Ci sono tante città dalla bellezza un po’ sofisticata, pretenziosi salotti bohémien in cui, come diceva giustamente Andy Warhol, viene prodotto anticonformismo di massa a masse “hipsteriche” che per moda vogliono apparire anticonformiste. Città indubbiamente belle nel loro cuore affaticato da questa obesità commerciale, non si può dire il contrario. Ma che tendono sempre più a diventare un continuum indistinto di non luoghi, tranquillizzanti nella loro familiarità per bovini alimentati in via parenterale con dosi massicce di panico sociale. Città lottizzate nelle loro piazze e in ogni angolo dalle grandi multinazionali dell’abbigliamento, della finanza, dell’alimentazione e sui cui tavolini di cromo luccicante si può indifferentemente assistere alla loro stessa autopsia quanto bere un caffè all’americana. Magari dopo aver ingoiato favole alle benzodiazepine di chi ha delocalizzato nei posti più assurdi, per qualche centesimo in più di profitto, ed ora promette improbabili ridistribuzioni eque e solidali di parte di quel capitale, solo per lucidare la coscienza dei consumatori.

Poi c’è Belgrado.

Per sgombrare il campo da ogni ingenuità retorica, anche questa sorta di ultima Stalingrado è ormai accerchiata e magari prossima a capitolare. Oppure ha già capitolato ma dissimula con malizia. Anche qui puoi ordinare il tuo insipido hamburger ai coliformi fecali, persino prelevare un po’ di Dinari da uno sportello della banca di casa tua, magari la stessa che dilapida i tuoi risparmi con il beneplacito del governo. Eppure Belgrado conserva quell’aura di bellezza autentica e incontaminata, che sembra fluttuare sospesa in un tempo e in uno spazio indefinito. Forse sarà suggestione di un osservatore innamorato di questa città dallo strano fascino, indefinito tra il razionalismo di matrice sovietica e il classicismo mitteleuropeo. O forse è per davvero un tratto comune di quei posti culturalmente e diametralmente distanti dall’Occidente cresciuto sotto le amorevoli cure e il guinzaglio del Patto Atlantico.

La mia partita inizia già verso l’ora di pranzo. Appuntamento con il mio amico Paolo, all’ingresso della stazione. Nonostante non sia molto distante dal mio alloggio, ci metterò più del necessario a raggiungerla: un po’ perché sono ancora stordito dai due voli e dalle pochissime ore di sonno, un po’ perché io e i Serbi abbiamo in comune la scarsa dimestichezza con l’inglese; infine, e lo capirò mio malgrado solo dopo, per gli autoctoni “stazione” corrisponde comunemente ad una qualunque fermata dei mezzi pubblici.

L’antipasto doveva essere Rad Belgrado – Javor delle 14, ma scopriamo che il Rad è costretto a giocare tutte le sue gare a porte chiuse per cori razzisti dei suoi tifosi (galeotti furono i versi della scimmia al brasiliano del Partizan Everton Luiz). Il derby avrà luogo invece alle 18 per cui abbiamo tutto il tempo di ritemprarci nella cucina tipica locale, mettendo tenda allo Zavičaj, una kafana (nella via dedicata a Gavrilo Princip, per chi come me crede alla bellezza del fato) ovverosia il corrispettivo di una nostra trattoria dove si possono mangiare i piatti tipici della cucina Serba, ma secondo gli usi è centrale anche la socializzazione. I miei compagni di ventura avevano già guadagnato un’ottima reputazione in loco andandovi a far colazione a base di Rakija, un superalcolico distillato di prugne che praticamente (bevuto tutto d’un fiato) accompagna ogni momento a tavola, da quando ci si siede a quando ci si alza. A cominciare da quando si deve ancora imboccare la prima forchettata: “per digerire”, ci fanno capire in una sorta di esperanto fatto di inglese, serbo, italiano e gesti, anche se a parte un caffè e una brioche, non hai ancora messo niente nello stomaco da poter digerire.

