Ed è ancora Sicilia. Un’altra volta in quest’annata calcistica il simbolo della Trinacria ammanta il mio fine settimana sportivo che – manco a dirlo – inizia prestissimo il sabato mattina, quando il sole ancora non è sorto e l’aeroporto di Fiumicino è già un viavai di gente impegnata a saltare da una parte all’altra d’Europa e del Mondo. I canonici cinquanta minuti di volo per Catania trascorrono in un battibaleno e appena sbarcato dall’aereo mi dirigo velocemente verso le fermate dei pullman. Il mio programma vacanziero/narrativo è il seguente: visita a Modica il sabato, arrivo a Ragusa (con relativo primo giretto in città) nel tardo pomeriggio e intera domenica nel capoluogo ibleo, concludendo con il match dello stadio Campo. La libertà di decidere cosa e in che modo spostarmi e approfondire il mix tifo/storia/cultura/calcio mi esalta sempre e riesce a fornirmi costantemente stimoli nuovi per timbrare il cartellino laddove non ho ancora marcato visita.

Una delle prime gare viste quest’anno è stato lo storico derby tra Siracusa e Acireale, contrassegnato da una cornice di pubblico importante, dal notevole tifo delle due fazioni e da un post match alquanto turbolento. So che oggi si tratta di un derby che non può vantare un livello di acredine simile, tuttavia i rapporti tra le due tifoserie non sono amichevoli e – inoltre – sono curioso di vedere all’opera gli acesi, che proprio dopo la movimentata giornata del De Simone hanno ricevuto una valanga di Daspo: sessantacinque, che sommati a quelli già in essere hanno portato a un totale di circa cento diffidati tra le loro fila. Numeri che con tutta probabilità avrebbero fatto chiudere i battenti a molti. I granata, invece, hanno continuato per la loro strada, non sospendendo alcuna attività e presenziando – anche con discreti numeri, considerato lo scarno andamento sportivo – sempre (salvo divieti, che sovente li hanno colpiti) senza troppi piagnistei e con una notevole tempra. Di contro mi incuriosisce molto anche la tifoseria ragusana, di cui ho ricordi sfocati (ma buoni) all’epoca della loro militanza in C2.

Salgo sul mio pullman e, malgrado sia ancora provato dal sonno dell’alzataccia, il paesaggio lunare della Sicilia interna come sempre cattura la mia attenzione. Il profilo dell’Etna si allontana inesorabilmente e la Statale 194 si inoltra sinuosa tra le colline spazzate dal vento, con pochissimi insediamenti urbani a farle da contorno. Non mi sorprende che in epoca bizantina quest’area fosse conosciuta come un vero e proprio granaio, grazie alle sue ricche distese. Addirittura, per alcuni, il nome di Ragusa è legato a questa coltivazione. In realtà parlare di storia in questa zona della Sicilia richiede una difficile opera sintetica, considerato che i primi insediamenti umani – individuati nel popolo dei sicani, poi sterminato e soppiantato dai siculi – sono conosciuti sin dal XX secolo a.C. Sempre in questa zona sono state rinvenute diverse necropoli, che dovrebbe appartenere a una delle Ible al tempo presenti in Sicilia. E qua occorre aprire un’altra piccola parentesi: non ci sono fonti certe sul posizionamento delle stesse – anche se quella più certa è Megara Iblea, nei pressi di Augusta -, né sull’origine di questo nome. Sembra che i siculi venerassero una Dea chiamata Ibla (che corrisponderebbe a una sorta di Grande Madre, divinità femminile della fertilità riconosciuta da molte popolazioni preistoriche), tanto che uno dei loro Re assunse proprio il nome di Iblone. Sta di fatto che Ragusa dovrebbe corrispondere a Hybla Herea, la più antica di quelle conosciute e – probabilmente – anche la più piccola. Una città forte, ricca e molto importante, che tuttavia sotto il dominio romano dovette subire parecchie pressioni da un punto di vista fiscale, soprattutto a causa della scelta, da parte della vicina Kamarina, di schierarsi con i cartaginesi durante le Guerre Puniche. Cosa che, di fatto, ricadde sull’intera area, penalizzandola e costringendola a consegnare un decimo del raccolto al governo centrale.

