Il 4 marzo 2014 gli agenti della Polizia di Stato hanno arrestato a Seveso, Brianza, 34 persone legate alla ‘ndrangheta, sequestrando beni per svariati milioni di euro. Stavolta, però, non ci vanno di mezzo chili di cocaina e kalashnikov. A Seveso, infatti, le forze dell’ordine hanno trovato più di una semplice partita di droga: una vera e propria banca. LA banca. Un istituto di credito, che serviva a riciclare i soldi sporchi di estorsioni e spaccio, portando i capitali accumulati nelle zone franche svizzere e sammarinesi. Sovrano di questa simpatica S.R.L. è Giuseppe Pensabene, già indagato nell’ambito dell’operazione “infinito”, maxi azione anti-‘ndrangheta culminata con l’arresto di quasi 200 “uomini d’onore”.

Il meccanismo di questa “nuova mafia” è innovativo; perché oltre al semplice taglieggiamento il gruppo di Pensabene riusciva a reinvestire i profitti illeciti, era capace di acquisire piccole imprese brianzole in gravi difficoltà, offrendo agli imprenditori afflitti dalla crisi prestiti che, però, avevano un tasso di restituzione da ghigliottina; costringendo il titolare a cedere l’attività a prestanome legati al panorama mafioso. “Come polipi dobbiamo essere”, dice lo stesso Pensabene in un’intercettazione ambientale. La chiave di volta dell’organizzazione è, però, il delicato equilibrio che si frappone tra scaltri economisti senza rimorsi, dirigenti bancari e postali collusi e, immancabilmente, vittime omertose. Dalla fascia degli economisti emerge il nome di Emanuele Sangiovanni, broker scavezzacollo e spregiudicato, tanto da offrirsi a boss Pensabene come adepto, pronto a scudare i guadagni illegittimi. I conniventi e collusi sono Vincenzo Bosco e Walter La Croce, rispettivamente direttore e vice-direttore dell’ufficio postale di Paderno Dugnano. Grazie a loro due, infatti, gli esponenti del clan potevano prelevare anche 200mila euro al giorno, presso gli sportelli postali. Le vittime, tante. Troppe, per essere inserite in un articolo.

 

Nelle settecento pagine scritte dalla magistratura, spiccano però altri nomi. Antonio Rosati, vicepresidente esecutivo del Genoa C.F.C., Giambortolo Pozzi, dg della Spal – squadra di calcio militante in lega pro seconda divisione – e Giuseppe De Marinis, ex presidente della Nocerina calcio, già invischiato in altri processi per associazione a delinquere. Il mondo del pallone nelle reti della mafia? Ma no, illudiamoci che il calcio sia estraneo a certi affari, che sia un mondo puro il cui unico problema, manco a dirlo, risulta essere l’ultrà. Qualche mese fa, chi vi scrive  aveva sproloquiato sul business calcistico in un altro pezzo, ipotizzando collaborazioni tra i padroni della sfera di cuoio e la peggior malavita. Dopo queste notizie, lo scenario ipotizzato non è più così surreale. Chissà, i 100mila euro elargiti dalla ‘ndranghetaBank alla Spal di Pozzi saranno stati usati per rinnovare i seggiolini in tribuna? Inutile dire invece che Rosati è, per il momento, inattaccabile da un punto di vista legale, sebbene lo stesso gip di Milano lo ritenga coinvolto in speculazione edilizia con la cosca calabro-lombarda. De Marinis ha addirittura subìto pesanti vessazioni fisiche da parte degli ‘ndranghetisti, tali da causargli il distacco della retina da un occhio. Un quadro agghiacciante, che non fa distinguere chi è vittima da chi è carnefice; perché per avere contatti con un mondo sotterraneo come quello dell’usura, bisogna essere ben addentrati.

Eppure si continua a demonizzare il tifoso caldo, i semper fidelis che sì, sbagliano eccome, vedasi salernitana-nocerina o gli striscioni sull’Heysel e Superga, ma non sono indicabili come unici cancri di uno sport allo sbando. E si continua anche a dimenticare. Come il caso “dirty bet”, operazione antimafiosa compiutasi a Palermo, due anni fa. Undici arresti, connivenze e complicità tra esponenti malavitosi e figure del panorama calcistico.  Calcio e mafia vanno a braccetto, specie nelle serie minori, sia a Sud che a Nord dello stivale. Sanremese, Monteroni, Giugliano e altre, numerose squadre, con dirigenti e presidenti affiliati a qualche mafia. Se si vuole davvero svoltare, e rinviare il valhalla definitivo del football italiano, si dovrebbe smettere di criminalizzare la torcia, la bandiera troppo grande o il fumogeno. C’è da pensare, piuttosto, a chi lucra sullo sport più bello del mondo, con traffici immondi e violenza.

[Fonte: Youth United Press]