E’ mercoledì pomeriggio lavorativo. Per spezzare una settimana un po’ sui generis ho proprio bisogno di una partitella come questa, fuori dagli schemi e in grado di farmi vedere qualcosa di nuovo. E’ da qualche tempo infatti che voglio osservare da vicino i ragazzi che seguono il Casal Barriera, squadra della periferia nord-est della Capitale. Dal 2009 hanno deciso di seguire le sorti dei gialloverdi, portando avanti un progetto di aggregazione tra i primi nel suo genere, seguito poi da tante esperienze simili che negli ultimi tempi, vuoi per la penuria delle curve di Serie A, vuoi per i problemi logistici legati al grande calcio (repressione, caro biglietti etc etc) stanno crescendo un po’ ovunque nel nostro Paese, in particolar modo nelle città più grandi e popolose.

La Linea B mi porta fino alla stazione di Santa Maria del Soccorso, da una parte la Tiburtina che scorre trafficata e dall’altra il quartiere Pietralata, storica borgata romana citata e frequentata anche da Pier Paolo Pasolini. Ho appuntamento con Davide, uno dei responsabili del gruppo. Arriva dopo pochi minuti, assieme ad altri ragazzi che si stanno preparando per l’evento. Il quarto di finale della Coppa Lazio è molto importante per loro. Mi spiegano che il Casal Barriera è una delle poche società che vive totalmente di autofinanziamento e centrare la finale, con un’eventuale salto di categoria, sarebbe davvero un traguardo storico. Noto subito un qualcosa di diverso in questi “pischelletti” tra i 17 e i 23 anni. A Roma, ahimè, è difficile ormai intessere un certo tipo di discorso con i più giovani. Tutti troppo presi dalle mode, poco istruiti dai più anziani e spesso facili prede delle mitomanie virtuali, utili solo ad annacquare i cervelli. Eppure questi ragazzi ascoltano con interesse i miei racconti su altre tifoserie e su vecchie trasferte, chiedendomi pareri e parlandomi con modestia e umiltà del loro progetto. “Oggi saremo in tanti, ma normalmente non è così” mi dice con sincerità Davide. “Non è facile fare aggregazione e portare gente allo stadio in queste categoria, noi ci proviamo e dal 2009 siamo cresciuti tantissimo”. E’ la loro apertura mentale a piacermi, mi accorgo che forse ciò che ha dato una mazzata fondamentale al movimento ultras romano è proprio il volersi rintanare nelle proprie credenziali, non aprendosi più al mondo esterno.

Saliamo in macchina e ci avviamo verso il campo. Passiamo nel cuore del quartiere, viuzze dal sapore retrò, tipica periferia romana che ha cominciato a popolarsi nel dopoguerra. Per me che ci sono nato tante cose corrono quasi inosservate, ma per un qualcuno che dovesse venirci da forestiere penso si avvertirebbe una certa sensazione di timore nell’osservare questi posti che fino a un paio di decenni fa erano tutt’altro che tranquilli, anche per i romani che non vi risiedevano. Entriamo in Via del Casale Rocchi, una stradina angusta al termine della quale sorge il campo “Nicolino Usai”. Mi accorgo subito di essere nella casa dei Warriors grazie a un paio di bei murales correlati da alcune scritte del gruppo.

Nonostante manchi un’ora al fischio d’inizio, ci sono già una ventina di ragazzi intenti a preparare la coreografia. Mi faccio un giretto attorno al perimetro di gioco, scambio altre quattro chiacchiere con alcuni di loro e poi, una mezz’ora prima dell’inizio, decido di entrare in campo. Mi accorgo, ahimè, che avendo frequentato negli ultimi messi quasi sempre stadi di Serie A, B e Lega Pro, sono diventato pure troppo impostato, dimenticando il vero sapore di queste categorie. La durezza burbera ma spontanea dei dirigenti, il documento consegnato all’arbitro e le pettorine prese dal magazziniere direttamente dal cestino del bucato. Se il terreno non fosse in erba sintetica sarebbe la perfezione, con l’odore del manto verde a inebriare le mie narici. Ma non si può voler tutto dalla vita.

Il primo sorriso me lo strappa un signore sulla settantina che raccoglie i palloni per liberare il campo prima dell’ingresso delle squadre. Vedendomi con la macchinetta al collo si ferma e mi dice “Aoh famme ‘na foto, così poi ‘a metti su Facebook!”. Come dirgli di no? La sua posa plastica, con due borracce in mano, è un qualcosa da Galleria Borghese.

Nel frattempo davanti a me il numero dei supporters gialloverdi aumenta, con il commento stupefatto della terna arbitrale intenta a riscaldarsi: “Questi hanno gli ultras! Fanno pure la coreografia!”. Vengo richiamato da un signore dietro la rete di recinzione, mi chiede per chi scatti. Quando gli faccio il nome di Sport People si complimenta per il servizio uscito qualche ora prima sulla trasferta di Fiumicino. E’ il papà di uno dei ragazzi dei Warriors, mi dice che ritiene bellissimo quello che suo figlio e gli altri ragazzi fanno per la squadra. Mi vengono in mente tutti i sapientoni pronti a denigrare gli ultras e le sue fattezze. Poi ti rapporti con la gente normale e ti accorgi che di fondo, gli ultras piacerebbero un po’ a tutti. Perché fare aggregazione, creare un luogo dove divertirsi e sfogarsi con il sorriso sulle labbra non può che essere un vanto per tutti, figuriamoci in zone problematiche come queste.

