Mercoledì 3 agosto 2011 il caldo avvolge senza tregua Budapest. Cinque anni fa. E una marea di storie in mezzo. Vissute e da raccontare.
Mercoledì 3 agosto 2011 la Roma, da poco divenuta “americana”, è impegnata contro il Vasas in amichevole. È una di quelle estati che taglia la vita in due. Almeno per me. Mia nonna se n’è andata, portando via con sé buona parte della mia infanzia e tanti momenti legati all’adolescenza. Non c’è motivo di rimanere nella calura romana a crogiolarsi tra la malinconia e la tristezza. Decido di gettarmi nelle braccia della mia passione, perché so che là troverò conforto. Senza ricevere troppe domande, ma in cambio di carezze sicure e affettuose. È ancora una volta il calcio a fungere da vera e propria terapia. Altro che flebo. Altro che psicologi. Una spada che affonda inerme in tutta l’amarezza. Trafiggendola temporaneamente.
Budapest è una delle tappe di passaggio in questo periodo. Viene tra il ritiro di Brunico e altre amichevoli in giro per l’Europa. Una toccata e fuga, con la folle pretesa di vedere anche un pochino la città. Ed è proprio nel giro turistico mattutino che, a bordo di un tram, mi accorgo della presenza di altri italiani. Non italiani qualunque, ma romani. Tifosi della Roma. Non avrei bisogno neanche di girarmi per riconoscerne nomi e collocazione in Curva Sud. Un vocione squillante e persuasivo rimbomba e sovrasta ogni suono. E così è anche all’interno dello stadio. Con una presenza giallorossa stringata, ma con le battute di questo megafono umano che per 90′ creano crampi allo stomaco per i presenti, quasi esausti nel ridere. C’è tutto in quel comportamento: l’essere romani che i nostri padri ci hanno tramandato, la goliardia, lo sberleffo e l’ironia a tutti i costi. Tutto questo è Giorgetto. In quella serata, in particolar modo, sarà un noto personaggio a “fare le spese” di una serie infinita di battute.
Avrei voluto iniziare il resoconto di Bucarest con questo aneddoto. Avrei ma non l’ho fatto. Perché meritava un contesto diverso. E perché ho temuto di essere stucchevole. Ci ho pensato bene prima di scrivere questo pezzo. La scomparsa improvvisa di una persona, così tanto sentita da un’intera comunità, rischia di lasciare delle tracce di retorica nella mente del lettore. E questo non lo riterrei giusto, nei confronti di nessuno. Per quello che il mondo del tifo e, nello specifico, il settore popolare romanista, il suo ambiente, le sue storie, le sue strade, le sue piazze hanno significato per me. Ma come si fa a rimanere impassibili di fronte a una piazza, alla tua piazza, gremita, che minuto dopo minuto si impregna di fumo giallo e rosso? Riproponendo in pochi secondi un grande spicchio di Curva Sud proprio là, dove siamo cresciuti in tanti. Guardando gli angoli di quei palazzi bianchi rivedo futili storielle d’amore tra ragazzini, litigate, sorrisi e una nostalgia che tutta d’un tratto si impossessa di me. Proprio mentre uno striscione si srotola lassù, al confine tra l’ultimo piano di una casa popolare e il cielo. Quasi un triste ossimoro della distanza, che da oggi in poi separerà tutti i tifosi della Roma da uno di loro.
No, Piazza Don Bosco stamattina non è il solito crocevia di macchine e persone. Piazza Don Bosco si è fermata. Ha permesso a tanti sguardi di incrociarsi. Là, per ricordare chi anche solo per un minuto gli ha strappato una risata e rallegrato la giornata. E non importa se macchine suonano perché non riescono a transitare. Non importa se l’intero quadrante è bloccato. Perché in questo momento Cinecittà è un mondo a parte. Dove la linea di demarcazione è segnata dalle corone di fiori poggiate sulla facciata della chiesa. Sotto lo sguardo vigile di tanti ragazzi. Occhiali neri e occhi dispersi. Senza voglia di parlare.
