Non voglio fare il Rocco Papaleo della situazione. Ma proprio perché non sono lui e sulla mia carta d’identità non ho riportato come luogo di nascita Lauria, debbo per forza dire due cosette sulla Basilicata. Lo ammetto, amici lucani, finora per me la vostra regione era stata solo e soltanto un luogo di passaggio. Un posto dove cambiare treno a Potenza o dove, Dio ci abbia in gloria, passare per andare in Calabria o Sicilia percorrendo la celeberrima Salerno-Reggio Calabria. Bene o male tutti siamo ignoranti in qualcosa o almeno ignoriamo posti a noi vicini che spesso risultano più belli e selvaggi di quelle cartoline che sponsorizzano la vallate dell’Arizona o le foreste tropicali. Ma è proprio il dar tutto per scontato che non ce lo fa vedere. E forse, nel mio caso, è l’esser nato in una città con una storia millenaria e dalle bellezze poggiate in ogni angolo ad aver accresciuto la superficialità verso tutto il resto. Un resto che ho scoperto e sto scoprendo piano piano. Forse con l’incedere dell’età si mette a fuoco meglio quello che si osserva. Chissà.

Però quando il treno supera Eboli, cominciando ad inoltrarsi nel cuore dell’Appennino, il mio sonno svanisce. Scompare perché il cervello si attiva nell’osservare quei ruscelli, quelle montagne spigolose, quel cielo blu che fa contrasto con le pietre attaccate qua e là da voraci ciuffi d’erba. Sì, lo so, sto andando fuori traccia. O almeno credo. Ma il preambolo è d’obbligo e il rimpianto resta quello di aver visto di sfuggita queste terre, con la promessa di tornarci per approfondire. Una promessa che nell’ultimo anno e mezzo mi sono fatto in diversi posti. Quasi sempre rabberciati sull’Appennino. Da amante del vissuto e del vintage non potevo che innamorarmi di zone spesso rimaste uguali nel corso dei secoli. La barriera tra Tirreno e Adriatico che taglia a metà l’Italia.

E così quando il Vulture si materializza davanti ai miei occhi, comprendo ancor più chi ha paragonato queste zone al Tibet. L’idea che quel monte sia stato un vulcano e che oggi, ad attività terminata, abbia dato linfa al paesaggio circostante, con i bellissimi Laghi di Monticchio, è il perfetto specchio di una trasformazione millenaria del nostro territorio. Ma non solo. Passando dal sacro al profano, infatti, Vultur è proprio il suffisso con cui è chiamata la squadra di calcio di Rionero, piccolo paesino alle sue pendici che conta circa 13.000 abitanti.

La Vultur Rionero qua non è solo una squadra di calcio ma è un qualcosa che ha saputo dare lustro al paese, ha saputo creare un’aggregazione bella, spontanea e dal gusto antico. Lo si capisce appena entrati nel centro abitato, quando a destra e a manca spuntano sciarpette bianconere. Sono in Serie D, dopo una sofferenza durata decenni. Categorie infauste e dal poco appeal. Eppure i tifosi ci sono sempre stati. Pure se non ci sono venuto lo posso affermare, quanto meno ricordando tutte le foto viste in adolescenza sui vecchi Supertifo.

Oggi al Corona arriva il Gravina primo della classe, con una tifoseria che, seppur di nuova formazione, sta portando discreti numeri in giro per lo Stivale. I classici riti domenicali convogliano quasi tutti verso lo stadio, dove murales e scritte dei Vecchi Tempi accolgono gli avventori. L’effige di Carmine Crocco è stampata ovunque. Lui, il Brigante più celebre nella resistenza anti-piemontese, è nato proprio qui. Senza tirar fuori discorsi unitari e anti-unitari, che rischierebbero di diventare semplicistici e generalisti se affrontati in questo contesto, è certamente bello vedere come tutta la comunità abbia mantenuto vivo il suo ricordo e la sua immagine. Ma è proprio questo senso di appartenenza che mi sorprende in positivo. Forse proprio perché da più parti lo stesso risulta ormai sopito. A Rionero si capisce da subito che c’è stato un lavoro alle spalle e i ragazzi della gradinata sono coscienti di essere essi stessi una delle cose più belle che la cittadinanza abbia espresso negli ultimi anni. Non voglio fare quello che si spertica in complimenti per accattivarsi le simpatie altrui, ma tentate di capire il mio piacere nel vedere una simile realtà a raffronto di Roma, dove ormai l’azione più interattiva è diventata mandarsi un poke su Facebook. Così come in altre grandi metropoli.