Finalmente ecco i giocatori varcare il cancello d’entrata e lo spettacolo degli spalti avere inizio. Dapprima nell’aria si sparge l’intenso fumo giallo e verde dei barattoli anni ’80. Una fumogenata bellissima, per un patito della pirotecnica come il sottoscritto. Diradato il fumo ecco spuntare la coreografia vera e propria, fatta di tante maglie del Casal Barriera e dallo striscione “Onoriamola insieme”. Poco da dire, mi piace l’idea e la meticolosità con cui è stata fatta. Per realizzare tutto ciò ci deve essere un’organizzazione ben definita.

Il tifo ha già cominciato a salire, ed ecco un’altra piccola sorpresa: dopo tempo immemore risento il rullio di un tamburo in un campo dell’hinterland romano. Ci tengo a sottolinearlo sempre in riferimento a quel discorso sull’apertura mentale di questi ragazzi. Non posso negare che questo strumento, per diverso tempo, a Roma è stato additato come simbolo di “arretratezza” nella concezione del tifo. Concetto che non solo non ho mai sposato, ma ho ritenuto sempre sbagliato e fatto con i paraocchi. Credo che si possa fare tifo con o senza tamburo, sia chiaro. E in ambo i casi la riuscita dipende innanzi tutto dalla volontà e dalla capacità di chi sta dietro le pezze . Poi personalmente sono e sarò sempre un amante del modello italiano, pertanto il tamburo per il sottoscritto è un simbolo e uno strumento imprescindibile dai cori e dallo spettacolo degli spalti.

Gli ospiti trovano quasi subito il vantaggio, ma ciò non intacca la prestazione dei Warriors. I ragazzi di casa tifano con intensità e costanza da categoria superiore. Tantissime manate, sbandierate, un paio di sciarpate e torce accese a raffica. Un vero e proprio piacere per gli amanti del genere. Rimango piacevolmente sorpreso anche dai cori che vengono eseguito. E’ superfluo dire che YouTube oggigiorno è un mezzo di traino fondamentale, e spesso rovinoso, per le curve. Ma è altrettanto importante sottolineare come in questo caso i ragazzi del Casal Barriera abbiano voluto ricercare e importare molti cori davvero carini, uscendo totalmente dallo standard prettamente capitolino e dai cori esclusivamente ripresi dalle curve di Roma e Lazio. Per me questo ha un valore davvero importante.

Il Casal Palocco perviene al raddoppio e sul finire del primo tempo i padroni di casa falliscono anche un rigore, sancendo praticamente la loro eliminazione dalla coppa con 45’ di anticipo (all’andata il match era finito 1-1). A questo punto, come ormai consueto costume italico, ci si aspetterebbe un secondo tempo dimesso e scompattato degli ultras. Invece nulla di ciò, forse l’intensità cala leggermente, ma il livello rimane comunque alto, con un’altra sciarpata eseguita e diversi cori goliardici. Non mancano i finti incidenti e una querelle particolare con il guardalinee posto proprio sotto il settore. Diversi oggetti lanciati al suo indirizzo, tanto che la gara viene sospesa per qualche minuto, per poi ricominciare con la colonna sonora degli insulti più disparati verso l’assistente. “Incivili”, direbbe qualche moralista. Di certo non io che guardando la scena non posso fare altro che ridere di gusto, ascoltando le invettive dei tifosi che lo incolpano di “fare la spia” ironizzando sulle doti sessuali di mamma e sorella.

I gialloverdi riescono a segnare grazie a un autogol di un difensore avversario, ma nel finale subiscono un altro gol, mentre in campo la gara si accendo e vengono espulsi un giocatore per parte oltre all’allenatore del Casal Barriera che perde la pazienza attaccandosi con un giocatore avversario. Tipiche e romantiche scene da calcio minore, con parole pesanti che volano leggere e spensierate.

Finisce con gli applausi e il ringraziamento, nonostante la sconfitta, da parte dei Warriors alla propria squadra. Giusto così. Il non abbattersi e zittirsi per una sconfitta è un qualcosa che apprezzo e che ormai tende sempre più a mancare ai tifosi della Penisola. Mi concedo gli ultimi scatti con la squadra sotto al settore per poi riporre la macchinetta nella borsa, riprendere il documento e uscire direzione casa.

In questi frangenti mi viene sempre da pensare che la riprova del lavoro di gruppo sarà la durata dello stesso. Attualmente gli ultras del Casal Barriera, come detto, sono forse la realtà più consolidata in ambito cittadino. E’ un’era dove tutto inizia e muore con estrema velocità, oltre che con una leggerezza inaudita. Quasi sei anni di attività sono molti, solo il futuro saprà darci risposte su come andrà. Per ora però, rispolverando un vecchio leitmotiv sanremese, comunque vada sarà un successo.

Simone Meloni

https://www.youtube.com/watch?v=tYM-LKplZVQ

https://www.youtube.com/watch?v=QINNZruZhQk