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È tutto, è sempre una questione di aspettative. Se ti approcci ad un argomento complesso, ad un personaggio controverso e dibattuto, sullo scenario del territorio geopoliticamente più interessante della storia, è poi inevitabile che ci si aspetti che quel che dici o scrivi sia all’altezza. Paradossalmente però, a “Arkan, la tigre dei Balcani” di Cristopher S. Stewart ci arrivo con delle aspettative molto basse: lo avevo acquistato all’inizio di un percorso di studio del personaggio Arkan che aveva finito per sfibrarmi, dal quale non avevo acquisito nessuna nozione ulteriore, nessuna risposta che non avrebbe potuto darmi un qualsiasi habitué degli affollatissimi luoghi comuni.
Non mi aspettavo dunque nulla di più da Stewart, specie dopo aver trovato alcuni passaggi del suo libro, decontestualizzati e depotenziati, citati altrove e quasi a sproposito. Ma ormai l’acquisto era stato fatto, quindi un po’ per dovere mi ci sono immerso.
Il libro, giusto per assolvere ai miei abituali dettagli tecnici, è stato pubblicato dalla “Alet Edizioni” nel Giugno 2009, tradotto da Andrea Buzzi, consistente in 380 pagine; costo 19 € (su Ibs a 16.50…), codice ISBN 978-88-7520-118-0.
Lo stile è quello del diario dai toni spesso personali, mentre la narrazione procede per ordine cronologico, dai primi passi del piccolo Zeljiko che sognava di diventare come John Wayne fino alla sua reale ascesa; dalla successiva parabola discendente fino alla sua morte e al mito che ne è sopravvissuto. Sullo sfondo vengono tratteggiate parallelamente le vicende storico-politiche della Jugoslavia, dalla federazione Titina, esempio di convivenza interculturale ed interreligiosa nel blocco sovietico, alla morte del Maresciallo e alla successiva recrudescenza delle tensioni etniche sopite con la forza dal regime; su queste spinte e sull’onda di rifiorenti nazionalismi, il passo verso l’orlo del baratro fu breve, deflagrando nelle guerre jugoslave che hanno poi portato alla nascita di Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Republika Sprska.

In sintesi chi era Arkan lo sanno un po’ tutti: figlio ribelle di un militare i cui sogni di gloria cozzavano con i paletti della società socialista, trovò realizzazione alle sue aspirazioni seguendo le sue inclinazioni criminali, folleggiando in giro per l’Europa fino ad arrivare sul libro paga della SDB, il corrispettivo jugoslavo della Stasi per intenderci, per la quale eseguiva omicidi su commissione di oppositori politici del regime di Tito. Grazie ai servizi resi alla polizia segreta si guadagnò l’immunità al suo ritorno in patria, da lì a poco scoppiò la guerra e Zelijko Raznatovic al secolo Arkan fondò una sua milizia paramilitare (le Tigri, appunto). La guerra non ha morale e le Tigri si segnalarono sul campo come uno dei corpi più attivi e spietati, essenzialmente però quello di Raznatovic non era sadismo fine a sé: la guerra era un affare, sporco ma pur sempre un affare, grazie al quale tessere trame di potere con le gerarchie politico-militari e ricavare profitti, “leciti” attraverso il finanziamento diretto alla milizia o illeciti nel mercato nero dove rivendevano la refurtiva di guerra e ogni altro bene contrabbandato in tempi di embargo.

Questi i fatti a grandi linee, ma una storia ha mille sfumature che se proprio ti vuoi prendere la briga di raccontare in un libro, forse faresti meglio ad approfondire. E Stewart ci prova, anzi lo fa con una curiosità onesta che a volte si ferma davanti al suo pregiudizio socio-culturale, eppure lo stesso autore cerca di non farne una zavorra: cerca per esempio di ricostruire ampie ragioni storico-antropologiche dell’odio, di contestualizzare i fatti nel tempo e nello spazio di quella alienante e disumanizzante follia che è la guerra. A volte, ancora, parla attraverso le parole del suo interprete (“Non sei Serbo, certe cose non le potrai mai capire”, per riassumere con una libera citazione), altre volte mettendo ragionamenti equilibrati davanti al sensazionalismo: “Per ognuno dei fatti che conosciamo, ce ne saranno altre centinaia che ignoriamo, reati commessi da un alter ego nascosto dietro un passaporto falso. E poi, ovviamente, c’era tutto quello che non aveva commesso e che gli veniva attribuito, per il solo motivo che corrispondeva al mito spettacolare di Arkan” afferma saggiamente Stewart.