Sotto la regia dei soci che nell’area est-europea son di casa, passiamo in rassegna Goveđa čorba (una sorta di zuppa di manzo per “aprire” lo stomaco alla pietanza principale), Pljeskavica, Ćevapčići e tutta una serie di portate di carne molto abbondanti ed impegnative, annaffiate da tanta birra e dall’onnipresente Rakija.

Il tempo corre veloce, così io e Paolo ci stacchiamo dal gruppo perché ci toccherà guadagnare l’accredito e l’accesso al campo. I tassisti non ne vogliono sapere di portarci al Marakana, troppo traffico e troppi blocchi stradali in cui non hanno voglia di rimanere incastrati. Alla fine ne convinciamo uno mercanteggiando e alzando la posta a cuor leggero, visto che i prezzi di base dei taxi sono davvero molto bassi: accetta ma ci lascerà ad un bivio ingorgato, indicandoci il resto della strada che ci separa dalla nostra meta.

Scolliniamo dopo una salita e ai nostri piedi, alla nostra vista, si apre lo stadio già brulicante di vita, sotto la protezione di San Sava che domina dall’alto del suo tempio, il più grande della chiesa Ortodossa.

Siamo arrivati con un certo anticipo ed è bello tergiversare nei murales, nell’atmosfera, nella calca e nell’aria del derby che monta man mano che i minuti si susseguono verso l’ora di inizio. La presenza delle forze di polizia è paradossalmente imponente ma discreta al tempo stesso: sono lì a vigilare in ogni angolo, specie i più critici e la sola vista di questi Robocop in cirillico, già mette di per sé timore reverenziale.

Ad un certo punto comincia a salire un po’ di ansia anche a noi che giriamo in tondo, venendo rimbalzati da parte a parte senza trovare il varco giusto per entrare in campo. Alla fine e per fortuna troviamo il tanto sospirato “green gate” di cui aveva parlato l’addetto stampa il giorno prima, mentre il mitologico, lunghissimo ed inquietante tunnel che porta al terreno di gioco è stato notevolmente accorciato nel suo percorso, così dopo un paio di svolte siamo già dentro, abbacinati dal verde brillante del terreno di gioco.

Le due curve appaiono sin da subito cariche, molto cariche, per cui il pre-partita è quasi indistinguibile dall’inizio della gara, se non fosse per il repentino cambio di registro delle tifoserie che imbastiscono le loro coreografie. A dire il vero i Partizan all’inizio resteranno alla finestra e il palcoscenico sarà tutto dei Delije padroni di casa: un tappeto di cartoncini rossi metallizzati copre la curva per la sua intera grandezza, e se cromaticamente appare una scelta un po’ monotona, arrivano a smentita una serie di torce ad intermittenza (“big flash”, come le chiama qualcuno) disposte in maniera tale da comporre la scritta “звезда”, ossia “Zvezda” che è come brevemente i tifosi son soliti chiamare la Crvena Zvezda, la Stella Rossa. Spettacolo suggestivo di cui la reale riuscita è apprezzabile meglio in video, proprio a causa dell’intermittenza delle torce, impossibile da immortalare con delle foto.
La dedica particolare alla squadra non è casuale, ricorre infatti proprio in questi giorni il 72esimo anniversario dalla sua fondazione. A dare ulteriore senso in tali termini è lo striscione che sormonta la vetrata, il quale recita più o meno “Ti diranno che (la Stella) si sta spegnendo, lo diranno proprio coloro che non hanno mai brillato così tanto”. La frase è parte di un coro che gli stessi tifosi canteranno per accompagnare lo spettacolo coreografico e il cui senso si completa con il verso: “Non credere a loro figliolo, sii fiero perché il cuore della Stella batte nel tuo petto”.

