Una bellissima mattinata primaverile mi accoglie a Perugia. Forte dell’anticipo sulla mia tabella di marcia mi concedo un piacevole giro per le strade del centro storico, ammirando la sempiterna bellezza del capoluogo umbro e ricordandomi quanto ormai sia fissato nel cercare sempre di unire la partita alla parte paesaggistica o artistica del luogo in cui mi reco. Sarà l’incedere dell’età, ma la convinzione che lo stadio sia spesso e volentieri la sintesi del popolo che lo affolla, mi spinge a vivere un minimo anche ciò che accade attorno.

Perugia poi è una realtà che malgrado respiri calcio ad ottimo livello ormai da decenni, non ha mai perso la sua dimensione “provinciale”. Definizione che chiaramente assume un’accezione del tutto positiva in questo contesto, che si specchia nei ragazzetti che camminano per Corso Vannucci con le maglie del Grifo, come nei signori intenti ad ingollare panini e bicchieri di vino nei chioschetti attorno allo stadio Renato Curi.

La sfida con il Cosenza è un triste crocevia per la zona salvezza. Le due società non hanno propriamente brillato finora e le tifoserie convivono da inizio campionato con lo spettro di una retrocessione che, per motivi differenti, potrebbe essere la pietra tombale su due presidenze contestate ormai da diverso tempo e invise alle rispettive piazze.

Ho sempre creduto che pretendere – nella vita come nel calcio – sia un qualcosa di tendenzialmente sbagliato. Perché la pretesa è un qualcosa che appartiene, spesso, ai superbi. Così negli anni ho trovato sovente ridicoli cori e striscioni con cui svariate tifoserie lasciavano intendere che la partecipazione a un determinato campionato o la disputa dello stesso ad altissimi livelli, dovesse quasi essere un diritto sceso dal cielo, acquisito, senza magari far fronte alla propria storia calcistica. Che, almanacco alla mano, recita a buon bisogno tutt’altro. Però c’è un qualcosa su cui mi sento sempre di solidarizzare: il diritto di sognare. Sognare è alla base di qualsiasi passione, figuriamoci di quella per il pallone, che sin da piccoli ha cambiato umori delle nostre giornate e ci ha fatto vedere il mondo con occhi e colori differenti, perché legati alla nostra squadra del cuore.

Comprendo l’astio perugino, ad esempio. Sebbene non conosca così approfonditamente le ragioni che ormai da diversi anni fungono da spaccatura tra la piazza e Santopadre, capisco il voler una rosa competitiva, magari in grado di far tornare in auge il Grifo. Di fargli nuovamente scalare il gradino più importante della piramide calcistica e renderlo quella “squadraccia” tosta e difficile per tutti. Per le nuove generazioni non dev’essere facile vivere con il peso del mito di “ciò che è stato” ed è fisiologico che con una simile storia alle spalle, i più giovani vogliano tornare almeno a sperare di poter sfiorare la massima divisione. Quantomeno di competere, di giocare campionati al vertice. Eppure la risposta a molta dell’attuale mediocrità la dà il Curi: uno stadio che per anni è stato un vero e proprio gioiello tra gli impianti di provincia e che oggi vive una profonda crisi, con la Gradinata chiusa e la capienza fortemente ridotta per motivi strutturali. Una situazione talmente problematica che da diversi mesi si parla concretamente di costruire un nuovo stadio cittadino. Il che, personalmente, lo trovo a dir poco aberrante considerata la conformazione dell’impianto di Pian di Massiano e la sua naturale predisposizione a ospitare partite di calcio e tifoserie.