La Sicilia, come un mio caro amico mi ha sottolineato tempo addietro, non è una terra di conquista. Ma un luogo dove culture, popoli e storia sono passati, stanziandosi e cercando sempre di migliorare il suo territorio e apportando cambiamenti e identità alla sua gente. Non è un caso che la “sicilianità” unisca anche città storicamente divise dal campanile e che al di fuori dell’isola, ancora oggi, i siciliani mettano avanti a tutto la propria terra. Se è vero che il nostro Paese è un avamposto per quanto riguarda le singole identità regionali e cittadine, è altrettanto vero che ci sono posti in cui questa “autodeterminazione” si sente più forte, ripescando nel passato una sorta di fratellanza inviolabile. Passare dal dominio romano a quello bizantino, per poi vedersi avvicendare arabi, svevi, angioini e aragonesi (finanche a divenire Contea di Modica sotto il Regno di Sicilia) costituisce un bagaglio storico troppo grande per osservare questa terra a cuor leggero, come se fosse una delle tanti parti del Mondo. Te ne accorgi quando il pullman passa da un tornante all’altro e, improvvisamente, ti mostra città arroccate sulla pietra.

La geografia qua ha una sua storia frastagliata e affascinante, ma anche foriera di morte e disastri. Per capire al meglio l’attuale Ragusa, infatti, bisogna giocoforza fare riferimento al catastrofico terremoto dell’11 gennaio 1693, che con i suoi undici grandi nella scala Mercalli – assieme a quello registrato nel 1908 con epicentro nello Stretto – è il sisma più forte che abbia mai colpito la Sicilia Orientale e, senza dubbio, uno dei più disastrosi in tutta la storia d’Italia. Un evento che, oltre a radere al suolo la città, provocò ben cinquemila vittime (sulle dodicimila residenti in quel momento a Ragusa) in maniera a dir poco subdola. Nei giorni precedenti, infatti, i ragusani avevano avvertito diverse scosse e preventivamente avevano preferito passare la notte nei campi, malgrado le rigide temperature (spesso sotto lo zero). Proprio quando il pericolo sembrava scampato decisero di tornare nelle abitazioni, la notte tra il 10 e l’11, rimanendo seppelliti dalle due scosse che al mattino si manifestarono rispettivamente alle 9 e alle 13:30. La spietata placca africana, che da sempre spinge verso l’Europa provocando saltuariamente morte e distruzione, mise ancora una volta in ginocchio il popolo siciliano e in particolar modo la Val di Noto. I suoi abitanti, tuttavia, sarebbero riusciti a rimettersi in sesto, realizzando un qualcosa di ancor più grande e maestoso a Ragusa, un patrimonio di cui oggi ancora godiamo e che senza dubbio rappresenta una delle più importanti concentrazioni di bellezze artistiche di cui disponiamo in tutto il Paese.

Il modo con cui il capoluogo ibleo è stato riedificato, infatti, risulta curioso e sicuramente fa da fedele specchio alla società dell’epoca e ai contrasti tra i vari tipi di potere esistenti. Sin dai primi giorni successivi al sisma si proposero tre opzioni per la ricostruzione: sullo stesso sito (Ibla), in contrada Patro (la collina che si eleva a Ovest) e più a Sud, in contrada Cutalia, opzione che venne immediatamente scartata. Mentre le prime due divennero oggetto di accesa discussione tra il ceto nobiliare e conservatore – che voleva ridar luce alla città sul vecchio sito – e quello borghese e imprenditoriale, che spingeva per edificare a Patro. Il motivo dello scontro è anche da ricercare in una sorta di vuoto di potere: da qualche anno il Conte si era trasferito in pianta stabile nella vicina Modica e a Ragusa diverse famiglie (divise in due schieramenti: i sangiorgiari e i sangiovannari, appartenenti alle rispettive chiese, a testimonianza di quanto potere politico ed economico fossero connessi con quello religioso), si contendevano costantemente il potere. Alla fine nessuno degli schieramenti riuscì a prevalere e, dapprima il nuovo abitato in contrada Patro, e successivamente quello sulla vecchia città bizantina, vennero eretti quasi con l’intento di primeggiare l’uno sull’altro in fatto di bellezza, sfarzosità e architettura. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, in particolar modo dei miei che – da buon camminatore – riuscirò a macinare quasi trenta chilometri tra una parte e l’altra della città. Quando si cammina per Ragusa bisogna tenere conto della sua storia e tentare di capirne l’anima. Essa appare come una città benestante, elevata sul suo piedistallo di pietra non certo casualmente. Sin dai tempi normanni, infatti, la città è stata governata in maniera avulsa rispetto ad altre baronie siciliane, con conti e governatori vari che a essa (e alla maggior parte delle città circostanti) hanno sempre riservato uno status economico e sociale privilegiato, tanto da parificarle a vere e proprie entità sovrane e astratte.

