sarriSono capaci di cavalcare polveroni creati dal nulla, ad hoc, per sfogare quel latente e ipocrita giudizio che li pone dal lato dei giusti: se Brecht riusciva a trovar posto solo dalla parte del torto un motivo doveva pur esserci.

Ultimo mediocre teatrino è stato quello tra Mancini e Sarri. Da un episodio di trance agonistica, sbagliato per carità, si è passati ad una caccia alle streghe e alla realizzazione di un idolo da porre sul piedistallo. Mancini, il nuovo idolo delle folle, asserì, qualche giorno dopo Lazio-Arsenal nel 2000, quando lui era vice di Eriksson: “Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì”; dopo lo scambio di amorevoli effusioni tra un “negro” e uno “zingaro” pronunciati rispettivamente da Mihajlović e Viera. Oppure, nel 2007, contestò la chiusura della Curva Nord dell’Inter causata dall’esposizione dello striscione “Napoli fogna d’Italia”, che minimizzò come un semplice sfottò da stadio. Segno che anche gli insulti non sono tutti sbagliati e uguali nelle loro negatività: la differenza è segnata dalla convenienza di rimanere in silenzio quando li si fa, per poi cavalcarli con isteria quando li si subisce.

Questione di formalità, di un politically correct da sfoggiare nei momenti in cui è indispensabile, per rifarsi il look dando una nuova e pulita immagine di sé, per poi essere riciclato anche dal Palazzo del Calcio per dare allo stesso una parvenza di etica che non ha. Parliamo della dirigenza calcistica conosciuta per le uscite razziste e sessiste di Tavecchio e di Belolli: dalla gaffe del primo con “Optì Poba mangiava le banane”, al Presidente della Nazionale Dilettanti (subentrato proprio a Tavecchio) che, sull’opportunità di stanziare fondi al calcio femminile, disse “Basta! Non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche”.

Mettere sullo stesso piano le gaffe dei due presidenti con l’uscita di Sarri, solo apparentemente può sembrare giusto, ma in realtà c’è una diversità di fondo da considerare: le prime due frasi sono state espresse in momenti di raziocinio, di presa di posizione con cognizione di causa; mentre l’atteggiamento di “sarriana” memoria è figlio di un retaggio culturale da campo, sbagliato, che si esprime in momenti di mancanza di lucidità, che una volta riemersa ci fa capire la gravità di parole dette e non pensate; l’idea politicamente corretta, sostenuta con animosità dalla stampa in questi giorni, tende a non accettare una caduta di stile, tende a non perdonare nulla.

Tutta questa coerenza, se andiamo a ritroso nel tempo, svanisce quando in ballo ci sono vittorie di non poco conto: nel Mondiale del 2006, Materazzi con le sue provocazioni, non classificabili nel galateo, riuscì nell’intento di far cadere nella trappola della reazione Zidane, con la consecutiva e ormai celeberrima testata.

Quando poi il capro espiatorio esula dai protagonisti in campo, il polverone di solito se lo sorbisce e subisce il mondo del Tifo: ricordate il caso di Boateng? In quel momento tutti i tifosi furono marchiati come razzisti, tutti, nessuno escluso. Peccato che a margine seguì l’assoluzione dei tifosi della Pro Patria riconosciuti autori di cori di disapprovazione e non di razzismo, come la Corte d’Appello sancì, ribaltando la sentenza di primo grado del Tribunale di Busto Arstizio che aveva comminato condanne ai 6 imputati, che andavano dai 40 giorni ai 2 mesi.

Non può non destare qualche perplessità di fondo, oltre l’ipocrisia mediatica annessa, la parabola dello stesso Boateng in Germania: la sua cessione allo Schalke 04 fu narrata come la fuga da un Paese devastato dalla piaga razzista, pochi anni dopo voilà, c’è il ritorno del figliol prodigo. Il mitizzato eroe che da solo si scontrò contro le curve razziste, ai Mondiali fu cacciato, assieme con il compagno Muntari, per aggressione al ct Appiah; in Germania, sempre in compagnia, viene licenziato insieme al suo compagno Sam per mancanza di professionalità. Se il viaggio di andata in Germania permise alla stampa nostrana di vomitare un po’ di qualunquismo nei confronti del tifo italiano, il ritorno dell’ineccepibile nazionale ghanese invece è stato accolto con indifferenza: non aveva più appeal l’incoerenza del ritorno nel Paese xenofobo da parte di Boateng, neanche per secondi fini da riutilizzare per qualsivoglia crociata.

Davvero queste curve nei nostri stadi sono così propense al razzismo? Possibile che non ci siano cori o striscioni che invece mostrino contenuti di apertura ed integrazione sociale, riequilibrando la narrazione?

Perugia-Como, 6 Settembre 2015, prima giornata del campionato cadetto, vengono srotolati due striscioni nella curva di casa: “Barili pieni, innocenti annegati… questa è la legge dei Paesi avanzati” e “Welcome Refugees”.

In un periodo in cui il dibattito pubblico si lascia andare a sciatterie di ogni genere, i contenuti di uno striscione del genere, chiari, diretti, non convenzionali, non hanno avuto alcun responso mediatico. Questo fa capire come il più delle volte il politically correct non sia nient’altro che formalità di un pensiero di plastica.

Dove tutto è già schematizzato ed etichettato, lo sdegno di paglia di giornali e classi dirigenti, la voglia di rivoluzione del tifosotto medio, vanno inevitabilmente a riversarsi contro un capro espiatorio: il più delle volte riscontrato nei tifosi, o in rari protagonisti di campo non conformi alle ipocrisie di un calcio sempre più finto. Non c’è possibilità alcuna di analizzare fatto per fatto, oltre i ruoli che diventano obbligatoriamente delle colpe: iniziative antirazziste, slogan e messaggi di solidarietà di integrazione di cui quelli succitati sono solo un minimo esempio, iniziative benefiche nazionali e locali, come quella del Nucleo Storico Ultrà Salerno, tanto per citarne uno, capace grazie ad una raccolta fondi di far costruire un asilo in Tanzania. Tutto ciò non basterà a staccare l’etichetta razzista incollata sul mondo del tifo. Segno di come l’apparenza sia il tratto distintivo di un mondo, calcistico e non, che ai contenuti preferisce la superficialità del pensiero già precostituito.

Gian Luca Sapere.