C’è poco da fare: una sfida da stadio è tale solo quando ci sono entrambe le fazioni. Non lo scopro certo ora, ma ne ho l’ennesima conferma in questa serata di inizio novembre, in cui la Roma ospita il Lecce nel posticipo delle 18. Si tratta di una di quelle partite che ha sempre acceso le mie fantasie in fatto di tifo. Sarà perché – in generale – i salentini oltre a presenziare sempre in buon numero, hanno sovente tirato fuori performance maiuscole, nonché pregne di torce e fumogeni. Sarà perché, a differenza di altre tifoserie che giungono all’Olimpico in modo corposo, i leccesi, guidati dal direttivo della Nord, hanno sempre mostrato la giusta sfrontatezza per fomentare anche i tifosi più mansueti.

Sta di fatto che quella di questa sera è una di quelle partite in grado di lasciarmi soddisfazione per quanto visto e sentito sugli spalti. Partiamo da principio: qualche tensione registrata lungo la via tra giallorossi e brindisini e la loro assenza a inizio partita mi induce a pensare che, per causa di forza maggiore, stasera non saranno al loro posto. Sarebbe, peraltro, un remake di quanto successo nel febbraio del 2020, quando in seguito ai noti incidenti con i baresi, i supporter salentini non giunsero mai a destinazione. La sensazione prende corpo durante i primi 45′, quando – di fatto – nel settore ospiti non ci sono che tifosi “normali”. Inseriti alquanto silenziosamente in una cornice che, già nel primo tempo, si mostra in salute e vogliosa di aiutare una squadra reduce dalla sconfitta di Milano con l’Inter, e quindi bisognosa di vincere per non cominciare a guardare troppo da lontano le zone alte della classifica.

Quando l’arbitro fischia la fine della prima frazione, nella parte bassa del settore ospiti diversi tifosi cominciano a salire, lasciando ancor più vuoto uno spazio che sin dall’inizio era rimasto inoccupato, come a voler ricordare l’assenza di chi domenicalmente rappresenta il motore e l’anima del tifo. Il movimento lascia intendere proprio un tentativo di rimarcare questo concetto. Invece, qualche minuto più tardi, una masnada di persone fanno il loro ingresso in fila indiana: sono gli ultras. Motivo del loro ritardo? A quanto sembra un eccesso di zelo da parte della polizia capitolina, che ha tentato – riuscendoci – in tutti i modi di ritardarne l’entrata. Volano i primi fischi dello stadio e, una volta che il contingente si è sistemato, appendendo le proprie pezze e sistemandosi sulla balaustra per coordinare il tifo, comincia la vera partita odierna. L’Olimpico – sentendosi provocato dai primi boati di marca salentina – alza i decibel, con la Sud che “saluta” i dirimpettai e la Nord, che come sempre, provvede a far scaldare il settore. Un’alchimia vecchia quanto è vecchio il mondo del tifo organizzato, tutto quello che qualcuno vorrebbe distruggere e metter da parte: il confronto.

Malgrado gusti, opinioni, fedi e punti di vista, non si può negare che in sfide come queste si fronteggino realtà storiche del nostro Paese, che in epoche differenti e per diverse ragioni, hanno spesso fatto tendenza. Gli Ultrà Lecce, peraltro, stanno entrando nella settimana che segnerà il loro ventisettesimo anno di attività (10 novembre 1996), quasi sei lustri che hanno formato e trasformato la Nord del Via del Mare, rendendola sicuramente uno degli spazi più complessi, talvolta settari, ma sicuramente rispettati del tifo italiano. Anche la giornata di oggi ha evidenziato per l’ennesima volta la loro “natura”: tra i primi cori urlati al cielo non hanno lesinato di dedicarne diversi alla repressione.

Tornando alla partita, dicevo di un Olimpico che non ci sta a farsi “cantare in faccia”, come si suol dire. La frangia ultras scuote i presenti, che in più occasioni raccolgono l’invito. La Roma va in svantaggio, quando mancano poco più di venti minuti al novantesimo, e tutto comincia a lasciar presagire che da un punto di vista sportivo non sarà un serata memorabile per i sessantamila presenti. Eppure, forse in preda a una foga “agonistica” che a volte coinvolge anche i ragazzi di curva, si continua a cantare nella speranza e nella consapevolezza di voler quantomeno salvare l’onore. Al cospetto di un settore ospiti che ripetutamente brandisce i suoi cavalli di battaglia in fatto di tifo e riecheggia quasi imponente.

Il finale è di quelli al cardiopalma, come da copione per la Roma di Mourinho. Il novantesimo è già scaduto quando l’iraniano Azmoun con un’inzuccata trova il pareggio, restituendo ai tifosi di casa almeno la piccola soddisfazione di non uscire sconfitti. Di certo nessuno scommetterebbe un copeco su quanto succede qualche minuto più tardi, quando la palla arriva tra i piedi di Lukaku (che in avvio di partita aveva fallito un calcio di rigore) che la controlla, avanza e la scaraventa alle spalle di Falcone, facendo letteralmente esplodere uno stadio incredulo. L’esultanza è certamente di quelle memorabili (e non potrebbe essere altro, considerato come è arrivata la vittoria) e va avanti per diversi minuti, fungendo da vera e propria cartina al tornasole di ciò che il calcio rappresenta per noi tutti nel bene e nel male. Qualche torcia vola dal settore ospiti in direzione Curva Nord, e anche questo è parte integrante di quello spettacolo “completo” di cui facevo menzione in fase iniziale.

Arriva il triplice fischio e con esso il liberatorio “Grazie Roma”. I leccesi, ovviamente e comprensibilmente storditi dall’esito della partita, riprendono fiato e chiamano la squadra sotto al settore, per ringraziarla di una prestazione che probabilmente avrebbe meritato almeno un punto. Resta l’immagine di uno stadio rude, in grado di scaldarsi e di controbattere colpo su colpo a una tifoseria ospite altrettanto notevole e “rognosa”. In fondo lo spettacolo principale è proprio questo, peccato che il sistema calcio se ne allontani sempre più e faccia di tutto per incentivare e ingrassare solo ed esclusivamente i propri interessi o, peggio ancora, le palesi pantomime politiche che di tanto in tanto si consumano ai vertici di leghe e federazioni.

Resta la purezza di chi crede in un coro scandito con l’ultima razione di voce. Resta la gioia, la delusione (e forse l’ingenuità), di chi – parafrasando Nick Hornby – sa che “senza tutto quel casino fatto, a chi interesserebbe del calcio?”.

Testo Simone Meloni