Facile, dunque, perdersi tra le strade di questi due quartieri, con il punto di “cesura” rappresentato dalla suggestiva Via Scale che li unisce e con fare ondivago ti porta fino a Ibla, lambendo il profilo della collegiata di San Giorgio e godendo il panorama della vallata sottostante dai suoi Giardini. Malgrado la stagione non sia ancora nel pieno, già un discreto numero di turisti affolla le viuzze cittadine, affacciandosi dal parapetto da cui probabilmente solo io mi soffermo a scorgere la vecchia e dismessa stazione di Ragusa Ibla. La mia passione ferroviaria, ovviamente, non è potuta venir meno neanche a queste latitudini e con sommo dispiacere ho appreso che suddetto scalo è ormai stato trasformato in ristorante, malgrado sia stato il primo a esser attivato all’interno dei confini comunali. Oggi il capoluogo è servito dalla stazione posta nella parte nuova, più precisamente nel centro abitato collegato dal Ponte Vecchio, che domina la storica Cava Santa Domenica e che da fine ottocento ha favorito lo sviluppo della città verso Sud. A onor del vero, rimango piacevolmente colpito dalla stessa per il suo aspetto retrò: panche, tavoli, insegne e strumenti fermi praticamente agli anni sessanta. Ben conservati e davvero d’impatto, sembra quasi che ci sia un maniaco di ferrovia a darle manutenzione. La scritta “cessi” riferita ai bagni è pura poesia, chissà cosa ne penseranno i fautori del politicamente corretto a tutti i costi (spesso totalmente avari di conoscenze relative alla storia della lingua che si ostinano a voler stravolgere). L’unico peccato è non poter immortalare treni, a causa della sospensione delle linee Caltanissetta-Siracusa e Siracusa-Gela-Canicattì fino a dicembre 2024 per lavori di potenziamento. Opere che si spera verranno veramente realizzate in questi tempi e non riducano ulteriormente un traffico che – come in buona parte della Sicilia – dagli anni novanta in poi ha subito drastici tagli, rendendo la circolazione su ferro una vera chimera e andando a incentivare ancor più il trasporto su gomma. Insomma, la classica vecchia storia italiana. Quella in cui se il mondo del trasporto cerca di ammortizzare costi e soprattutto inquinamento, il Belpaese deve sempre fare il contrario. Convinti anche di essere furbi.

Con le tenebre del sabato sera ormai scese e stanco per tutta la giornata trascorsa mi appresto ad andare a dormire, non prima di essermi imbattuto in Via dello Stadio, non distante dal centro. La cosa mi incuriosisce, perché consultando Maps ho visto che il campo del Ragusa è fuori città. Effettuo qualche ricerca e alla fine scopro che lo stadio c’è davvero: si tratta del Giovanni Biazzo, primo impianto cittadino nonché casa del club ibleo fino al 1972. Da fuori mi appare arroccato su una collinetta, in parte stretto tra i palazzi. Mi riprometto di tornarci il mattino seguente, per vederne la conformazione e – se possibile – calpestare il suo manto erboso.