Per raccontare una storia, soprattutto una storia di questo livello, non puoi e non devi farti risucchiare nel vortice emotivo sennò rischi di far esondare e rovesciare rovinosamente la zuppa di retorica (anti-serba per lo più) e falso moralismo (di chi nel blocco Nato benedì questa guerra con l’indifferenza e poi stremò la popolazione con embargo e bombardamenti): durante la guerra furono operative 83 diverse milizie paramilitari; i documenti storici dimostrano che gli ordini dei massacri arrivavano direttamente dalla SDB; le affollate manifestazioni del 1991 a Belgrado contro il regime di Milosevic e contro la guerra; la sottile differenza fra pulizia etnica e genocidio che andrebbe analizzata con molta cautela; le pulizie etniche subite dai serbi e i serbi effettivamente salvati da Arkan; le leggende metropolitane sulle “Tigri” che mangiavano i bambini; le finte milizie di Arkan che ne sfruttavano il nome per compiere atti criminosi; i disertori, tutti quelli che dimostravano evidentemente di “non essere tagliati per il mondo di Arkan” e i profughi che venivano arruolati nelle “Tigri” al di là della loro volontà; la Brigata 502, i Cigni Neri, i Mujaheddin e gli altri signori della guerra di parte avversa e di parte amica. Devi raccontare tutto o almeno provare a farlo, prenderti il giusto tempo per farlo (la ricerca di Stewart è durata circa un decennio…), devi guardare le cose da più angolazioni possibili, devi cercare di distinguere con freddezza i fatti e le opinioni ed infine, possibilmente ma non necessariamente, dovresti andare sul campo e raccogliere le testimonianze in prima persona o quantomeno prendere con beneficio d’inventario (anziché no scartare) fonti di diciassettesima mano o inventate di sana pianta per il poco esigente lettore di giornalacci nostrani.

Il lavoro di Stewart è un lavoro di altissimo profilo professionale, roba autentica con addosso l’odore della vita sul fronte, roba da reporter di razza e con un livello di approfondimento che lo rendono una pietra miliare sul tema: chiunque in futuro vorrà confrontarsi con questi argomenti dovrà inevitabilmente basarsi sul libro di Stewart come testo di riferimento; chiunque in futuro vorrà ripercorrere la sua strada ha una ingombrante eredità che peserà come un macigno sul proprio operato e sulla propria ricerca.

Cosa centri Arkan con gli ultras lo sanno più o meno tutti ed anche in questo libro se ne fa ovvia menzione, senza però stravolgere gli equilibri o la realtà solo per enfatizzare e dar ritmo alla narrazione: un saggio in fondo non è un romanzo! Arkan ha usato gli ultras per proprio tornaconto, non era assolutamente un ultras propriamente detto, per cui la parte degli ultras nel tutto di questo libro è marginale, com’è giusto che sia.

Ci sono alcuni aspetti, in tal senso, che però non mi convincono, oppure, se vogliamo metterla diversamente, ci sono domande che mi faccio da tempo sulla questione e alla quale nemmeno con Stewart ho trovato risposta. Si racconta, per esempio, che Arkan divenne “Presidente della Stella Rossa Fan Club”, ma cosa sarebbe questo “fan club”? Altri documenti storici delineano la figura di Arkan come quella di un uomo forte posto a controllo delle derive ultras contro il governo: sostenere che i Deljie nacquero per mano di Arkan, come fa Stewart, non è storicamente corretto. Parlando dei famosi scontri in Dinamo Zagabria-Stella Rossa, Stewart scrive che Arkan viaggiò con la squadra ed aveva il ruolo di guardaspalle dell’allenatore: quale ultras penserebbe a guardare le spalle dell’allenatore e non dei propri “fratelli di Curva”? Quale ultras viaggerebbe con la squadra e non con gli altri ultras?

In riferimento alla successiva fase di guerra, Raznatovic attinse notoriamente a piene mani fra i tifosi della Stella Rossa, ritenuti sì divisi fra loro ma molto meno rispetto a quelli del Partizan. Fatta questa prima premessa in merito alla frammentazione interna, considerato poi che il bacino di riferimento di Arkan era comunque la criminalità organizzata, bizzarro che in certi frangenti del racconto sembra quasi che brutti ceffi della malavita fossero gerarchicamente e psicologicamente subordinati a dei tifosi, piuttosto che questi stessi tifosi mentalmente proni al boss come privi di personalità o del tutto estranei a quel codice ideologico da stadio di norma molto radicato nelle Curve. Più verosimilmente a Stewart manca in questo caso la giusta conoscenza e quindi la giusta chiave di lettura del fenomeno stadio per inserirlo opportunamente nella sua ricostruzione: troppo monodimensionale e stereotipata la figura che ne viene fuori degli ultras della Stella Rossa, come se tutti insieme fossero un blocco monolitico ed acritico eretto a bastione difensivo del regime di Milosevic e della sua accolita, quando più indizi lasciano invece presupporre altro.

Ad ogni modo, approcciato col giusto spirito critico che sempre dovrebbe accompagnare qualsiasi lettura, questo libro costituisce un “must have”, un passaggio imprescindibile per chiunque volesse approcciarsi con il personaggio Arkan e conoscerlo meglio o oltre i macchiettistici e banali ritratti della nostra stampa e della nostra letteratura. Un libro davvero ottimo sia per gli appassionati di mondo ultras che sono stati lambiti da queste storie via stadio (per quanto l’argomento stadio/calcio sia come detto marginale), sia per chi si interessa di geopolitica o di Balcani in special modo.

Matteo Falcone.