Mentre cammino per i Quartieri Spagnoli, alla ricerca di Lui, un quesito esistenziale mi tormenta, senza trovare risposta. Ma perché, nei miei trent’anni passati in questa portaerei americana che ospita il Vaticano (detta anche Italia) non ero mai venuto in una delle sue aspiranti capitali? In realtà ci avevo pensato l’anno scorso, per godermi la festa scudetto: roba che ha cambiato per sempre il “modus festeggiandi” di un titolo. Artisti e scrittori da tutto il mondo erano arrivati per assistere e raccontare. Per forza: più che una festa fu un’opera d’arte. Un amico del luogo però aveva smorzato sul nascere i miei sogni: non c’è un buco, è tutto pieno fino alla provincia. Un peccato. Ma un anno dopo, ecco l’occasione.

Maggio, dicono, è la stagione perfetta per venire nella città ai piedi del Vesuvio: né troppo caldo, né troppo freddo. E in effetti, il clima rasenta l’ideale: caldo sui venticinque gradi il giorno, leggermente più freschino la sera. Ma nel complesso, si sta che è una meraviglia. La prima tappa ovviamente è il santuario Maradona, diventato luogo di culto dopo il trapasso del Pibe: un luogo magico, pazzesco. Trascendentale. Tra Lourdes e Little Italy. Dove sacro e profano marciano a braccetto, dandosi la mano. “Ma non è una roba un po’ blasfema?” chiede la voce fuori campo. “Ma no – rispondo, da laico devoto – è in pieno stile cattolico, la venerazione dei santi. Un protestante, per dire, ne avrebbe orrore. Ma non un cattolico”. 

Che cos’è Napoli? Mille “culure”, disse qualcuno. O in maniera più scientifica: una squadra di calcio che ospita una città. I suoi segni sono ovunque. O-vun-que. E per forza: mettici una solidissima tradizione identitaria, che trascende il calcio. Aggiungici poi la morte del Mito (Lui) e lo scudetto a stretto giro di posta, e allora ecco che la leggenda è dietro l’angolo. Fatto sta che appena si varca la soglia della stazione, si capisce di essere entrati in un sogno: un mondo a parte, uno stato nello stato. O se volete una grande metropoli, che fa da semplice contorno ad una squadra.

Ma un anno dopo la magia, lo shock: tutto troppo bello per essere vero. Quindi ecco il brusco risveglio. Napoli ottavo, a due giornate dal termine. Ma com’è possibile? Eppure solo due elementi sono cambiati. L’allenatore e il difensore centrale. Basta tanto, per un simile tracollo? Per i vicoli, i commentatori del luogo sono certi: “è colpa del presidente!”, dicono all’unisono. Ora: personalmente (giuro) non ho legame di parentela con ADL (giuro!), ma ci si può scordare così in fretta di un tale successo? Forse da tifoso azzurro, diciamo insider, ragionerei diversamente. Fatto sta che alla luce di un anno disastroso, e di un mese abbondante senza vittorie, il San Paolo (pardon: Maradona) si presenta nel suo abito da lutto, con una silenzio irreale, che fa sembrare la sbornia di un anno fa un ricordo lontanissimo nel tempo. Se non proprio frutto di un’allucinazione collettiva.

Gli spettatori sono sui 40mila, che comunque non sono male, ricordando tutti gli elementi sopra detti. Ma tira aria pesante, di contestazione: le due curve di casa stanno in silenzio per il primo quarto d’ora, assistendo impietriti all’exploit degli avversari. Si tifa per la maglia, in primo luogo. E poi, contro De Laurentis: bersagliato dai cori da l’una e l’altra sponda. Sic transit, la gloria del mondo. Nel settore ospiti invece (1.500 i bolognesi presenti, record per loro qui a Napoli) la maggior parte dei gruppi ultras arriva a primo tempo inoltrato, causa (si dice) traffico in autostrada. Comunque, l’ingresso coincide col raddoppio. E fa da manifesto non solo della partita, ma di un’intera stagione: Napoli che proprio non va, Bologna straripante, che “gioca come in paradiso” (cit.). La partita è una lunga passerella che certifica il sogno ospite: alla fine si canta, senza più troppa scaramanzia. “Ce ne andiamo in Champions League!”. 

In casa Napoli invece sono fischi su fischi, con lo stadio che si svuota già nel recupero. Nessuno, un anno fa, si sarebbe aspettato uno scempio del genere. Nemmeno il peggiore dei pessimisti. Piazza del Plebiscito è piena sì, ma per il Giro d’Italia. Rimangono le maglie azzurre, e del Pibe, per certificare che la fede comunque non muore. Questione di coerenza, e mentalità. Ma non basterà il sangue di San Gennaro, per un nuovo miracolo: servirà l’aiuto di tutta una città. O meglio, il cuore. Che come dice Liberato, non ha proprio padroni. 

Testo e foto di Stefano Brunetti