L’arbitro ha appena fischiato la fine del derby tra Siracusa e Acireale. Una partita attesissima, che vede la presenza del pubblico acese dopo ben trent’anni (l’ultima volta si disputava il campionato di Serie C, che a fine torneo vide i granata promossi in Serie B, grazie al ripescaggio seguito all’esclusione del Perugia, con cui gli stessi avevano perso lo spareggio promozione). Gara a rischio, come tanto piace sottolineare oggi alle menti eccelse di Osservatorio et similia. Una rivalità storica, tra le più sentite della Sicilia. Qualcosa, quindi, da richiedere la logica ed elementare predisposizione di un servizio d’ordine ad hoc, oltre che di un’organizzazione semplice ma capillare per evitare qualsiasi turbolenza. Del resto parliamo pur sempre di una partita di Serie D e, per quanto accesa possa essere l’inimicizia, in un Paese civile anziché fare tante polemiche e parlare solo ed esclusivamente di divieti, si penserebbe a far filare tutto liscio, proprio per darsi merito dell’eventuale precisa efficienza.

Che le cose non andranno propriamente così lo si capisce proprio pochi istanti dopo il termine delle ostilità. Quando si decide di far defluire subito i supporter dell’Acireale, non predisponendo evidentemente alcun servizio d’ordine sufficiente a evitare il peggio e favorendo, anzi, disordini che poi puntualmente si verificheranno. La tenerissima Sophie, bambina intervistata da Gianluca Di Marzio perché in seguito a suddetti incidenti non voleva più tornare al De Simone, probabilmente ignora quanto ciò che ha visto sia figlio della scelleratezza di chi viene appositamente retribuito per garantire fondamentalmente tre cose prima, durante e dopo una partita di calcio: l’arrivo della tifoseria ospite, lo svolgimento del match senza tensioni e il deflusso tranquillo e separato dalla tifoseria di casa. Saltando anche solo una di queste tre “prerogative” si può tranquillamente dire che chi di dovere ha svolto male e in modo negligente il proprio lavoro. A chi in queste affermazioni vede un tentativo di difendere episodi di violenza rispondo con la solita solfa: i responsabili pagheranno sicuramente, anzi è ormai già notizia datata l’identificazioni di un cinquantina di ragazzi appartenenti alle due tifoserie. Pertanto è giunta l’ora di smetterla con il voler vedere solo quello che più fa comodo alle Questure o a un certo tipo di stampa, e chiedere a gran voce che ognuno si prenda le proprie responsabilità. Troppo facile scagliarsi solo ed esclusivamente contro i tifosi per poi emettere e giustificare divieti e limitazioni. Anche i sassi conoscono determinate rivalità e sanno cosa sia rischioso a livello di ordine pubblico. Far defluire assieme due tifoserie rivali e non convogliarle neanche separatamente è un comportamento folle e irresponsabile. Tutto il resto sono chiacchiere e belle parole, magari per edulcorare la strumentalizzazione che si fa con le piccole Sophie del caso, robetta da pubblicità di regime da quattro soldi.

Ancor più di prima, ribadisco l’assoluta necessità di far giocare tutte le partite a porte aperte. Senza limitazioni ma, semmai, con il giusto ed oculato servizio d’ordine. Continuare con lo stuolo – sempre più bieco e crescente – di chiusure rappresenta solo una vergogna a livello nazionale oltre che una palese ammissione di incapacità. O forse un neanche troppo velato tentativo di alleggerire i propri compiti lavorativi? Quando ci si imbatte in video di venti o trent’anni fa, perdendosi in quegli stadi pieni e ribollenti di passione, ma soprattutto nei settori ospiti stracolmi, viene quasi voglia di chiedersi come sia possibile che decenni dopo si siano fatti così tanti passi indietro in termini di libertà e vivibilità delle gradinate. Il fenomeno ultras ha abbassato nettamente la sua sfumatura violenta, così come il numero di persone che frequentano gli spalti sono vertiginosamente diminuiti (anche a causa delle politiche repressive e di un calcio che per varie ragioni tira sempre meno), eppure la narrativa ufficiale vuol sempre farci pensare che ci si trovi in un periodo eternamente emergenziale. Dove ogni mezzo – anche in termini di abuso – è giustificato per non far gridare allo scandalo la grancassa mediatica (e dei social) che ormai ha reso ipocondriaca buona parte della popolazione.

