Il calcio inteso come sport nel suo senso più assoluto e primario, sa essere spesso tanto spietato quanto per questo bellissimo. Stessa ragione per la quale ancora riesce ad appassionare i suoi tifosi, a preservarne l’istinto comunitario e identitario a fronte delle selvagge spinte esterne che tendono a mercificarlo. Chiaramente senza nemmeno contare le malefatte politico-istituzionali di chi crede o finge di riformarlo, finendo puntualmente per mortificarne ogni istinto genuinamente popolare.

Il rettangolo verde ha fornito il suo responso inequivocabile. In finale di questi lunghissimi, estenuanti e contorti playoff di Serie C si incontrano Foggia e Lecco. Le due compagini che al netto delle recriminazioni di chi perde e preferisce piagnucolare in pubblico anziché mestamente e con più pudore in privato, sono quelle che hanno giocato il calcio migliore o quanto meno quello più proficuo. I blucelesti lombardi partiti con tutt’altri obiettivi, si sono invece ritrovati a giocarsela e lo hanno fatto con la sfrontatezza di chi non ha niente da perdere e tutto da guadagnare, regolando compagini di ben altro blasone e che puntavano per lo più alla promozione diretta in B senza nemmeno passare da questa lotteria. Pordenone, Ancona e Cesena hanno pagato già dazio e i 231 tifosi lecchesi che si sono sobbarcati gli oltre 800 km fra le due città, sono la testimonianza più evidente di quanto i loro sogni siano diventati sempre più nitidi.

Si potrebbero aprire qui inutili considerazioni sui numeri, più che altro è quello che fanno i denigratori di professione, o gli amanti delle gare a chi la fa più lontano. Chi invece ama il mondo ultras in tutte le sue sfaccettature, in tutte le sue espressioni più o meno numerose o colorate, non può che apprezzare a priori. E se proprio si vuol giocare al gioco dei numeri, si tenga conto che Lecco è una cittadina di nemmeno 50 mila abitanti, capoluogo della sesta provincia più piccola d’Italia, schiacciata fra la rivale Como e le calcisticamente blasonatissime Milano e Bergamo. In tempi in cui il movimento ultras nostrano non esprime più la potenza dei giorni migliori, tutto quel che viene, tutto quel che sopravvive, resiste e mostra vitalità non può che meritarsi un plauso.

Di Foggia sarebbe invece quasi ridondante parlarne. Quello che esprime questa piazza in termini non solo di numeri ma anche di potenza e continuità canora, in casa e trasferta, è qualcosa di clamoroso, in netta controtendenza al momento storico e con pochi eguali in tutto il resto dello Stivale. Se c’è qualche altro posto in Italia dove è possibile trovare due distinti settori a tifare, ciò avviene per lo più in una dispersione di forze evidente e mortificante. Qui invece nell’ultimo decennio si è imboccato un percorso di crescita evidente e più che positivo: al precedente spostamento del baricentro ultras in Curva Nord, ha poi saputo rispondere anche la Sud, capace di reinventarsi dopo la crisi che portò allo scioglimento del Regime Rosso Nero e riportare il settore storico del tifo foggiano ai suoi vecchi fasti, soprattutto in quei momenti in cui la squadra sul campo sa innescare quella necessaria miccia a riaccendere ulteriormente l’entusiasmo.

Dal punto di vista calcistico, quell’ondata di passione che ribolliva dall’ultima scalata alla Serie B è stata smorzata nel recente passato sia dall’ennesimo fallimento del 2019, che dalle ultime stagioni tutt’altro che esaltanti. Compresa l’ultimissima in cui il quarto posto è parso un vero e proprio exploit alla luce delle diatribe societarie e del continuo valzer della panchina sulla quale, in ultima battuta, è ritornato il figliol prodigo Delio Rossi.

È esattamente come nell’amore, che proprio quando pensi o addirittura giuri che non ti innamorerai più, scottato dalle delusioni, arriva a travolgerti inattesa la stessa girandola di emozioni capace di farti battere il cuore a vuoto e farti pensare solo all’oggetto del tuo desiderio. Così il Foggia in campo, partito in sordina, in questi ennesimi playoff con cui nessuno voleva illudersi più di tanto a margine della sofferta stagione regolare, ha ripreso a far sognare i suoi tifosi. Ribaltare il 4-1 subito a Cerignola ha fatto scoccare la scintilla, che è divampata in fuoco dopo aver superato l’attrezzatissimo Crotone ed esorcizzato anche lo spettro del Pescara dell’ex Zeman. Una freudiana uccisione del padre necessaria per emanciparsi da una figura che, per quanto centrale nella storia rossonera, era altresì diventata ingombrante e quasi inopportuna nell’attualità, soprattutto alla luce delle ultime sue interviste a metà strada fra il risentimento e l’irriconoscenza verso ciò che era stato.

Lo “Zaccheria” si veste nuovamente a festa, quasi undicimila gli spettatori, numeri che non si registravano da un po’ e che sono la rappresentazione plastica della voglia di spiccare definitivamente il volo. Quando al settimo minuto i rossoneri si portano immediatamente in vantaggio, la convinzione è che anche il fato quest’anno tifi per i Satanelli. Lo stadio è davvero una bolgia, nel senso più letterale del termine, ma poi pian piano e ancora una volta il Lecco viene fuori, deciso a vender cara la pelle, raggiungendo dapprima il pareggio alla mezzora, risultato già comodo in vista del ritorno in casa, passando addirittura in vantaggio proprio a qualche minuto dal triplice fischio finale, grazie all’ex leccese Lepore che la mette all’incrocio su punizione.

Una punizione in senso più lato forse troppo severa per Foggia, che però – con il senno di poi con cui parliamo, a giochi ormai fatti – non basta a fermare i tifosi rossoneri, recatisi in quasi un migliaio in riva al Manzoniano ramo del lago che volge verso mezzogiorno. Al “Rigamonti-Ceppi” non avviene l’atteso miracolo, il Lecco replica vincendo 3 a 1 anche fra le proprie mura e vola in Serie B.

Un epilogo che ha l’amaro sapore del rimpianto per i foggiani specie alla luce degli sviluppi successivi dove alla fresca promozione lecchese ottenuta sul campo, corrisponde una bocciatura per lo stadio, ritenuto inadeguato agli standard della cadetteria. Un po’ come avvenuto al Teramo qualche anno addietro ma per altre ragioni, si è passati in pochissimo tempo dalla gioia sfrenata per il ritorno in seconda categoria a distanza di cinquant’anni, alla disperazione più cupa per il palesarsi di una ripartenza dalla D. Al netto di regole che ci sono e andrebbero rispettate sempre, magari già a priori, ivi compresi quei casi di ancora più assurdo conflitto di interesse come le multiproprietà, suona quanto meno grottesco infrangere il sogno di una comunità intera davanti a due tornelli o qualche centinaio di posti mancanti per poi nemmeno ripescare direttamente il Foggia sconfitto in finale, ma chissà quale amico che gode di buoni uffici ai piani alti. Il calcio è bellissimo tutto intorno, ma resta schifosamente marcio al suo interno.

Foto di Pier Paolo Sacco