La sveglia suona, dunque, abbastanza presto. In queste occasioni non c’è tempo per concedersi lunghe dormite, bisogna tornare a casa senza avere rimpianti per non aver potuto vedere questo o quello. Dopo una frugale colazione con il più classico dei cannoli, posso avviarmi verso il Biazzo. Come spesso succede in questi campi, le porte sono completamente aperte. E per il sottoscritto ciò rappresenta un invito troppo ghiotto per esser declinato. Certo, rispetto all’impianto originale – conosciuto anche come Campo ENAL, dall’Ente Nazionale Assistenza Lavori che nell’immediato dopoguerra ne curò lungamente la gestione, fino agli anni ottanta, quando poi venne intitolato all’omonimo artista ragusano – alcune cose sono cambiate. A cominciare dagli spalti, che un tempo vedevano una tribuna di circa ottocento posti, posizionata dirimpetto rispetto a quella più minuta esistente oggi. Al suo posto, sin dall’inizio degli anni ’90, è stato costruito un campo da calcetto. Scorgo diversi adesivi ultras del Ragusa attaccati qua e là, segno che il tifo organizzato locale identifica ancora il Biazzo come parte integrante della storia del club cittadino, sebbene tutti i risultati più rilevanti siano stati conquistati nel “nuovo” stadio. Rimane bello, tuttavia, fantasticare su un’eventuale trasferta di tifoserie nemiche in questo impianto: con una parte accessibile praticamente in mezzo ai palazzi, la gestione dell’ordine pubblico sarebbe stata tutt’altro che simpatica per i nostri prodi eroi che ormai si lagnano anche per situazioni controllabilissime. Purtroppo si può solo lavorare di inventiva, dato che ormai il terreno di gioco è usato esclusivamente per attività sportive generiche e per le gare interne della Pro Ragusa, club militante in Prima Categoria.

Quando decido di lasciarmi alle spalle questo piccolo pezzo di storia del calcio che fu, mancano ancora tre ore al fischio d’inizio, posso pertanto concedermi un altro bel giretto nel centro storico e soprattutto ammirare il panorama di Ibla dalle terrazze di Via Scale. Uscendo dallo stadio mi accorgo che la ferrovia ne lambisce uno dei quattro lati, passando poi al di sotto della strada. Non riesco mai a resistere al fascino stadio + rotaie e mi soffermo qualche minuto a riflettere su quanto questi due elementi siano, al momento, quasi arcaici in questa determinata zona della città. Alcune nuvole appannano il sole e le campane delle diverse chiese disseminate per la città richiamano i fedeli alla messa. Quando percorro per l’ultima volta in questo weekend la strada che dall’estremità dei Giardini Iblei mi conduce verso la parte nuova di Ragusa, sono ben cosciente di dover camminare per oltre cinque chilometri in direzione stadio. Non solo la cosa non mi pesa, ma francamente trovo molto interessante anche penetrare nel tessuto urbano e sociale della parte moderna, quella dove si stagliano normalissimi palazzi e strade dalla conformazione cittadina contemporanea. Peraltro – cosa che amo della Sicilia – mi imbatto in diverse rosticcerie che, vista l’ora prossima al pranzo, mostrano nella varie vetrine diverse specialità locali, tra cui gli immancabili anellini di pasta al forno. Il pit stop è obbligatorio quando manca un quarto d’ora alla meta, cosa che peraltro mi fa imbattere in alcuni giornalisti acesi, impegnati anche loro a trangugiare varie leccornie. Butto giù l’ultimo goccio di vino e poi mi incammino verso lo stadio, che metro dopo metro mi appare sempre più come una sorta di “cattedrale nel deserto”.

L’Aldo Campo – intitolato all’omonimo giocatore degli anni trenta – è stato edificato in contrada Selvaggio (nome con cui, infatti, è popolarmente conosciuto) e quello che risalta subito agli occhi è la scarsa manutenzione cui, evidentemente, negli anni (non) dev’esser stato sottoposto. Passo per il “parcheggione” riservato agli ospiti, costeggio la tribuna coperta e arrivo di fronte all’ingresso principale, dove un largo stuolo di poliziotti, funzionari e vigili sta monitorando – telecamera alla mano – una situazione che sembra essere tranquillissima. Sono sincero: la sensazione è quella di una Questura eccessivamente apprensiva, tanto da inquietarmi e mettermi sufficientemente a disagio, al punto da voler entrare subito nello stadio vuoto per scattare qualche foto. Al netto della sua obsolescenza e della lontananza – causa pista d’atletica – dei settori dal campo, il mio spiccato gusto per gli stadi “non convenzionalmente belli” me lo fa apprezzare, quantomeno ne colgo un’anima e non lo vedo come un freddo contenitore di spettatori convertiti a meri clienti paganti. Peccato che dopo una decina di minuti dal mio ingresso, indovinate chi arriva in modo trafelato invitandomi immediatamente ad uscire perché “non sono ancora state fatte le operazioni di bonifica”? Alzo le mani, facendo presente di essere un giornalista che vuol solo raccontare la storia calcistica di Ragusa. Il funzionario non sembra molto convinto, così mi porto verso le uscite e comincio a osservare il viavai di tifosi che lentamente popola la pompa di benzina antistante la tribuna coperta, dove lo zoccolo duro degli ultras iblei è intento a lanciare cori e a salutare gli amici di Paternò. Altro elemento “croccante” per questa giornata, considerata la rivalità che divide i rossoblù dagli acesi. Curiosità: l’impianto è stato inaugurato il 22 settembre 1968 proprio con la sfida tra Ragusa e Acireale, ufficialmente può contenere 4.500 spettatori.