Il settore dei Grobari ospiti si presenta invece molto più sobrio ma comunque anch’esso dal notevole impatto visivo per numeri e compattezza. A dir poco impressionanti i battimani: se solo si provasse ad allungare lo sguardo nell’angolo più lontano della Curva, di sicuro ci si troverebbe qualcuno con le braccia alzate a partecipare alle manate. È una particolarità che entrambe le tifoserie condividono ed è per certi versi emblematico di come in questi lidi sappiano conservare questo equilibrio perfetto e risultare, come i vecchi gruppi italiani, autorevoli e trascinanti per tutta la tifoseria, senza cedere a insulsi vaneggiamenti elitaristici, stupidamente auto-referenziali, con i quali ci si è scavati il vuoto attorno e poi la fossa. Il calcio popolare a cui si dice di aspirare, cedendo spesso a quel “nostalgismo” sciatto che ora va tanto di moda, è in realtà un calcio dove centrale è la partecipazione popolare dal basso, estesa e aggregante, non di certo una sfilata settaria di borghesi snob che si credono meglio degli altri, consanguinei o avversari, solo perché sono pochi.

Popolare mi sembra davvero l’adesione all’evento calcistico e il modo in cui la gente lo vive. La passione per la squadra è tanta, vibrante e si tocca con mano ad ogni palpito generato dai movimenti sul campo. Si canta con la voglia visibile di voler incidere sul match e allorquando questo succede, l’esplosione quasi orgasmica di urla, movimenti e colore è qualcosa di davvero eccitante e coinvolgente. È passione vera la loro, c’è amore per la squadra, si sente la gioia delle conquiste e i vuoti della delusione. Non si prova mai nemmeno lontanamente quella straniante sensazione di trovarsi in una fiction, come può capitare di fronte a quei cori sì inarrestabili, ma sincopati, quasi robotici di certe tifoserie sotto steroidi.

Il differente livello di adesione emotiva lo si deduce inoltre scrutando la folla, nella quale, con quanto impegno ci si possa mettere, è davvero difficile trovare persone che anziché cantare o guardare la partita, spendano invece energie e tempo dietro ad un telefonino. A compensare ci penserà il massiccio ed inversamente proporzionale stuolo di fotografi, tantissimi stranieri ed alcuni molesti oltre la soglia della stupidità, tanto che ad un certo punto verranno fatti oggetto di un lancio di rotoli di nastro adesivo.

Salta all’occhio, nella parte di stadio occupata dagli ospiti, soprattutto la prudente divisione attuata da polizia e steward in due gruppi distinti, retaggio del vecchio scontro in atto fra Zabranjeni e Alcatraz: qualche anno fa, proprio durante un derby, i più grossi grattacapi per l’ordine pubblico non vennero tanto per scontri fra le due tifoserie quanto per alcuni incidenti intestini proprio ai bianconeri. Quest’oggi la situazione sembra molto più calma del passato: niente tensioni, niente lancio di torce fra le due parti e addirittura qualche coro cantato in simultanea. Nel pre-partita un coro riesce persino ad accomunare tutti i presenti, da Curva a Curva, a prescindere dalla loro fede calcistica: si inneggia al Kosovo, luogo simbolo della storia ortodossa e nazionale, ferita ancora aperta di fronte a cui nessuno rimane insensibile.

La presenza dei temi politici è molto forte, tanti i riferimenti e una sola la dominante, quella del Panserbismo. Da un certo punto di vista sembra trovarsi al cospetto delle curve italiane degli anni ’80 e ’90 dove la politica era onnipresente, nelle sue varie sfumature. Se questo da una parte può essere reso possibile da una maggiore libertà in materia (a fronte dell’Italia dove è per legge proibito portare allo stadio qualsiasi elemento politico o che non sia strettamente legato alla propria squadra), d’altro canto è una prerogativa tipica Serba e dell’Est Europa in genere, dove per una sorta di reazione fisiologica uguale e contraria all’epoca comunista, c’è un rifiorire di rivendicazioni nazionalistiche molto particolari. Tra le bandiere ce ne sono per esempio diverse di ispirazione Cetnica, dal teschio simbolo dell’Esercito Jugoslavo in Patria al volto del generale Draza Mihajlović.

