Il giornalismo nostrano compie un’altra prodezza, segnalando, appena un giorno prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, l’aumento, spropositato, dei prezzi di vendita di PC, smartphone, tablet ma, soprattutto, hard disk esterni, chiavette USB e tutti i dispositivi contenenti una memoria interna. Il motivo? Una nuova applicazione della legge del 2003 sull’“equo compenso” per tutti quei diritti d’autore che, volenti o nolenti, non possono essere monetizzati in quanto rientranti nel campo delle copie illecite e non coperte dalla tassazione SIAE. Ma cosa unisce quest’ultimo provvedimento al nostro DASPO, il quale, almeno a detta di chi ci governa, dovrebbe diventare uno strumento di prevenzione (o di repressione, dipende dai punti di vista) ancora più duro?

La risposta è semplice. L’aumento dei cosiddetti “dispositivi di riproduzione digitale” è, almeno ufficialmente, una tutela nei confronti degli autori registrati alla SIAE, che non possono vedersi riconosciuti i loro compensi quando i loro contenuti vengono copiati e trasmessi tramite chiavette USB, schede di memoria, CD, DVD, ma anche computer, smartphone e via dicendo. In pratica io copio la musica che ho nel mio computer su una chiavetta, magari per agganciarla all’autoradio e sentirmela anche quando sono in macchina? Bene, secondo il ragionamento della SIAE, solo per questo motivo dovrei pagare i diritti d’autore. Per non parlare di quando passo musica o filmati ad altre persone. Pagando una tassa, pure piuttosto pesante, si riconosce il principio che tu sei colpevole di violazione delle norme del diritto d’autore per il solo fatto di possedere uno o più dei suddetti mezzi di copia. All’atto pratico, una chiavetta puoi comprarla anche solo per motivi di lavoro e copiare materiale di tua proprietà, ma la tassa la paghi comunque. E, nonostante lo Stato riconosca il consumatore in anticipo colpevole di “copia abusiva”, facendogli pagare l’oneroso balzello, egli può comunque essere perseguito, come avviene da sempre, per aver violato il copyright nel caso che venga “beccato” con qualche dispositivo contenente copie non autorizzate e comunque non pagate. Questo, in sintesi, un problema che riguarda la nostra vita di tutti i giorni e sul quale si possono trovare spunti infiniti per parlare ore ed ore.

Ma ciò che a noi preme di più, invece, è come lo Stato, con tale provvedimento, abbia applicato una specie di “DASPO preventivo” a tutti i fruitori dei prodotti supertassati. Già, il DASPO, quel provvedimento amministrativo ma non penale il quale, tuttavia, limita diversi principi di libertà personale sanciti dalla nostra Costituzione, che ti costringe a trovare un avvocato, che ti vieta, magari in futuro, di fare diversi concorsi pubblici e ti obbliga a dare spiegazioni che non dovresti dare alle persone che ti sono vicine, il tutto senza la quasi minima possibilità di difenderti dal provvedimento, se non per via amministrativa e quasi mai per questioni di merito sui fatti; tutto ciò mentre il soggetto a DASPO può essere innocente, può magari anche affrontare un processo per far valere le sue ragioni e tornare ad essere “pulito”, senza però riuscire mai a riparare i danni economici, la propria reputazione e, in diversi casi, la propria vita privata fatta a pezzi. Il DASPO, un provvedimento per nulla garantista e liberticida, è un provvedimento ben più grave di un aumento del prezzo della scheda di memoria SD, tuttavia risponde ad un concetto ben preciso e terrificante allo stesso tempo: per lo Stato puoi essere colpevole di un reato a priori, senza nemmeno la possibilità di dimostrare la tua innocenza. Se compri un tablet sei colpevole, a prescindere, di violazione del diritto d’autore, se vai allo stadio sei colpevole, a prescindere, della metà dei reati previsti dal Codice Penale. E, proprio perché vai allo stadio, non solo ti si può applicare il DASPO sulla base di un semplice sospetto, ma sei preventivamente esposto al sistema della “Questura on-line”. Anche quando ad acquistare il biglietto è un nonno con al seguito la sua nipotina di 5 anni. Casi in cui non vale più il principio di prevenzione, ma di presunzione di colpevolezza solo perché si compiono determinate, elementari, azioni.

Ma i casi di condanna a priori di colpevolezza nei confronti dei cittadini sono anche altri. Per esempio, tutte le testate giornalistiche, dall’autunno scorso, hanno obbligo di rettifica dei propri articoli senza replica, nel caso che chiunque sia interessato al pezzo pubblicato si senta leso per una qualunque ragione, onde non incorrere nel reato di diffamazione; essenzialmente, basta che chiunque contesti quanto hai scritto e ti invii formalmente la richiesta di rettifica e sei obbligato a pubblicare la stessa senza poter aggiungere la tua opinione, riconoscendoti, a priori, colpevole di lesa maestà, anche quando ciò che hai scritto è provato ed argomentato. A meno che non si voglia rischiare di incorrere in sanzioni pecuniarie ormai diventate pesanti.

Ultimo esempio, che cito, è quello degli ormai collaudatissimi studi di settore: spiegando l’argomento in termini molto semplificativi, chiunque abbia un’attività propria e guadagni ben al di sotto di quanto indicato dai parametri medi dell’Agenzia delle Entrate per ogni categoria professionale, è messo sotto inchiesta, a prescindere, per evasione fiscale, e sta al malcapitato l’onere di provare, con qualunque mezzo, la propria innocenza. Tutto questo in un periodo di crisi economica, parametro del quale lo studio di settore non tiene minimamente conto, pubblicando guadagni medi, per attività, spropositati, neanche fossimo in Svizzera.

Una volta, tutto sommato, l’ultrà poteva ritenersi un cittadino perseguitato e di “Serie B”. Oggi, per un motivo o per l’altro, il principio di colpevolezza a priori si è esteso, potenzialmente, a tutti i cittadini italiani. Non ne possiamo assolutamente gioire ma, almeno, non dite che non abbiamo provato ad avvertirvi.

Stefano Severi.