In principio fu l’Italia a intessere un sistema cervellotico e bieco di restrizioni e divieti per tutte le categorie professionistiche. Ancor più della Grecia – dove da anni sono vietate agli ospiti tutte le partite più sentite – e in maniera ancor più forte e omnicomprensiva rispetto a Paesi dove si cominciavano a udire i primi vagiti della limitazione alla circolazione su territorio nazionale legata al calcio (vedasi la Francia, altro posto avanguardista in tal senso). Gli episodi del 2 febbraio 2007 allo stadio Cibali di Catania, in cui l’Ispettore di Polizia Filippo Raciti perse la vita a margine degli incidenti scoppiati tra supporter etnei e forze dell’ordine in occasione del derby con il Palermo (vicenda a dir poco nebulosa, su cui non è mai stata fatta reale chiarezza malgrado le condanne a Speziale e Micale), segnarono un punto di non ritorno, dando all’apparato istituzionale l’opportunità di approntare dapprima una serie pressoché totale di divieti e, in seconda battuta, permettendo l’emanazione della famigerata tessera del tifoso che, seppur rivista in molti suoi passaggi, tutt’oggi preserva la funzione ostativa grazie all’articolo 9 e alla possibilità, dunque, di non permettere l’acquisto di un tagliando per una gara decretata a rischio dall’Osservatorio. Malgrado il tentativo di dialogo tra le parti e un’effettiva “retrocessione” da parte istituzionale, con buona parte dei match disputati prima dello stop per Covid che avevano cominciato a essere effettivamente slegati da questo elemento, dallo scorso gennaio si è tornati a vietare oltre la metà delle trasferte. O a limitarle con suddetta tessera. Pesano gli incidenti in autostrada tra romanisti e napoletani (scusa ufficiale, senza che nessuno si sia presa mezza responsabilità per un incontro evitabilissimo) ma soprattutto pesa l’ormai lapalissiana voglia di non gestire da parte degli organi deputati.

Allontanandoci dal contesto italiano – che come spesso accade ha fatto scuola in negativo – l’obiettivo di questo articolo è partire dal match in oggetto per evidenziare il dilagare dello strumento del divieto nel Vecchio Continente. Sul finire dello scorso campionato si gioca, per la Super League Svizzera, la gara tra Lucerna e San Gallo. Partita dagli importanti risvolti sportivi che vede in palio una fetta di qualificazione europea. Su suolo elvetico difficilmente si ricorre a divieti e restrizioni e, ovviamente, non esistono tessere o biglietti nominativi. A San Gallo vengono venduti più di mille biglietti e con la Swissporarena che si preannuncia quasi sold out appare sin da subito chiaro che occorrerà approntare un perfetto servizio d’ordine per evitare tafferugli o tensioni. Gli ultras sangallesi hanno comunicato sin da inizio settimana che si muoveranno in treno. Ed in effetti il loro arrivo avviene a bordo di due convogli speciali. Sì, avete capito bene: in Svizzera (come del resto anche in Germania) esistono ancora i treni speciali, utilizzati dalle autorità per meglio incanalare le tifoserie e facilitare il loro lavoro di indirizzamento allo stadio. Da noi sono stati aboliti ormai da oltre vent’anni per accontentare l’opinione pubblica, sulla scia delle polemiche scoppiate dopo la morte dei quattro ragazzi di Salerno di ritorno da Piacenza nel 1998. Quindi non per competenza gestionale o per qualche motivazione logica. Solo ed esclusivamente per ragioni “di pancia”.

Tornando alla giornata di Lucerna: il primo errore della polizia elvetica avviene sicuramente nell’organizzare il tracciato che i sangallesi dovranno percorrere per raggiungere l’impianto. Un percorso che li fa passare esattamente sotto al bar della tifoseria di casa, da cui – ripeto – sono divisi da un’acerrima rivalità. Una scelta irresponsabile, con incidenti prevedibili. Turbolenze – che puntualmente avvengono – evitabili optando per altri tracciati. Durante i tafferugli, inoltre, le forze dell’ordine invece che tamponare peggiorano la situazione bombardando le tifoserie con palle di gomma e gittate d’acqua, col rischio di creare un vero e proprio panico di massa e peggiorare un contesto già divenuto incandescente.