Allo stesso generale Mihajlović, e contro i Delije, farà riferimento uno striscione esposto nel settore dei Partizan: “Bugarcic, Krcun, Rankovic nel nome della vostra squadra sono morti migliaia di Serbi. Gestori di Goli Otok e assassini di Draza è questo il vostro vero volto”. Qui vertiamo nel campo della storia e la questione è così complessa e sono così pesanti (e in realtà persino un po’ pretestuose) le accuse che è difficile spiegare in breve. Rimandiamo perciò ogni lettore ad approfondire con proprie ricerche e farsi un’idea personale, diciamo solo che Bugarcic, Krcun e Rankovic erano tre dirigenti della Lega dei Comunisti Jugoslavi; Goli Otok invece un’isola al largo della Croazia in cui Tito costruì un bagno penale dopo lo strappo da Mosca nel 1948, in cui furono tradotti principalmente i cosiddetti “Cominformisti”, ossia coloro i quali continuavano a dimostrare fedeltà alla linea del Partito Comunista Russo. Oltre ai membri non allineati del partito stesso, ci finirono a Goli Otok anche criminali comuni e generici oppositori. Chiaramente c’è da immaginare che i metodi o i processi non fossero propriamente democratici, ma al di là di questo non si trattava in alcun modo di persecuzioni etniche nei confronti dei Serbi quanto di persecuzioni politiche. Se di persecuzioni vogliamo parlare. Il grado di coinvolgimento dei tre politici citati in Goli Otok e nella Stella Rossa non è ben chiaro. La morte di Draza Mihajlović, generale dell’esercito monarchico-nazionalista dei Cetnici, quella sì è imputabile a Tito e i suoi. Ma perché debba essere addebitata anche alla Stella Rossa e i suoi tifosi non è ben chiaro, in un’epoca – quella Titoista – in cui entrambi i club erano sotto lo stretto controllo del Partito: non a caso il nome Partizan richiama direttamente alla memoria proprio l’esercito di Tito. Certo restare sobri in questa indistinta suggestione e revisione di simboli e miti politici attuata dalle due tifoserie, cercando di decifrarne fatti reali e evidenze storiche è un esercizio per fini accademici.

Tornando ai Grobari e al tifo vero e proprio, dopo che la partita è avviata da qualche minuto, tirano fuori uno stuolo di bandiere in cui si combinano bianco, nero e grigio in varie fogge. Mentre viene sollevato a mano lo striscione nero in cui dichiarano “Non ho sbagliato quando ho scelto di amare i colori più belli”, inizia una fumogenata nera e bianca a dir poco corposa e spettacolare. È questa la punta massima di esuberanza dei Partizan che, per la sobrietà dei propri colori sociali, non si prestano particolarmente ad irretire l’occhio del fotografo o di qualsiasi osservatore. Il tifo vocale è invece di una potenza e di una continuità che fanno veramente spavento. E le sonorità aspre della lingua Serba non fanno che accrescere la soggezione che incute questa tifoseria quando canta. L’alto livello canoro non viene nemmeno scalfito dal vantaggio che la Stella Rossa trova al 34’ con Kanga e sorprende pensare a quanto poderoso poteva essere se anche la parte di bianconeri nei distinti, i succitati Zabranjeni, avessero partecipato al tifo. Poco e poco continuo il loro apporto, il cui coro più bello è uno a rispondere effettuato assieme al gruppo principale dei Grobari.