Il giorno che oltre al classico bollettino riguardante Daspo irrorati e denunce emesse in relazione a fatti da stadio, leggerò anche un’assunzione o un’attribuzione di responsabilità degli organi competenti sarà sempre troppo tardi. Ma tanto parliamo di utopia allo stadio puro. L’unica cosa che continueremo a leggere sarà: “Vietata la vendita dei tagliandi ai residenti nella provincia di XXX”. Massimo atto di coraggio da parte di lor signori, che poi in altre sedi vorrebbero educare i tifosi al rispetto e all’uguaglianza, quando da ormai quindici anni corroborano e inventano leggi, sanzioni e divieti basati sulla discriminazione territoriale e sulla repressione delle più basilari libertà di movimento!

E sì che questa partita meriterebbe ben altro commento, soprattutto da parte del sottoscritto. Almeno per come l’ho vissuta. Basti pensare che solo un giorno prima – su una tranquilla e assolata spiaggia romana, in preda agli ultimi scampoli d’estate – realizzo che dopo trentadue anni gli acesi potranno tornare a Siracusa. Malgrado lo scetticismo sul poter organizzare last minute un viaggio così complesso e generalmente mai economico, le miei doti da nomade errante mi aiutano e dopo una minuziosa ricerca che passa al vaglio praticamente ogni sito esistente di ogni compagnia di trasporto italiana e non solo, trovo una soluzione che mi esalta: andata in aereo fino a Catania (incredibilmente trovato all’irrisoria cifra di 15 Euro, meno di un giorno prima della partenza) e pullman per Siracusa. Al ritorno treno fino a Messina, traghetto per Salerno e da là treno per Roma (con il perfetto incastro di orari che mi permetterà di esser presente all’Olimpico per il match tra i giallorossi e il Servette). Qualche chiamata per trovare una buon’anima che all’alba mi accompagni a Fiumicino permettendomi almeno di dormire un paio d’ore in più e il dado è tratto. Per la prima volta metterò piede allo stadio De Simone.

Non è la prima volta, invece, nella città di Archimede. Considerata la sua bellezza e la sua accoglienza mi permetto di inserire nell’articolo anche alcuni scatti che vanno oltre il contesto calcistico. Dal parco archeologico – uno dei più vasti e ricchi d’Europa – al Castello Maniace, alle passeggiate nel cuore di Ortigia, l’isola barocca che rappresenta il cuore storico della città, alla maestosa Piazza Duomo. Fino ad arrivare all’acqua turchese del mare, proprio a picco sotto le mura cittadine, dove a inizio ottobre non posso rinunciare a farmi un bagno, godendo del caldo e piacevole sole per un prepartita a dir poco coi fiocchi.

Non sono un amante del turismo di massa, che ritengo nocivo soprattutto per come viene fatto e pensato nel nostro Paese, ma capisco appieno il perché in tanti vogliano venire quaggiù. La quarta città dell’isola per grandezza, l’antica Capitale della Sicilia, nonché uno dei centri più importanti della Magna Grecia, è un bel vedere sotto tutti gli aspetti. E anche un luogo dove la commistione tra ultras e antropologia ha da sempre costituito una parte fondamentale. Malgrado la squadra di calcio locale conti diversi fallimenti e negli ultimi anni ormai ci abbia abituato a un triste saliscendi tra categorie dilettantistiche e professionismo (al cospetto di una storia caratterizzata da tantissime presenze in Serie C e soprattutto da sette campionati cadetti disputati a cavallo tra gli anni ’40 e i ’50), resta un punto di riferimento per i siracusani. Ammetto di esser cresciuto con l’ammirazione – almeno visiva – dei South Landers. Un gruppo di cui apprezzavo profondamente il nome (uno dei tanti originali nell’Italia del tifo dell’epoca) e il portamento, caratterizzato dal materiale sempre curato e mai banale. Tratto distintivo per tanti anni a queste latitudini. Degli autoctoni mi ha sempre affascinato anche il soprannome di aretusei.

Un qualcosa che affonda fieramente le radici nella storia cittadina e che conserva ancora oggi quell’aura di magia dovuta alla storia che si cela dietro. Chi ha avuto modo di visitare Siracusa avrà certamente avuto modo di vedere la Fonte Aretusa, un luogo per certi versi magico per la leggenda che lo ammanta e molto particolare da un punto di vista prettamente geologico e naturalistico, essendo uno specchio di acqua dolce derivante da uno dei tanti sfoghi della falda freatica siracusana (non a caso il nome della città dovrebbe derivare dal termine in lingua sicula Syrako, letteralmente “abbondanza d’acqua”) nonché uno degli unici due luoghi in Europa (l’altro è Fiumefreddo di Sicilia, in provincia di Catania) dove crescono spontaneamente piantagioni di papiro.

