ultras, che i media avevano abilmente dipinto come l’antagonista numero uno del film, tornerà a fare l’Andy Capp di provincia – così si vorrebbe: birrette, misure di prevenzione o – come i calciatori delle serie minori, immortalati nei film anni Settanta e Ottanta – qualche chiacchiera da bar sul “si stava meglio quando si stava peggio”.

Siamo alla finestra per vedere se anche la Russia raggiungerà i magnati cinesi, americani e sauditi nel gotha finanziario del pallone. In parte già c’è: imprenditori russi sono a macchia di leopardo anche nelle società sportive. La Russia ospiterà i prossimi Mondiali di calcio. A differenza degli States del ’94, qui c’è un più vasto campionario di tifo sportivo organizzato legato a filo doppio a storie di marginalità sociale, a volte estremismo politico o, comunque sia, disordini di piazza. La sfida è delicata. Contrastare questi folk devil e rientrare a suon di quattrini nella stanza del potere. Saper cambiare pelle, come nel 1312. Scoprire quello che già c’è, che sin da ieri è sotto gli occhi tutti. Ancora una volta, come nel 1312.

Domenico Bilotti.