Dall’altra parte ci sono i cosentini, che oggi si presentano in Umbria in poco più di mille. I rossoblu, a differenza dei dirimpettai, un campionato di Serie A non solo non l’hanno mai saggiato, ma non ci sono praticamente mai andati vicini. Paradosso se si pensa alla tradizione calcistica e curvaiola dei rossoblu e – qualcuno mi perdonerà ciò che sto per dire – la partecipazione rivedibile di alcune piazze al massimo campionato di calcio italiano. Certo, il pallone non è un esercizio di meritocrazia per la tifoseria più bella o per il pubblico più passionale. Anzi, spesso e volentieri le cose vanno all’esatto contrario. Resta, tuttavia, la curiosità di vedere anche solo per una volta il Cosenza in A. Cosa che favorirebbe lo sfizioso confronto con le metropoli – e ovviamente l’emergere di nuove rivalità – nonché l’ulteriore consolidamente di un seguito che ha sempre avuto una certa portata sia nel capoluogo che nella provincia. E ovviamente in tutte le sue ramificazioni legate all’emigrazione. Sarebbe senza dubbio un tassello necessario per una tifoseria che negli anni ha sempre fatto parlare di sé, oltre a rappresentare un modello comunicativo e aggregativo nel passato. Modello che, sono convinto, ancora oggi riesce a portar dietro svariate generazioni grazie al suo fascinoso richiamo e alla sua onda lunga, che identifica negli ultras cosentini una comunità radicata ed espansa a livello nazionale nel suo modus vivendi. Questo anche in virtù del lavoro fatto nelle ultime stagioni, quando un po’ per il ritorno nella cadetteria, un po’ per la riorganizzazione di buona parte del contingente ultras, Cosenza è tornata sugli scudi in fatto di stadio.

La sfida che ne esce fuori, quest’oggi, è di quelle sostanziose. Tra due tifoserie che sanno fare tifo e, soprattutto, poggiano il proprio essere sul più classico dei modelli italiani: striscioni, voce, tamburi, bandieroni e battimani. Peccato non vedere praticamente nulla a livello pirotecnico, ma questo passa il convento nel 2023. Del resto l’accensione di una torcia è da qualcuno equiparato al possesso improprio di un’arma o, peggio ancora, a chissà quale pericolosissimo attacco alla sicurezza pubblico. Pertanto comprendo i ragazzi che non sono disposti a barattare la propria libertà. Il problema rimane alla base e non mi stancherò mai di ripeterlo: se mai ci sarà fronte comune, almeno su queste argomentazioni basilari, mai si riuscirà a scardinare minimamente il tabù ultras=criminale, che giocoforza si porta dietro tutta una serie di appigli per giustificare repressione e divieti.

Tra le fila perugine da segnalare la presenza dei gemellati di Castellammare di Stabia, ben individuabili grazie a una pezza e a un bandierone sventolato tutto il tempo nella zona presidiata dagli Ingrifati. A proposito dei gruppi biancorossi, spesso mi è capitato di sottolineare come abbia sempre apprezzato il loro essere entità distinte ma tutto sommato compatte per i bene del Perugia, malgrado storiche e celebri contrapposizioni (che poi, forse, hanno anche il “merito” di dare vitalità alla curva, quando non esacerbate). Anche oggi questa sensazione è confermata. Magari non saranno più i tempi della Nord stracolma e travolgente, ma a l’intensità resta un marchio di fabbrica per i biancorossi. Mentre, sul fronte opposto, i supporter bruzi concentrano la propria anima ultras nella parte inferiore del settore, mettendosi in mostra con un tifo di ottima fattura per tutta la partita. Uno dei primi caldi stagionali favorisce i petti nudi, stilisticamente sempre d’impatto (a meno che non vengano mostrati per risultare fotocopia di qualche pompata tifoseria dell’Est Europa).

Se sulle gradinate lo spettacolo è godibile e ricco di spunti, in campo va in scena una delle “solite” partite italiane: noiosa, priva di occasioni e foriera di uno 0-0 che alla fine serve ben poco ad ambo le squadre. A triplice fischio, tuttavia, sono i calabresi a riscuotere qualche applauso dal proprio pubblico, mentre tra i tifosi di casa regnano malumore e preoccupazione, che di fatto si trasformano in fischi e mugugni.

Il finale di stagione sarà al fulmicotone per tutta la zona bassa della classifica, con Perugia e Cosenza che si giocheranno molto sia del presente che del futuro. Nella speranza (vana?) che una salvezza possa essere lo slancio verso una programmazione più ambiziosa e lungimirante. Nel frattempo permane nel cuore di tutti i sogno…di sognare! Il che è spesso anche sinonimo di sofferenza e delusioni. Stati d’animo veri e forti, che restano sempre più vitali e stimolanti rispetto alle mediocrità e a qualsiasi limbo esistenziale!

Simone Meloni