A tutti noi piacerebbe raccontare un giorno immortale della nostra vita. Ci piacerebbe disegnarla in un’interminabile iperbole ascendente, in grado di migliorarla, rendendola unica e impareggiabile. Ho pensato a quello che sarebbe stata la mia esistenza senza il pallone. Anzi, pardon, senza chi ha fatto diventare il pallone una magia, trasformando le mie settimane di qualche anno fa in una costante attesa della domenica. Un perpetuo moto leopardiano che invece di virare nel villaggio sabatino, volava dritto verso il centrocampo e ciò che lo circondava. Ogni tanto mi capita ancora di sentire, per pochi secondi, quegli odori, quelle sensazioni. E ritorno felicemente al settimo giorno della settimana di tanti anni fa. Con nostalgia, sia chiaro.

Non c’è niente da raccontare di questo Roma-Internazionale. Inutile star qui a dirci per l’ennesima volta di quanto faccia pietà e misericordia un ambiente ovattato, che stasera, al netto dei suoi 46.000 spettatori, incensati dai media manco fosse il pienone più pienone di sempre, ha registrato uno dei silenzi e dei climi funerei più disarmanti degli ultimi mesi. Complice anche l’assenza dei gruppi organizzati della Nord nerazzurra. Assenti per solidarietà. Bel gesto, gliene va dato atto. Se non altro perché la vogliamo vedere dal punto di vista della cavalleria, e ci sembra quasi naturale che due nemici storici, con battaglie epiche che si perdono nella notte dei tempi, lasciandoci foto ingiallite dei San Siro o degli Olimpico che furono, si guardino con un filo di rispetto. Ma il racconto finisce qua.

Io di Roma-Internazionale ne ho visti almeno una quarantina. E non esagero, anzi dico che è il numero minimo. Quando ero adolescente penso di aver fatto più trasferte a San Siro che feste con i parenti. Mi affascinava. Impossibile non ammetterlo. Era un dualismo con cui tutti noi, all’ombra del Colosseo, eravamo cresciuti. Nella nostro cultura popolare, così come in quella dei milanesi, c’era questo fattore di acredine. Un qualcosa che stava diventando arcaico e che poi, ci hanno insegnato, semplicemente non va fatto o pensato. Perché è politicamente scorretto. Io però posso dire di aver sentito i tamburi del Secondo Anello Verde battere forte. E insultare il settore ospiti con un ritmo ben scandito, così come ritmare i propri cori. Posso dire di aver visto volare, dal Secondo Anello Blu, quando ancora il settore ospiti era al Primo Anello, un po’ di tutto. Dai classici borraccioni di urina, alle scatole intere di tramezzini. Qualcuno si è scandalizzato? Non credo. Non ricordo. Non mi sembra.

Nessuno si scandalizzava semplicemente perché chi è abituato a seguire il calcio sin da piccolo, senza moralizzatori dietro le spalle o ipocriti maestri che di facciata debbono dirti le regole della vita mentre alle spalle le tradiscono costantemente, accetta tutto quello che succede dentro e fuori da un campo. Ovvio, nei limiti del possibile. Senza mai uscire dal seminato. Ma davvero, i tifosi di Roma e Internazionale sono ben altro rispetto a quello che ho visto di scena in Viale dei Gladiatori? Oppure mi sono perso un passaggio? Forse quel dialogo tra turisti ricoperti di sciarpe giallorosse e nerazzurre, altro non era che la nuova e futura frontiera del frequentatore degli stadi. Sì, probabilmente è così.

E allora quando devi vendere un prodotto a degli oriundi, devi far sì che ogni imperfezione o contaminazione culturale sia eliminata. E non solo dalle barriere e dalla repressione in fase di accesso allo stadio. Ma direttamente nella mentalità e nel modus vivendi della gente.

Se permettete mi fa ribrezzo. Mi fa rabbrividire il veder così esacerbato il sentimento che fu del pubblico italiano. La Serie A, le grandi piazze, le grandi tifoserie. Salvo qualche rara eccezione, sono davvero un corpo estraneo a ciò che furono e alla cultura popolare per il calcio. I grandi club sono la metastasi impazzita che fa da apripista al male assoluto chiamato calcio di cartone. Quello dei seggiolini colorati ma anche dei biglietti a prezzi folli per lucrare sui tifosi occasionali e allontanare la classe operaia.

Ma di cosa vogliamo parlare? Non è più neanche il tempo di far proclami populisti. Conviene guardare in faccia la realtà e, se possibile, almeno smettere di dar soldi e tempo a questo circo dannoso. Se oggi siamo arrivati a considerare quasi normali concetti come divieti di trasferta o tifosi di calcio chiamati in ballo e usati come esempio per qualsiasi disagio di questa società, vuol dire che le nostre menti hanno davvero fatto migliaia di passi indietro. In tutto ciò il lavoro mediatico ha influito e influisce in maniera incommensurabile. Io mi tengo quei battiti di tamburo e quelle offese. “Romano oh oh, bastardo oh oh” ci cantavano. Poesia per le nostre orecchie. Dio salvi la discriminazione territoriale, le offese negli stadi e i viaggi in treno senza biglietto. Per tutto il resto c’è Mastercard.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Lorenzo Contucci.