A proposito di rivalità e scelte cervellotiche di Osservatorio, Questura e compagnia cantante: fino a metà settimana – come da tipico costume italico – la trasferta dei granata è stata in forse. La moda dell’ultimo anno solare, vale a dire quella di vietare in base agli incroci pericolosi su strada, ha rischiato seriamente di colpire questo match, rovinare il mio fine settimane e compiere l’ennesimo (e gratuito) abuso nei confronti dei tifosi. Motivazione? La trasferta dei siracusani a Ravanusa, contro il Licata. Strade, in realtà, tutt’altro che parallele quelle da percorrere con gli acesi e probabilità di incontro davvero bassissima. Fortunatamente, una volta tanto, si è optato per non porre divieti e gestire normalmente il tutto, mettendo a disposizione dei supporter acitani 384 biglietti, l’intera capienza per la quale il settore ospiti del Campo è omologato. Ne saranno venduti circa duecento, che – come detto – è un buon numero in considerazione dell’anonimo campionato della loro squadra e, soprattutto, della caterva di Daspo piovuti sulla testa delle due curve del Tupparello.

Quando manca una mezz’ora all’apertura delle ostilità ecco i tifosi ospiti arrivare a bordo di macchine e furgoni. L’ingente numero di agenti scongiura, francamente, anche possibili “cattivi pensieri” e, salvo qualche gesto e qualche invettiva, alla fine l’afflusso avviene regolarmente e senza problemi. A questo punto anche io posso (ri)entrare dentro lo stadio, ritirando il mio accredito e accedendo sul manto verde. Nella descrizione storica e sociale della città, ho evidenziato come Ragusa abbia secolarmente mostrato una natura benestante e per certi versi borghese, la cosa a mio modo di vedere si rispecchia anche parzialmente allo stadio dove, salvo il contingente ultras, non si registra generalmente il pubblico delle grandi occasioni, a confermarlo i circa seicento spettatori odierni. Di contro, dato che la qualità non si giudica dalla quantità, devo dire che mi intriga il fatto che c’è… chi deve esserci! Ogni tanto è anche bello assistere a un confronto dove gli ultras sono quasi gli unici protagonisti e, senza i quali, partite del genere avrebbero davvero poco senso di esistere. Così mi godo l’ingresso delle due fazioni, che sin da subito iniziano a beccarsi, tirando nella mischia anche i rispettivi gemellati di Paternò e Modica. In apertura di articolo parlavo del mio ricordo relativo agli iblei, fermo ormai a circa vent’anni fa, quando il club militava in C2, dando vita a quello che probabilmente da queste parti è il derby più sentito, contro il Vittoria. Altra epoca (basti pensare che quando le due compagini si sono incontrate di recente, la mannaia del divieto si è ovviamente abbattuta su di loro e, addirittura, ai vittoriesi negli ultimi anni è stata sempre interdetta la trasferta contro la Pro Ragusa), altra spensieratezza, altre libertà e altro modo di vivere il calcio la domenica. La desertificazione delle gradinate, è vero, può essere figlia del contesto sociale e del modus vivendi di una città, ma la burocrazia ha spesso tagliato nettamente tutta quella fetta di tifosi che normalmente frequentavano gli stadi come passatempo domenicale. Un connubio terribile se ci si mette anche la facilità nel vedere la Serie A dal divano di casa e la generale pigrizia divampata presso la nostra popolazione negli ultimi anni.