Tornando alla mitologia greca penso sia bello raccontare la leggenda di Aretusa e Alfeo, stretta indissolubilmente a questo piccolo spaccato di Ortigia: Aretusa era una ninfa conosciuta in tutta la Grecia per la sua bellezza e venne allevata fin dalla tenera età da Artemide, dea della caccia e delle fanciulle. Un giorno dopo una lunga corsa tra i boschi, Aretusa decise di rinfrescarsi in un bellissimo corso d’acqua, si tolse le vesti e si concesse un bagno. A un tratto sentì dei rumori e, spaventata, uscì dall’acqua iniziando a correre velocemente. Una voce le intimò di fermarsi: era Alfeo, la divinità del corso d’acqua, rimasto colpito dalla sua bellezza.

Alfeo iniziò a inseguirla e lei, non avendo più le forze per correre, chiese aiuto ad Artemide. Questa la avvolse in una nuvola e soffiò forte in direzione della Sicilia per metterla a riparo. Arrivata a Ortigia, la nuvola iniziò a far cadere Aretusa che si trasformò in un sorgente d’acqua dolce.

Alfeo, innamorato di lei e volendola raggiungere, chiese aiuto al padre Oceano il quale aprì le acque dello Jonio permettendogli di raggiungere la Sicilia. Aretusa, convinta da tanto amore e insistenza, cedette alle richieste di Alfeo. Artemide, per suggellare il loro amore, scavò una caverna sotto la fonte, così da far correre per l’eternità le acque di Aretusa e Alfeo.

Il tratto mitologico legato alla Fonte lascia intendere ancor più quanto le radici di Siracusa siano ben ancorate a un passato glorioso e di quanto oggi – anche a fronte dei suoi 110.000 abitanti – la rendano un crocevia fondamentale per tutta la regione. E riscontrare sugli striscioni da stadio, nei giornali sportivi o anche nei cori offensivi degli avversari, la parola “aretuseo” lascia quasi un senso d’orgoglio, per una storia e una tradizione che fa dell’Italia un posto oggettivamente unico, sebbene spesso barbaramente stuprato e depredato un po’ dai suoi amministratori, un po’ dai suoi stessi cittadini.

Malgrado l’immersione nelle splendide acque siracusane e nella loro millenaria storia, c’è un derby ad attendermi. Col sole che alle 13:30 picchia forte e la moltitudine di autoctoni e tedeschi impegnati e nuotare, un po’ a malincuore abbandono gli scogli di Ortigia per concedermi un paio di arancini e poi avviarmi allo stadio. È mercoledì, quindi non so esattamente quale cornice di pubblico aspettarmi. Ma tutto mi lascia pensare che per molti varrà la pena fare un’eccezione anche al lavoro e non mancare. Anche perché, sportivamente parlando, i Leoni sono partiti forte e occupano il primo posto in classifica, facendo sperare in un ritorno in quel professionismo abbandonato nel 2019 per motivi tutt’altro che calcistici. Quindi la motivazione è doppia.

Mi lascio alle spalle il centro cittadino e lentamente mi inoltro nelle vie “moderne” che portano al De Simone per arrivare nel cuore del quartiere Santa Lucia, anche conosciuto come Borgata. Lo storico impianto aretuseo è incastonato tra le case, restituendo un’immagine molto retrò e popolare. Basti pensare che per raggiungere l’ingresso principale passo dapprima di fronte al settore ospiti, ammirando le due porticine d’entrata letteralmente compresse e inglobate dai palazzi circostanti, e poi affianco a una scuola dove un nugolo di genitori sta aspettando la campanella per prelevare i propri fogli. Infine scendo le scalette che mi portano proprio di fronte all’ingresso principale, dove su un’arcata monumentale spicca la scritta Stadio Vittorio Emanuele III. Per chi non lo sapesse ci troviamo di fronte a uno degli stadi più vecchi di tutto il Sud Italia. Inaugurato nel 1930 come Stadio del Littorio (progettato peraltro da Raffaele Leone, architetto noto per aver lungamente militato nel Partito Popolare e aver perorato la causa antifascista, oltre che per essere anche il padre dello stadio Cibali di Catania) fino agli anni settanta ha avuto la particolarità di possedere un terreno composto per metà da terra battuta e per metà da pietra lavica. Tra queste quattro tribune gli aretusei hanno vissuto i gloriosi anni della B e i disastrosi fallimenti che hanno condotto il club nel dilettantismo. Due curiosità: ai tempi della cadetteria, il Licata giocò qui il derby contro il Messina. Mentre il record di spettatori è di 12.000, registrato in un derby contro il Catania nel 1979. Attualmente la capienza è stata ridotta a poco meno di 6.000 spettatori.