Se si parla di aggregazione legata allo sport si deve anche far menzione del Gravina. Una società che ha saputo creare molto entusiasmo attorno a sé, riuscendo a riempire costantemente lo stadio e a far penetrare nella comunità cittadina un lavoro fatto evidentemente con la testa. I risultati sono dalla loro, è chiaro, ma non è facile convincere bambini e famiglie ad andare allo stadio per seguire partite di Eccellenza o Serie D. Soprattutto nell’era della Champions League e della Serie A poste come uniche entità in grado di poter fare calcio. Odio gli slogan del genere “Support your local team”, ma in questo caso mi viene anche difficile non coniarne di similmente validi. Ed è pur sempre meglio passare una domenica a tifare il Gravina che sedersi davanti alla televisione per tifare Juve, Milan, Inter, Napoli, Roma, Lazio o Fiorentina.

Manco a dirlo lo stadio presenta il tutto esaurito nella tribuna di casa, con un ottimo colpo d’occhio anche nel settore ospiti. Restano chiusi, per inagibilità gli spalti posti vicino ai supporter gravinesi. Quando le due squadre fanno il proprio ingresso sul terreno di gioco, i tifosi bianconeri si compongono in una coreografia semplice ma ben riuscita, fatta da tanti cartoncini su cui è riportato il nome della squadra. Di contro i tifosi gialloblù si mettono in mostra con una discreta fumogenata, compattandosi in un angoletto della tribuna a loro destinata. A livello di tifo non gli si può certamente imputare nulla. Il blocco ultras tifa dall’inizio alla fine. È tangibile però la divisione con il resto dei presenti, giunti in terra lucana per assistere in maniera silente al match. Questo è certamente dovuto al discorso di cui sopra, sarà il tempo a saper forgiare il tifo organizzato dei pugliesi, avvicinando magari anche chi oggi segue l’incontro in disparte. Le potenzialità ci sono e anche il vento in poppa dei risultati.

Si fronte rionerese invece si vede che il gruppo è ben rodato, con meccanismi che ormai si azionano da soli. Dal coro a rispondere, alla manata, ai canti eseguiti saltellando tutti assieme. La passione è alla base di un’organizzazione capillare che contribuisce all’ottima prestazione canora, su cui non mi dilungo perché c’è davvero poco altro da dire. Un sostegno che fa gettare ai giocatori il cuore oltre l’ostacolo, mettendo ripetutamente in difficoltà l’avversario e andando a un soffio dal clamoroso successo. Nel finale, infatti, il direttore di gara assegna un rigore alla Vultur, dal dischetto va Schiavino ma sbaglia, generando la disperazione dei propri fan.

Ma è soltanto qualche istante. Al triplice fischio, infatti, piovono applausi da ambo i lati, dopo una partita dispendiosa e combattuta fino all’ultimo istante. Roberto Sosa, uno che era abituato a lottare come un forsennato da calciatore, è dispiaciuto ma sa che i suoi hanno dato il massimo e va a raccogliere l’ovazione del pubblico.

Il terreno di gioco si svuota e gli ultras delle due fazioni rimangono qualche minuto ad intonare alcuni cori. Il mio rientro a Roma è prossimo. Stanco, quasi esausto, ma soddisfatto della giornata. Con la promessa di scoprire questi luoghi con più calma, per cancellare un tratto inaccettabile della mia ignoranza.

Simone Meloni