Sta di fatto che nella mia mente adolescenziale sono rimasti ben impressi gli striscioni di Gioventù Iblea e Manicomio, che a mio modo di vedere, a inizio anni duemila riuscirono a forgiare un bel movimento, lavorando molto anche sul fattore estetico. Gruppi – in particolar modo la Gioventù – che raccoglievano il testimone degli Eagles Supporters, insegna del tifo ragusano fondata nel 1987, quando andarono a prendere il posto di quello che in città è stato il primo gruppo a cercare di portare il tifo organizzato: i South Boys, nati nel 1983 e accompagnati, qualche stagione dopo, dal gruppo satellite dei Fegati Spappolati. Il nome degli Eagles, oltre a strizzare l’occhio al più celebre gruppo guida della Nord laziale negli anni ottanta, ovviamente affondava le proprie radici nella storia cittadina e in particolar modo nella sua effige, l’aquila che i normanni conferirono a Ragusa, andando a sostituirla agli antichi simboli con cui i siculi iblei per anni identificarono la città: una lucertola e una donna con testa turrita circondata da api (probabilmente a rappresentare il celebre miele ibleo). Un intreccio, quello tra calcio e storia, che da sempre trasforma un normalissimo sport di squadra in una ragione di vita e identità per molti. Tornando alla genesi del tifo ibleo va sottolineato come, dopo il fallimento del 2007, gli ultras si trasferiscano in Curva Nord, l’attuale settore ospiti. Due passaggi chiave sono sicuramente la nascita del gruppo Curva Nord Ragusa nel 2008 e il furto del suo striscione e di quello della Gioventù avvenuto nel 2010 proprio da parte degli acesi, facendo sì che il Manicomio tornasse nella Tribuna B, intitolata allo storico tifoso Emanuele Firrito, rimanendo l’unico gruppo alla guida della tifoseria.

Su questo gruppo credo sia giusto aprire una piccola parentesi, dato che con tutta probabilità ha avuto il merito di dare una sterzata all’intera tifoseria (anche cavalcando l’onda lunga dell’ottimo andamento sportivo di inizio anni duemila). Nato nel 2002, ha fatto il suo esordio in una delle trasferte più storiche per la tifoseria azzurra, quella di Lamezia del 7 aprile 2002, che suggellò la promozione in C2. Ragazzi provenienti dall’esperienza degli Irriducibili Virtus Ragusa (gruppo che seguiva la squadra di basket) che vollero inquadrare maggiormente le fila del tifo organizzato locale, realizzando dapprima uno striscione con il colore identificativo del gruppo (il grigio) e il logo che si rifaceva a quello della Banda Noantri della Lazio. Siamo in un periodo di rottura tra vecchie e nuove generazione, quindi non mancano divergenze e opposte vedute di curva con la Gioventù, tuttavia le due insegne vanno avanti e riescono a far cambiare marcia alla tifoseria. Come detto, un po’ per la storia calcistica non proprio prosperosa, un po’ per la sua natura borghese, Ragusa è una città siciliana atipica, tiepida e diffidente, dove portare avanti un discorso di aggregazione da stadio non è propriamente facile. Anche a causa di una Questura tra le più severe e rigide di tutto il Sud Italia. Per i ragazzi rimasti a guidare la Tribuna, i due fallimenti – malgrado un ritorno in D nel 2012 – che arriveranno a cavallo tra il 2014 e il 2016, non saranno certo d’aiuto e solo il club presieduto dal 2018 da D’Amico riuscirà a far risalire la china agli iblei, portando i colori azzurri dalla Promozione alla Serie D, ottenuta nel 2022. Intanto, nel 2020, nascono gli Ultras Iblei. Sigla che – contestualmente alla sospensione ancora in atto da parte del Manicomio – ha certamente il grande merito di guidare i supporter delle Aquile in casa e fuori, denotando un notevole impegno e una bella attitudine da stadio.

