Il caldissimo pomeriggio che a fine maggio del 2017 mise di fronte la Roma e il Genoa è universalmente ricordato come la gara di addio al calcio di Francesco Totti. Per me, solo per me, resta invece la “partita di De Bartolo”. E per capire il motivo di questo appellativo bisogna fare due salti indietro: uno di oltre venti anni, l’altro di sette. Nel primo mi rivedo adolescente davanti alle emittenti private romane, con la Roma in procinto di vincere il suo terzo scudetto e l’etere capitolino letteralmente impazzito. Tra questi credo per tutti sia impossibile non ricordare Orazi e Curiazi, condotto da Antonio De Bartolo e caratterizzato dalle sue frasi a effetto e dalle espressioni esilaranti. La lettura della classifica che in genere avveniva con il classico “Roma al primo posto, Piemonte (la Juventus, che il buon De Bartolo non voleva nominare) e poi tutti giù all’inferno!” o la chiusura del programma contraddistinta dall’immortale “Fortissimamente Roma”, esclamata dal suddetto. Un modo di fare televisione lontano decenni dalle scimmie urlatrici moderne, persino più morigerato e sobrio – pur essendo cronache e riflessioni di chi non ha mai nascosto la propria fede -, sicuramente più signorile. Oggi, a distanza di tanti anni, non riesco più a seguire una trasmissione sportiva, anzi, spesso se di “struscio” mi capita di vederne una sono quasi infastidito, tanto si sono ridotte a teatrino da intrattenimento, dove quasi sempre di tutto si parla tranne che di calcio.
Antonio De Bartolo è stato una di quelle voci in grado di cavalcare sempre egregiamente il confine tra eccesso e cronaca. Un tifoso prima di tutto, uno che la Roma l’ha vista e seguita con il cuore e per la quale soffriva e gioiva. Me ne accorsi proprio in quel caldo pomeriggio di fine maggio, sette anni fa. Con la squadra allora allenata da Spalletti costretta a vincere contro un Genoa già salvo e senza alcun obiettivo. Partita tutt’altro che semplice, con i liguri che dopo 3′ conducevano già grazie al gol di Pellegri. Alla fine solo uno spunto di Perotti al 90′ riuscì a fissare il risultato sul 3-2, dando a Totti la possibilità di chiudere in bellezza. Ma la vera “notizia” di quel pomeriggio fu la reazione del mitico De Bartolo che, scambiandomi per tifoso genoano, si alterò con me dopo un gol dei rossoblù, confondendo le mie mani nervosamente e in modo sconfortante portate sulla testa per un’esultanza. Solo alla fine, solo al 90′, quando mi vide saltare in piedi al guizzo di Perotti, capì l’errore, venendo giù, abbracciandomi “fortissimamente” e scusandosi mille volte. Tra le mie risate. Io che queste cose le amo, che la veracità e la dimostrazione di attaccamento le vedo come un pregio, ovviamente avevo apprezzato tutto il siparietto. Lui lo colse e da allora ogni volta che ci siamo incontrati all’Olimpico mi lanciava la battuta, invitandomi anche in trasmissione. Invito che, a causa della mia idiosincrasia verso il mezzo televisivo, non ho mai accettato. Sebbene col suo programma ci fossi cresciuto e ne avessi magnifici ricordi, soprattutto in quella stagione culminata con festeggiamenti durati tre mesi. Tipico eccesso romano e romanista, aspetto che lui incarnava alla grande.
Avevo saputo della malattia. Avevo gioito nel rivederlo allo stadio in questa stagione. E la sua scomparsa è stata un colpo al cuore, un altro pezzo di tutto quello che amiamo del calcio “vero” e un tifoso romanista persi per sempre. Pochi giorni dopo un altro monumento del giornalismo austero e passionale che fortunatamente questa città ha conosciuto: Alberto Mandolesi. Altra voce della nostra infanzia e altro tassello che mai nessuno avrebbe voluto veder volare via. Quando i cronisti non erano starlette, quando l’emittenza privata riusciva a restituire quadretti un po’ folkloristici ma spesso – come in questo caso – anche professionali, tutti avevamo un qualcosa in più nelle nostre vite. Ci si ricorda di chi è riuscito a comunicare con il cuore, di chi è riuscito a trasmettere le proprie emozioni svolgendo un lavoro difficile, criticato e spesso abusato come quello del giornalista. Eppure io ricordo nitidamente quelle serate davanti alla tivvù. Ricordo Claudio Rosi su TVA40 che mandava immagini delle due curve capitoline, leggendo spesso striscioni (anche scomodi) e penetrando con la sua voce profonda nel telespettatore, o il buon Claudio Maggiolini che – nessuno me ne voglia – tutto faceva tranne che raccontare la partita, ma i cui spasmi e respiri pesanti quando la Roma era in attacco la dicevano lunga su come potesse vivere i novanta minuti. C’erano poi gli Eolo Capacci o gli Enzo Mariani, che con la sua giacca biancoceleste raccontava senza sosta le vicende di una Lazio vincente e forte in quegli anni. O i Claudio Moroni, che trasformò una “toppa” presa tanti anni prima – quando disse a un tifoso che la Roma avrebbe acquistato Beckenbauer – in autoironia, chiudendo tutte le sue conduzioni con “Arrivederci e Beckenbauer”. Sapete che c’è? Magari a volte si trovavano personaggi raffazzonati, ma sicuramente più autentici. E comunque formati, consapevoli della loro professione e in grado di argomentare tutto senza cadere mai nel banale.
Questo articolo, dunque, lo voglio dedicare ad Antonio De Bartolo e Alberto Mandolesi, convinto che nella passione nel seguire il calcio e la Roma abbiano anch’essi giocato un piccolo, ma fondamentale, ruolo nella mia vita. La serata di Roma-Feyenoord, la vittoria anti-storica ai calci di rigori, lo stadio completamente giallorosso (anche a causa delle solite, vergognose, decisioni delle autorità competenti) sono tutti per loro, che sicuramente avranno apprezzato e gioito. Una vittoria arrivata all’ultimo minuto. “Al suo ultimo minuto” citando proprio la celebre telecronaca di Mandolesi relativa all’ultima partita disputata con la maglia giallorossa da Cerezo: la finale di Coppa Italia contro la Samp, nel 1986. Il suo gol allo scadere assegnò alla Roma il trofeo e consegnò all’eternità le immagini e la voce del cronista.
Fortissimamente all’ultimo minuto!
Simone Meloni