Nei giorni successivi sia le autorità cantonali che i sindacati di polizia, ovviamente, se ne vedranno bene dall’assumersi la benché minima responsabilità dell’accaduto, condannando la violenza dei tifosi e indirizzando a essi i classici epiteti giustizialisti a cui siamo abituati anche nel nostro Paese in seguito a ogni simile episodio. Sebbene nessuno abbia intenzione di giustificare comportamenti fuori dalle righe, viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile approntare un tale, confusionario e sconclusionato, servizio d’ordine? Conoscendo il grado di rischio, la rivalità e la logistica per raggiungere la Swissporoarena, è normale che non ci sia stata un’anima pia ad alzare la mano e fare una domanda, neanche scomoda, ma intelligente, a questi signori?

Il risultato della serata è pesantissimo per le due tifoserie: divieto di trasferta reciproco per tutte le sfide tra Lucerna e San Gallo nella stagione successiva (quella corrente). Una decisione non nuova, ma a dir poco rara, in Svizzera, dove anche in altre occasioni si è ricorso a chiudere settori o bandire tifosi ospiti successivamente a ingenti disordini. Tuttavia siamo pur sempre in un Paese dove, per l’appunto, alcune restrizioni ormai consuetudinarie da noi, fortunatamente, non sono arrivate. E dove, soprattutto, i tagliandi non sono nominativi. La prima reazione di tutte le curve è quella di boicottare i primi quindici minuti di ogni gara, in segno di protesta e solidarietà, dietro al messaggio “a punizioni collettive seguono risposte collettive”. Mentre la seconda, ancor più forte e irriverente, si è manifestata lo scorso 6 agosto, quando in occasione della sfida San Gallo-Lucerna si sono presentati al Kybunpark circa trecento lucernesi malgrado il divieto, entrando allo stadio, tifando e accendendo anche diverse torce. Un fatto che ha mandato su tutte le furie le autorità ma che evidenzia ancora una volta come in quest’area d’Europa le curve siano assai oltranziste su tematiche che riguardano divieti o restrizioni, seppur lievi. Del resto prevenire è meglio che curare e il senso di comunità sembra sorvolare anche differenze e rivalità storiche.

Basti pensare all’ultima, in ordine cronologico, battaglia portata avanti dagli ultras del Servette. Da sempre contrari al biglietto nominativo, i ragazzi della Section Grenat hanno deciso a malincuore di disertare la trasferta di Genk, dopo che le autorità belghe – contrariamente rispetto a quanto successo nel match disputato a Ginevra – avevano obbligato a mostrare la propria identità per rilasciare il titolo d’accesso. Una posizione che le tifoserie svizzere, in generale, assumono e perseguono ormai da diversi anni (ricordo, parecchie stagioni fa, lo stesso atteggiamento dei basilesi in occasione di una partita a Roma, sponda giallorossa). Se è vero che parliamo di un movimento ultras più piccolo rispetto al nostro e con meno peculiarità e differenze (ma su questo, nel bene e nel male, l’Italia forse non è paragonabile a nessuno in Europa) – e anche meno bersagliato dalla repressione, buon per loro – non possiamo negare che alla base di tali reazioni ci sia probabilmente anche una diversa concezione di società e vivere quotidiano. In cui l’attentato a determinate libertà è visto davvero nella sua giusta dimensione.

Volendo tuttavia allargare ulteriormente il campo del nostro discorso, è fondamentale appurare come l’infimo strumento del divieto sia ormai approdato in diversi lidi e – esattamente come avviene in Italia – venga utilizzato quasi sempre per non gestire e lavarsene le mani. Atteso che nel Vecchio Continente il movimento ultras è cresciuto a dismisura anche in Paesi laddove fino a dieci anni fa difficilmente si vedeva anche solo uno striscione e che quindi è diventato, oggettivamente, più impegnativo gestire talune sfide internazionali, la strada intrapresa appare sempre più quella del proibizionismo. E se, proprio volendo, può essere comprensibile laddove al calcio si mischiano pesanti diatribe culturali se non addirittura belliche (mi viene da pensare ad alcune sfide balcaniche) è deprecabile e ridicolo nella maggior parte dei casi. Anche perché questa politica viene foraggiata dalla stessa Uefa che settimanalmente ci bombarda con ipocriti messaggi contro il razzismo e la discriminazione, non permettendo poi a liberi cittadini europei di assistere a un evento pubblico. Peggio ancora poi – e questa è proprio in pieno stile italico – sono le restrizioni adottate per punire una tifoseria che si è “comportata male”. Ne sanno qualcosa viola e romanisti, costretti a saltare le rispettive prime trasferte europee per qualche fumogeno di troppo acceso e lanciato in campo a Basilea (semifinale Conference) e Budapest (finale Europa League). Ma qua, a mio avviso, entra in gioco anche il peso politico delle Federazioni e dei Club. Senza voler fare opera di delazione, tutti abbiamo visto la finale di Conference, con Biraghi costretto a uscire dal campo sanguinante perché attinto da un accendino lanciato dagli spalti. Il West Ham se l’è cavata con una multa.