Per me, da sempre amante degli stadi genuini, è senza dubbio un bel vedere. Peraltro a poche centinaia di metri dall’ingresso noto un ingente numero di ultras locali, intenti a dar vita al loro prepartita tra birre, cori e prodotti tipici siciliani. Considerazione a margine: chi non ha mai calcato la scena sicula (e non solo quella dei tifosi) può davvero immaginare con difficoltà quale aria si percepisce nelle città, nei borghi e nelle strade dell’isola. Sembra di tornare indietro di qualche decennio. E non solo per la quasi mancanza di frenesia, ma anche per il modo di vivere la quotidianità. Beninteso: non sto parlando di arretratezza o di altri aspetti negativi che in certi comparti, indubbiamente, spiccano sul territorio siciliano. Ma sto parlando del piacere vero e proprio di vivere la vita, i rapporti sociali e il proprio territorio. Inoltre l’impressione che ho di Siracusa e dei suoi ultras – volendo tornare nel nostro campo – è quella di trovarmi di fronte a una piazza tutt’altro che morbida e accondiscendente. Basta dare un’occhiata alle tante scritte che campeggiano sui muri dello stadio e in quelli attigui: tematiche curvaiole e non solo, affrontate sempre con un certo oltranzismo, il che – parliamoci chiaro – magari non paga spesso in termini di longevità, ma all’occhio di tutti noi che ci siamo avvicinati alla curva da sbarbatelli turbolenti, fa sempre un certo piacevole effetto! Noto tanti giovani e dal loro sguardo intuisco che qua ognuno sa il fatto suo. Poche parole, poche confidenze e tanta sostanza. Che poi, sia chiaro, dev’essere una costante anche per l’altra tifoserie che oggi mi troverò di fronte. Quegli acesi che nel tempo hanno sempre dato dimostrazione di durezza e ruvidità, oltre che di attaccamento. Proprio per questo, direi sarcasticamente, assistere a un derby del genere nel 2023 sembra troppo bello, quasi “fuori luogo”, rispetto alla società fintamente educata e benpensante a cui siamo abituati.

Quando manca un quarto d’ora al fischio d’inizio decido che è il momento di entrare. Provo, invano, a passare per il varco accrediti. Busso ripetutamente ma nessuno rispondere. Pazienza, mi metto in coda con tutti e devo dire che la fila scorre velocemente, tanto da trovarmi sul terreno di gioco quando mancano poco meno di dieci minuti all’inizio. La Curva Anna (dedicata ad Anna Rametta, storica figura del tifo aretuseo, mamma di Carmelo, noto esponente dei South Landers scomparso proprio questa estate) presenta tutte le proprie insegne, in una ritrovata e sempre bella unità di Curva. Ammetto di non conoscere menadito le vicissitudini del tifo locale, quindi non mi inoltro in considerazioni inappropriate: sottolinea solo come l’esser tornati a tifare tutti assieme, secondo il mio punto di vista, abbia fatto bene e sia un punto di ripartenza per tutta la tifoseria siracusana. Credo sempre che in realtà non metropolitane sia alla lunga controproducente frammentarsi, sebbene ognuno abbia i suoi sacrosanti motivi per farlo. Sta di fatto che già dai primi battimani il segnale è chiaro e forte: la Siracusa Ultras sarà protagonista in questa stagione.

Ho un ricordo degli aretusei leggermente sbiadito dal tempo. L’unica volta in cui li ho visti all’opera: Turris-Siracusa, Serie D 2005/2006. Il buon manipolo di siciliani giunti al Liguori fece ovviamente fatica a farsi sentire, dietro al classico vetro in plexiglass dell’impianto corallino che negli anni ha mietuto vittime anche tra tifoserie numerose. Da allora sono passati davvero tanti anni e si sono avvicendati gruppi e generazioni, quindi in questo mercoledì per me è quasi una prima assoluta.

Le due squadre fanno il loro ingresso in campo. Noto che gli acesi sono arrivati e sono alle prese con la perquisizione. La Curva Anna si colora con una bella – e sempreverde – fumogena blu. Mentre va lentamente riempiendosi. Alla fine il colpo d’occhio sarà di quelli importanti (ancor più considerato il giorno feriale), con circa trecento supporter provenienti da Acireale. E manco a dirlo la sfida degli spalti si accende proprio al loro ingresso. Le due fazioni immediatamente si beccano, chiamando in causa anche i rispettivi gemellati di Castellammare di Stabia e Torre Annunziata. Come dico sempre in questi casi: dolce musica per le mie orecchie sentire due curve che non se le mandano a dire e non hanno dimenticato le storiche acredini. Anche la tribuna coperta alle mie spalle si fa sentire, chiudendo alla perfezione il cerchio di un ambiente davvero bello e infuocato.

