Scontri-prima-della-finale-di-Coppa-Italia-tra-Napoli-e-Fiorentina-61Un corto circuito mediatico. Non è la prima volta che ci capita: monitoriamo i giornali, sportivi e di cronaca affine, ormai da tempo immemore per la rassegna stampa del nostro sito. Una rassegna stampa che riteniamo una sorta di cartina tornasole dello stato di salute del nostro giornalismo e, indirettamente, della libertà di informazione piuttosto che della capacità stessa di fare informazione.

Noi siamo fondamentalmente dei dilettanti, dei “turisti del giornalismo”, per quanto burocraticamente in tanti della nostra ciurma siano stati costretti ad iscriversi all’Ordine dei Giornalisti, per adempiere agli obblighi di legge necessari per svolgere il nostro compito nella legalità e sfuggendo a ritorsioni o porte sbattute in faccia. Però quando ci guardiamo allo specchio della stampa propriamente detta, ci viene spesso da ridere (per non piangere) per il modo con cui affrontano le notizie e le scrivono.

Nell’era del social network pachidermicamente entrato nelle nostre vite, della condivisione ossessivo-compulsiva, la valutazione e l’approfondimento delle fonti pare diventato un lusso che in pochissimi ancora si permettono. Parecchi anni addietro ci fu chi, con approccio per certi versi filosofico, attuò quella che chiamava guerriglia mediatica, cercando (spesso riuscendoci) di mettere in ridicolo il giornalismo, mettendone a nudo la pochezza, la faciloneria con cui segue piste inesistenti, fonti fantasma, fatti inventati di sana pianta. Oggi è un proliferare di siti come “Il Lercio” o “Il Corriere del Mattino” che, goliardicamente, diffondono notizie talmente assurde che non si capisce come possa qualcuno crederle vere. Se questo qualcuno è l’“utonto” medio del web, lo stesso che costituendosi in movimento dovrebbe salvare il nostro futuro, passi pure. Ma diventa poi veramente sfiancante se a caderci con tutti e due i piedi sono quelli che dovrebbero essere “i cani da guardia della democrazia” che, così, finiscono per diventare zuzzurelloni Carlini pronti a cibarsi dalla prima ciotola che il padrone propina loro, cagandoci poi flautolentemente mezze verità o assolute menzogne.

Noi restiamo dilettanti, facciamo tutto quel che facciamo per sola passione, non ci prendiamo il becco di un quattrino, anzi ce ne rimettiamo parecchi di tasca nostra pur di dare seguito ad una nostra passione e voce ad un movimento, a delle idee in cui abbiamo sempre creduto. Giocoforza, per tutto ciò che non è stretta cronaca del tifo sugli spalti, non possiamo farlo se non affidandoci a fonti terze, cercando quanto più possibile di confutarle, stando sempre dietro la stessa notizia e ripresentandola da più punti di vista. Oppure affidandoci all’intelligenza di chi legge, sperando sappia fare la tara di tutti i luoghi comuni (ormai ben riconoscibili) dell’opinione pubblica, magari addirittura aiutarci a destrutturare le falsità con testimonianze dirette dal campo, cosa che ogni tanto fortunatamente capita.

Se non si è capaci di far questo si resta schiacciati. Non è la prima volta che avviene un corto circuito mediatico, dicevamo: lo avevamo già visto nel giorno della morte di Gabriele Sandri e i motivi sono spiegati ineccepibilmente nel libro di Maurizio Martucci, “11 novembre 2007. L’uccisione di Gabriele Sandri una giornata buia della Repubblica”. Si va da una presunta tutela dell’ordine pubblico alla copertura di oggettive responsabilità/carenze istituzionali, cosa successa nell’immediato a Tor di Quinto, cosa successa anche ieri.

Oggi ci ritroviamo così, sballottati dall’ennesima tempesta mediatica di chi aveva cominciato a scavare la fossa al povero Ciro prima ancora che morisse, barche in mezzo ad un mare che all’orizzonte lascia intravedere nuvole nere e tempeste amare. Ci ritroviamo ad elaborare un lutto che non siamo stati capaci di elaborare dai tempi di Paparelli, di Reno Filippini, di Spagna, piangendo un morto che potevamo evitare.

Non vorrei nemmeno cadere nel tranello della moralistica condanna di questa o quella regola di ingaggio: ha pur ragione chi dice che non esiste una scala dell’infamia tra lame, assalti in branco, cariche ai pullman di club, aste con l’anima rinforzata in ferro, arance con le lamette, ecc. Per amore e in guerra tutto è lecito, sostiene qualcuno, per giustificare tanto questo di cui sopra quanto le ingiurie ai morti come estrema provocazione o richiamo allo scontro.
Anziché fare un passo indietro, come ci si era ripromesso dal “Basta lame basta infami” in poi, ognuno ha preferito fare un ulteriore salto in avanti, per rispondere a tono a quelle che giudicava infamità del nemico. Così se tutto è infame, secondo la logica dell’auto-assoluzione, niente è infame, né un 10 contro 1, né una sassaiola, né una bottiglia spaccata, né una lama e nemmeno una pistola. Politicamente parlando è come se qualsiasi esponente di partito fosse giustificato a rubare perché “tanto rubano tutti”.

Siamo andati avanti di anno in anno nella totale assenza di capacità auto-critica, mai capaci di prenderci delle responsabilità nostre e cercare di superarle, pronti solo a trovare alibi, capri espiatori o riconoscere colpe altrui. Che pure ci sono, per carità, ma sulle quali nulla si può in prima persona. Quello che si poteva sicuramente fare era lavorare sui propri errori, e non l’abbiamo fatto.