Siamo strani noi ragazzi di stadio. Spesso giochiamo a fare i duri e puri, ma siamo i primi a cadere nello sconforto in queste situazioni. Facendoci coinvolgere dagli eventi, che assumono un significato ben più triste e grande della mera liturgia. Mi sono girato e ho visto quel ragazzetto con cui tanti anni fa andai a Trieste in treno, dall’altro angolo ce n’era un’altro con cui partii un pomeriggio di novembre per Parma, dalla stazione Tiburtina. Sulla scalinata un altro ancora con cui parlammo sette ore di fila del mondo ultras, in uno scompartimento al ritorno da una bagnatissima Reggio Calabria. E poi quello, sì, non ricordo come si chiama, che cercò di aiutarmi ad eludere il controllore e scese con me a Castelfranco Emilia, per solidarietà. Ci sono anche tante ragazze, tante donne. Loro sono per antonomasia le più forti. E, ironia della sorte, provano a portare un sorriso in una giornata che, malgrado un sole bellissimo, non può riscaldare il cuore di nessuno. Una di queste “pischelle” me la ricordo a Napoli, nel 2005. Ci fecero scendere col treno a Giugliano, per poi portarci allo stadio.
Potrei associare decine di facce ad altrettanti stadi d’Italia. Ad altrettante trasferte. E ad altrettanti aneddoti. Molti se ne sono andati, hanno smesso di frequentare la curva. Altri ci sono ancora. Ma tutti oggi trattengono a stento l’emozione. No, stavolta Giorgetto non è riuscito a farci ridere. Qualcuno, più di qualcuno, fa scendere le proprie lacrime sulle gote gelate dalla mattinata invernale. Non c’è da vergognarsi nel piangere per qualcosa o qualcuno che non c’è più. Viviamo in un mondo che troppo spesso ci impone di non far trapelare le emozioni. Un superomismo ingiustificato.
Le impalcature sembrano trattenere la chiesa da un imminente crollo. A pensarci bene non entro qui da almeno 15 anni. Un applauso spezza la struggente lettera di un ragazzo: “In questi casi si dice riposa in pace, ma sappiamo che da oggi gli altri non riposeranno affatto con te vicino. Hai dedicato tutta la tua vita alla Roma e alla Curva Sud, non c’è stato momento in cui non ne parlavi e non ci pensavi”. Immagini che passano davanti agli occhi di tutti, quasi a voler entrare di prepotenza nella nostra mente e nella nostra anima. Per sempre. In questi istanti capiamo forse l’irrazionalità di fondo che muove ogni piccolo gesto. Capiamo i nostri cori, i nostri striscioni, le nostre coreografie, le nostre esultanze. Le fumogenate, le torce, i megafoni, le bandiere e la voglia di essere sempre e comunque unici e invincibili.
Poi arriva un momento in cui la vita riesce a vincerci. Ma forse non è così. Perché chi resiste nei ricordi di migliaia di persone non è mai realmente morto. Chi riesce ad uscire dalla navata centrale di una chiesa tra gli applausi e i cori “mai morrà”, come dice un vecchio coro della Sud.
Non muore perché l’esultanza della sera prima, quella al gol con cui Nainggolan stende il Milan, è principalmente la sua. Non muore perché il suo nome campeggia ancora sulla balaustra da dove per anni si è contraddistinto. Non muore nemmeno se qualcuno, con la solita eleganza e sensibilità che lo caratterizza, decide di tirar via uno striscione commemorativo apposto a Piazza Mancini prima della partita. “Per ordine pubblico”, si sarà detto. “Per pubblica provocazione”, aggiungo io. Ma questa è un’altra storia. Che rientra alla perfezione nell’inumanità di cui ormai si tinge quotidianamente la nostra società.
Noi ti ricordiamo così Giorgetto. Sulla balconata con il megafono in mano e le braccia al cielo. In spiaggia a inventare cori su qualsiasi canzone passasse per radio. In trasferta sempre con la battuta pronta e la voglia di essere quel fattore aggiuntivo che ha fatto conoscere i tifosi giallorossi in tutto il mondo. A petto nudo con tutti i tuoi tatuaggi che chi non ti conosceva interpretava quasi con timore. Qualcuno ha detto che d’ora in poi seguire la Roma sarà meno divertente. È vero. Hai dato la tua vita alla Curva Sud. E lei sarà per sempre la tua casa.
“Abbiamo vinto sempre poco, però è bastato vincere una volta per dire che avevamo vinto più di tutti”.
Simone Meloni.