Il momento di attrito tra chi governa il pallone e la sempre più crescente spinta alla conservazione di determinati modus vivendi proveniente dal tifo organizzato in netta ascesa in gran parte del continente è palese, con i primi che grazie ai classici metodi subdoli sembrano ormai esser passati da un primo momento in cui condannavano chiusure e divieti a un atteggiamento quantomeno menefreghista (quando non è proprio la Uefa a chiudere i settori). I tragici avvenimenti di Atene, dove un tifoso dell’AEK ha perso la vita in seguito agli incidenti avvenuti con i supporter della Dinamo Zagabria – a cui in teoria era vietata la trasferta – hanno portato alla solita, stucchevole, escalation di benpensanti che, capeggiati da Ceferin, chiedono l’allontanamento dei gruppi organizzati dagli stadi. Anche lì, manco a dirlo, si è preferito vedere il dito e non la luna. Ci fosse stato un qualcuno in grado di chiedere conto su come sia stato possibile che una tifoseria abbia attraversato diverse frontiere (tra cui in ultimo proprio quella ellenica, dove a rigor di logica ci dovrebbe dovuto essere un presidio più attento) senza alcun problema. E ci fosse stato qualcuno che, con un minimo acume, abbia sottolineato l’inutilità dei divieti, dal momento in cui alcune situazioni difficilmente avvengono all’interno degli stadi e dal momento in cui – fortunatamente – esiste totale libertà di movimento fra Paesi europei. Ogni restrizione è solo l’ammissione o di non saper espletare il proprio lavoro o di non volerlo fare, cosa ovviamente alquanto ridicola.

Per tutti questi motivi non si può e non si deve pensare che saranno proprio i nostri “carnefici” a venirci incontro e allentare la morsa. Loro la decisione l’hanno già presa evidentemente ed è quella di lasciare ai tifosi le briciole di un giocattolo che hanno ampiamente rotto e disintegrato negli anni. Invocare un’unità d’intenti tra le varie componenti nazionali è sicuramente utopico, non ci siamo riusciti tra italiani in oltre mezzo secolo di movimento figuriamoci se saremmo in grado di farlo tra genti di lingua, cultura e modo di vivere la curva differente. Ma una base comune l’abbiamo tutti ed è quella del voler continuare a dar linfa al mondo delle curve, forse ultimo baluardo di aggregazione giovanile in un continente per certi versi vecchio e rimasto pressoché all’asciutto del suo spirito ribellistico e antagonista. Esistono, in seno a ogni Nazione, delle associazioni in cui i tifosi convogliano le proprie istanze e le proprie battaglie. Nei limiti e laddove possibile bisogna sempre sfruttarle. Ma soprattutto, come andrebbe fatto nella classista lotta al caroprezzi, è necessario rispolverare e utilizzare a mo’ di totem il senso di comunità. La solidarietà che ci suggerisce come oggi un divieto spetti a me ma domani sicuramente colpirà la tua curva, la tua tifoseria. Questo senso di comunità può sussistere, ovviamente, solo se ammantato da sana cattiveria. Da una determinazione che non può, di contro, sempre tradursi in accordi e compromessi che alla lunga finiscono per logorare diritti ineluttabili e vecchi come il nostro Mondo. In tal senso la risposta dei lucernesi e, ancor più quella del movimento ultras svizzero, è esemplare. Nonché sintomo di civiltà!

Simone Meloni