Continuiamo praticamente a vivere ancorati ad un Medioevo la cui oscurità sembra non aver mai lasciato questa nazione, arroccati ognuno sotto il proprio campanile con il forcone in mano, brandito contro nemici immaginari o spesso sbagliati, senza mai riuscire a contestualizzare (o decontestualizzare, a seconda).

Da Genova in poi ci si è incontrati più e più volte intorno ad un tavolo. Pian piano sempre più persone hanno preferito evitare di “sedersi allo stesso tavolo” con la tifoseria X perché rivale, con la tifoseria Y perché fascista, ecc. Differenze di vedute e di genere anche giuste, da rimarcare e coltivare all’interno del proprio orto, ma che in pubblica piazza hanno contribuito ad approfondire il solco, a diametralizzare distanze. Così volgi lo sguardo più in là e vedi i tuoi emuli di oltreconfine che costringono alla resa il loro governo su parecchi punti di uno dei tanti psicotici pacchetti sicurezza (per chi è poco arguto, sto parlando degli ultras tedeschi e della protesta denominata “12:12”), mentre tu ti avvolgi in una spirale di autoreferenziale onanismo filosofico, condannandoti da solo a vestirti nei panni della vittima che certo non ti toglierà di dosso nessun Maroni, nessun Alfano, nessuna Melandri.

Il solito piagnisteo sterile a volte fa da scusante generica: all’estero non hanno la nostra repressione, non hanno le nostre rivalità, non hanno le nostre stesse radicalizzazioni politiche. Balle, sono più simili a noi di quanto sembri, hanno in più solo quella capacità organizzativa e di farsi “massa critica” che a noi manca, presi come siamo a celebrare gli allori sui quali siamo seduti o il quasi nulla del passato che ancora ci resta.

Beninteso, se uno non ci crede ha tutti i diritti di chiamarsi fuori, anche in virtù di un movimento italiano che in tali circostanze è stato più sfilata di egocentrismi che non volontà di fare numero ed opposizione. Si può non dare manforte a chi ci crede e combatte seriamente, ma è poco comprensibile giungere a far loro il vuoto attorno o boicottarli apertamente. È un po’ questa la cosa tipica e allo stesso tempo insopportabile del nostro modo di fare, che forse è più una prerogativa italiana che non ultras, cioè che se non sei d’accordo con un dato modo di fare o pensare, non ti basta solo prenderne le distanze e startene tranquillo nel tuo vivere, ma devi per forza demonizzare ogni singola azione o pensiero altrui per dimostrare al mondo di essere l’unico depositario della verità assoluta, del Sacro Graal della tanto decantata mentalità ultrà.

Siamo arrivati così ad oggi, 25 giugno 2014, divisi e dominati da chi comanda, tutti convinti di avere ragione e tutti indistintamente con un cazzo di niente in mano con cui affrontare il futuro prossimo.

Da quel 3 maggio abbiamo forse un po’ tutti creduto e sperato che Ciro si potesse salvare, per non dover fare i conti con l’ennesima morte assurda, per non fare i conti con noi stessi che a quella morte, con tanti atteggiamenti di circostanza, con certa colpevole noncuranza abbiamo contribuito. Perché a sparare non sarà stato ovviamente nessuno di noi, chiaro (e tra l’altro le autorità inquirenti dovrebbero pure spiegare chi sia stato veramente e/o se non ci sono altre verità occulte che sia comodo far restare tali), però nelle nostre curve, in tutti questi anni, abbiamo convissuto volenti o nolenti con troppa merda. E non parlo di chi fa politica attivamente, onestamente e credendoci, perché ultras così ne ho conosciuti tanti nei miei anni di stadio e li ritengo sinceramente degni di rispetto, ma parlo di quelli che invece la politica la antepongono all’essere ultras. Che poi a dirla tutta quella non è nemmeno politica, ma loschi giri di interessi privati che ammantano dietro improbabile retorica politica sulle spalle e la buonafede di chi magari ci crede davvero.

Per non parlare di tanti di quei vermi luridi che in Curva ci hanno fatto il gran bazar dei porci comodi propri, gente ammanicata con la peggio feccia criminale delle nostre città e che, forte di una qualche azione ultras nel Paleozoico, non è mai stata presa e messa di faccia nel muro e gli è stato perdonato ogni schifo a proprio economico tornaconto. Praticamente le stesse storie di droga, armi e gambizzazioni che, lette sui giornali ed affibbiate indistintamente all’intero mondo del tifo, ci fanno saltare fuori dai gangheri per la rabbia, ma che sappiamo benissimo esistere eccome. Eppure facciamo spallucce.

Avremmo potuto fare terra bruciata e isolare i tumori, abbiamo preferito non comprometterci e siamo finiti compromessi lo stesso, pur se in diversa maniera. In tantissime Curve il più pulito c’ha la rogna e vive di merchandising: non avrebbe il minimo titolo per presentarsi da ultras, ma non solo lo fa, bensì ottiene pure riscontro da una certa base del tifo. Forse perché in momenti di azioni spregiudicate fa comodo avere gente “pesante” di siffata risma? Può darsi, ma se il prezzo da pagare è piangere i morti, forse tanto meglio prendere uno schiaffo o perdere uno striscione in più, ma quantomeno conservare la dignità. Di ultras e di essere umani.

Ciao Ciro, morire così non si può.

Matteo Falcone