Scegliendo come ormai di consueto di entrare a pochi minuti dal fischi d’inizio, per evitare il supplizio della gracchiante lettura delle formazioni e – se possibile – di almeno una parte dell’indecoroso show di luci, faccio il mio ingresso proprio con gli ultras del Verona, che vanno ad aggiungersi al resto del contingente ospite già presente all’Olimpico. La prima considerazione che mi viene spontanea è sulla loro corposa presenza, circa cinquecento. A memoria non ricordo una loro trasferta così numerosa nella Capitale e ovviamente la cosa non può che far piacere, oltre a stimolare il sano confronto, come dimostrato dalle innumerevoli provocazioni piovute dal muretto lato ospiti della Curva Nord, oggi ben popolato a causa degli abbonati “esiliati” dalla Sud per la riduzione della capienza al 50 percento.

A tal proposito, questa dovrebbe essere l’ultima partita con suddetta restrizione: malgrado l’ampliamento al 75 percento sia già in essere, la società non ha fatto in tempo a rimodulare gli ingressi (la pubblicazione in Gazzetta delle nuove normative Covid è infatti avvenuta proprio nella notte tra venerdi e sabato), rendendo comunque pubblico che dalla prossima partita interna contro l’Atalanta, tutti i tifosi costretti a cambiare settore potranno fare ritorno nello storico feudo del tifo organizzato romanista. Ivi compresi i Fedayn, che anche oggi hanno lasciato il proprio muretto vuoto.

Commentare questa giornata senza tenere conto dell’andamento del match è un po’ difficile: la Roma va quasi subito sotto di due reti e ovviamente ciò rende assai difficile sostenere la squadra come nulla fosse. Sebbene la Sud si faccia in quattro per mettere nero su bianco una filosofia che in quest’annata sembra essere imprescindibile per i supporter capitolini: sostegno e seguito a oltranza prima di tutto. Sicuramente la dimostrazione d’amore incondizionato è da ammirare, un tentativo di dare equilibrio a una piazza che di equilibri ne ha sempre vissuti pochi e che sulla sua isteria collettiva ha costruito il terreno per molte disfatte e insuccessi. Dall’altra parte c’è tutto un discorso lungo e complicato da fare su chi scende in campo e su chi gestisce la società. I primi sono ormai da anni i responsabili principali di ogni iperbole negativa. Protagonisti che inspiegabilmente godono di una strana immunità; coccolati, accarezzati e perdonati pure laddove andrebbero solo contestati. A prescindere da qualsiasi atteggiamento opportunistico e furbo (vedasi mielose dichiarazioni verso la piazza o plateali gesti per accaparrarsi le simpatie dei tifosi). Spesse volte addirittura idolatrati a “scatola chiusa”, attesi in aeroporto malgrado debbano ancora dimostrare il proprio valore.

I fischi della Sud all’intervallo e a fine partita sono per loro. Così come la fiducia illimitata riposta in Mourinho è presto spiegata: si cerca qualcuno in grado di dare ordine e ristabilire le gerarchie. Benché anche per il portoghese appaia davvero arduo il compito e non sempre potrà funzionare il vecchio gioco di spostare l’attenzione sul “nemico esterno”, quest’anno rappresentato dagli arbitri e quindi dal “sistema”. Mi limito a dire che in ogni marchingegno dove di fatto si insinua il potere, se proprio si vuol ostacolare qualcuno, tramando alle sue spalle e tendendogli trappole, di certo non lo si fa con chi per il potere stesso rappresenta un pericolo flebile. Quasi nullo. A buon intenditor poche parole.

Sarà la società, al termine di questo torneo, a chiarare le sue vere intenzioni. A lasciar intendere se l’ingaggio di Mourinho è stato un modo per anestetizzare il malcontento della piazza o il viatico per gettare le basi sportive dei prossimi anni. È chiaro che ci voglia pazienza ed è chiaro che le macerie lasciate dai precedenti gestori siano ancora tremendamente presenti e interferiscano con qualsiasi lavoro di ricostruzione. Ma ciò non può e non deve fungere da scusa. Atteso che ogni tifoso normodotato non si aspetta certo le finali di Champions e la lotta scudetto ogni anno, ma almeno la dignità di non andare allo stadio con la depressione in tasca, sapendo già che con buona probabilità a fine anno sarà costretto a raccogliere i cocci dell’ennesima stagione fallimentare e/o vedere l’ennesimo cambio alla guida tecnica perché così hanno deciso i giocatori. A loro va assolutamente tolto ogni potere decisionale. Questa dev’essere la prima correzione dell’ordine gerarchico. Il calcio è un’azienda? Bene, allora dove si è mai vista un’azienda in cui a scegliere manager e dirigenti sono operai e manovali?

Il fatto che la partita di oggi sia stata raddrizzata un po’ per le ingenuità del Verona e un po’ grazie a Volpato e Bove – altri due ragazzi sfornati dall’ormai eterno lavoro della Primavera di Alberto De Rossi – la dice lunga su quanto la maggior parte dei giocatori di questa rosa siano discontinui, svogliati e poco propensi al sacrificio. E mi si lasci dire che le tante assenze c’entrano ben poco. In altre piazze, rose dello stesso livello se non inferiori, affrontano gli impegni con il fuoco dentro. Sopperendo anche ai propri limiti. Il “parco giochi” Roma funziona invece diversamente.

Per quanto riguarda l’aspetto prettamente ultras: buona prestazione dei veronesi, soprattutto nel primo tempo. Belle le due sciarpate e i bandieroni sventolati di tanto in tanto. Unica considerazione che mi sento di fare: non ho apprezzato particolarmente il passaggio dalle classiche pezze allo striscione Hellas Army. Da loro – che dal post BGB in poi ne avevano fatto un cavallo di battaglia – non mi sarei aspettato una sorta di “allineamento” al resto del mondo ultras. Posto che la Sud scaligera avrà avuto le sue buone ragioni e il nome scelto richiama comunque alla storia del tifo gialloblu, esteticamente li preferivo prima. Tuttavia è una mera questione di gusti personali. Quantomeno hanno mantenuto la loro compattezza non scadendo mai in sedicimila divisioni che hanno reso alcune tifoserie (anche blasonate) davvero impresentabili.

Come accennato in campo finisce 2-2. Nel prossimo turno la Roma è attesa dallo Spezia (trasferta inedita per i tifosi giallorossi) mentre il Verona dal derby con il Venezia.

Simone Meloni