Oltre agli sfottò, ovviamente, c’è anche la gara del tifo. Aspetto che mi sento di promuovere a pieni voti su ambo le curve. Voce, mani, bandiere, fumogeni, sciarpe e partecipazione per la tifoseria di casa, che spinge la propria squadra al successo (3-1 il risultato finale) e suggella una prova maiuscola festeggiando con la squadra dopo il triplice fischio. Cori più secchi, alternati a quelli ritmati dal tamburo, e petti nudi sotto al caldo cocente per i granata di Acireale, che manco a dirlo cantano ininterrottamente e provocando a più riprese i dirimpettai. Insomma, un derby. In tutte le sue sfaccettature, senza nulla da recriminare per il sottoscritto. Il viaggio (soprattutto la traversata del ritorno) è valso assolutamente la pena. Senza dubbio una delle cose che più mi fa piacere notare è la poca propensione alla “sceneggiata” da parte delle opposte fazioni: chi vive di stadio sa bene di cosa parlo e sa quanto si percepisca già durante i novanta minuti il voler essere protagonisti “social” più che ultras magari ruvidi, ma sicuramente più genuini. E qua mi ricollego a quanto detto in precedenza: queste zone d’Italia su certi modi d’essere sono rimaste ferme a qualche anno fa. Buon per loro aggiungo!

Sul post partita mi sono ampiamente espresso. Aggiungo solo che quando vedo le porte aperte a pochi minuti di distanza dal termine della gara resto alquanto allibito, pensando tuttavia ci sia una volontà logica e tendenziosa dietro. E in questo mi scuso, evidentemente non riesco ancora a capacitarmi della totale incapacità di leggere e gestire situazioni che, tutto sommato, sono simili se non uguali in ogni stadio del Mondo!

Per me è giunta, dunque, l’ultima parte del viaggio. Che come detto sarà la più ardua. Ma anche quella in cui potermi rilassare, riguardare le foto, leggere e ripensare a tutta la giornata. Il mio treno sferraglia lentamente verso Messina, coprendo una distanza di circa 170km in poco meno di tre ore. Ovviamente mi sono fatto bene i conti e posso dormire sonni tranquilli, avendo il traghetto per Salerno alle 2:30 di notte. Traghetto che, per giunta, segna il mio esordio ufficiale su questa tratta. Un viaggio da incorniciare, considerato che sulla nave sarò l’unico passeggero – nonché l’unico ad acquistare l’economico passaggio ponte – tutto il resto della ciurma è composto da autotrasportatori, che logicamente hanno optato per una cabina dove dormire e riposarsi in vista del massacrante lavoro che l’indomani li aspetta.

Quando mi addormento il traghetto è da poco salpato e si avvia verso la Campania (nove ore di viaggio). Mi addormento, in preda alla stanchezza, risvegliandomi con la visuale di Salerno in lontananza. Mi aspettano ancora diverse ore di treno, ma la soddisfazione di aver vissuto alla mia maniera questa partita è tanta e supera ogni fatica. Mi rimane l’amaro in bocca solo per un fatto: la raffica di divieti che arriverà dopo questa giornata, abbinata all’accanimento verso le due tifoserie. I media locali si sono già affrettati a diffondere morbosamente video e foto, scrivendo titoli a nove colonne in cui si critica addirittura per non aver vietato la sfida agli ospiti. Non ci sarebbe da sorprendersi, ma fa sempre rabbia notare come un certo giornalismo nostrano remi incredibilmente e vergognosamente contro l’indole critica e analitica che dovrebbe animarlo. Il che non vuol dire, ovviamente, giustificare nulla. Ma neanche farci passare la Sophie di turno come ennesima vittima degli ultras.

Una volta arrivato a Roma, prima di guadagnare la strada per l’Olimpico, decido di ammazzare il tempo visitando le Terme di Diocleziano. Che poi sono il motivo per cui la stazione Termini si chiama così. Un posto poco conosciuto e poco battuto anche dai turisti. Per questo sempre “simpatico” da vedere. Lascio il mio zaino e il suo peso nel guardaroba e mi inoltro tra le rovine splendenti, ammirandone la storia e la bellezza. Un gesto che è forse la rappresentazione massima delle mie ultime ventiquattro ore!

Simone Meloni