Il vento forte continua a imperversare sullo stadio, tanto da “costringere” i ragusani a non sventolare i loro bandieroni, tenendoli distesi a ogni soffio di Eolo. Quando le due squadre fanno il loro ingresso in campo, gli ultras azzurri li accolgono con un paio di fumogeni blu, bandiere e cori. Mentre anche su fronte ospite si comincia a sostenere un Acireale reduce da un’ottima serie di risultati, che l’hanno portato lontano dalle zone calde della classifica. I granata, posizionati dietro tutte le loro pezze, danno vita a un gran bel primo tempo, scandito da numerosi battimani e da cori tenuti abbastanza a lungo. Come detto, apprezzo molto il fatto che nessuno di loro abbia pensato ad autosospendersi o lasciar vuoti i settori dopo la repressione piovuta, ma è palese che chi è rimasto si sia rimboccato le mani e abbia voluto rispondere presente a qualsiasi chiamata del destino. Acireale è una di quelle piazze che da anni mangia fango tra campionati anonimi, società discutibili e una costante presenza nel mirino istituzionale “a causa” di un modo d’essere tutt’altro che quieto e arrendevole. Se è vero che parliamo di un centro abbastanza grande (70.000 abitanti) è pur vero che bisogna fare i conti sia con tutte questi aspetti che con il momento storico. Nella ripresa, con il Ragusa che si porta sul 2-0 e chiude virtualmente la partita, calano sensibilmente (e forse anche comprensibilmente), lasciando comunque sul mio taccuino la testimonianza di un’ottima performance.

E di gran bella prova canora bisogna dar atto anche gli ultras iblei. Forse anche oltre quanto potessi aspettarmi. I ragazzi della Tribuna B hanno praticamente sostenuto la loro squadra senza alcuna sosta per tutti i novanta minuti: bandiere, qualche fumogeno, manate compatte, cori a rispondere e una bella sciarpata finale. Il succo di quello che si dovrebbe fare ogni domenica dietro ai propri striscioni. Al triplice fischio richiamano ovviamente la squadra sotto al settore per festeggiare assieme, subodorando aria di salvezza tranquilla, cosa che da queste parti – visti i recenti e numerosi fallimenti – è tutt’altro che scontata. Mi soffermo a guardarli ancora un po’ (mentre sotto al settore ospiti, i giocatori si confrontano con i propri tifosi) e penso di essere soddisfatto nell’aver visto una sfida che praticamente si potrebbe riassumere con ultras contro ultras. In questi casi, quando la partita finisce, mi assale un po’ di malinconia, perché so che la giornata sta volgendo al termine e a breve dovrò fare sufficientemente di corsa per ritrovare la strada dell’aeroporto di Fontanarossa. Quarantotto ore volate, tra bellezze artistiche, curiosità antropologiche, narrativa calcistica, cibo e confronto ultras in uno stadio nuovo.

L’ultima istantanea Ragusa me la regala con un “simpatico” quanto patetico siparietto, consumatosi con gli agenti posti davanti alla tribuna coperta, che non vogliono farmi passare perché, secondo loro, potrei essere un tifoso ragusano infiltrato che vuol andare dagli ospiti. Per la seconda volta in poche ore gli faccio vedere la tessera stampa, parlando strettamente romano, malgrado non vogliano sentir ragione. Fortunatamente un funzionario più illuminato capisce la situazione e mi lascia andare scrollando la testa. La stanchezza comincia a farsi sentire e nuovamente le strade della Sicilia interna mi fanno da stupendo panorama ai lati. Ogni volta che me ne vado penso sempre di aver visto troppo poco, di aver perso qualche istante irripetibile. Il rammarico è sapere di non avere davvero abbastanza tempo, in una sola vita, per dire: “Io qua ho fatto e visitato tutto”. Quindi anche farsi un’idea completa resta una chimera. Bisogna vivere le sensazioni e poi metterle per iscritto, forse si riesce a restituire una piccola percentuale dei luoghi e delle emozioni. Ci rifletto mentre il mio aereo parte con quasi un’ora di ritardo, come di consueto per l’ultimo volo Catania-Roma. So che non è l’ultimo appuntamento con la terra sicula e ho assoluto bisogno di assaporarne ancora gran parte dell’anima, possibilmente nel suo aspetto più lontano da quello venduto ai turisti e trasformato in osceno parco giochi. Ci sarà modo e occasione, sebbene al tempo non occorra mai dare troppo tempo, perché prima o poi finisce!

Simone Meloni