Nel secondo tempo altri striscioni verranno srotolati in zona Partizan, oltre a quello di cui ho fatto già menzione. Il primo è davvero enigmatico e difficile da intendersi, recita qualcosa del tipo “I figli di mamma e papà non sono più tifosi, adesso non sono che costruttori”. Cercando spiegazioni fra le mie fonti, che però sono di fede opposta, l’idea è che si riferiscano a esponenti in vista del tifo biancorosso che nel frattempo hanno fatto fortuna e sono diventati imprenditori.
Mentre i padroni di casa non espongono alcuno striscione, gli ospiti hanno ancora un messaggio da mostrare e ancora una volta è dedicato ai loro dirimpettai: “72 anni di falsi miti, delusioni e complessi. Vi auguriamo che questo sia il vostro ultimo compleanno, Tzigani!”. I tifosi della Stella Rossa sono infatti indicati dispregiativamente come Gipsy o Tzigani sin dai tempi dell’unità federale, in special modo dai Croati, che però con tale epiteto erano soliti indicare tutti i Serbi, ma loro ne divennero bersaglio principale in quanto squadra più rappresentativa di quell’area geografica. Mi smo cigani najjaci smo, Noi siamo Tzigani noi siamo i più forti divenne di conseguenza e ben presto la rivendicazione quasi orgogliosa d’identità dei tifosi calcisticamente più noti di Serbia.

Nel secondo tempo, dopo la bella torciata in chiusura di frazione innescata dal vantaggio, mi porto sotto il settore dei Delije. Molto, molto belli da vedersi per l’infinità di bandiere, due aste e drappi di ogni sorta, compreso qualcuno che fa chiaramente il verso agli ultras italiani. Da qui in poi, a più riprese e in più parti delle gradinate, verrà appiccato il fuoco ad una serie di felpe e maglie degli avversari, ipotetici cimeli di guerra. Anche se per quello che ho avuto modo di vedere e sentire, fuori questa volta non è successo niente di rilevante, a parte il corteo bello e indisturbato con cui i Partizan sono giunti al “Marakana”, per cui molto probabilmente si tratta di vecchi trofei. Quello che colpisce è che questi continui roghi, uno dei quali anche nel settore ospiti, assieme agli scavalcamenti di settore di alcuni tifosi, avvengano nella totale indifferenza di steward e polizia, che si limitano ad assistere senza intervenire mai se la situazione non degenera, come avvenuto nel derby scorso in cui molto duro fu il confronto fra le parti e ancor più pesante la coda di arresti. Sì, è stucchevole il continuo raffronto con l’Italia, ma nel nostro caso per operare la cinquantina di arresti della violenta ultima stracittadina balcanica, sarebbero bastati i roghi. Lungi dall’invocare inasprimento di pene ovunque o importare impunità, quanto per una logica riduzione dei danni e dei rischi che ogni operatore di sicurezza pubblica dovrebbe sempre tenere bene in mente di fronte a tali considerevoli masse di persone.

Importante ed emozionante il ricorso alla pirotecnica. Una vera e propria pioggia di torce ad illuminare la notte in questa seconda frazione, soprattutto nel settore della Stella Rossa, ma anche i Grobari non saranno da meno. La più bella è al fatidico minuto 72’ durante il quale, per celebrare nuovamente i 72 anni del proprio club, i biancorossi effettuano l’ennesima corposa torciata. Quella più carica d’entusiasmo è invece all’87esimo nel settore ospiti, quando l’attaccante Uroš Djurdjevic trova un pareggio che sembrava ormai insperato e che a maggior ragione fomenta la scatenata esultanza dei suoi tifosi.

Tra le altre cose che mi hanno colpito e che segnalerei a margine di questa cronaca, sono le diverse bandiere fra i Delije dedicate ad ultras scomparsi, ognuna delle quali racconta una storia particolare che aiuta a mettere insieme la prismatica identità e a capire gli ultras di quest’angolo di mondo così diverso e così affascinante. Uno è Velibor Dunjic, immortalato megafono alla mano sia in una bandiera che in una pezza montata proprio sul palchetto da cui il corista attuale dirige il tifo. Figura molto controversa la sua, di indubbio spessore nella vita di Curva, ma con un altrettanto pronunciato lato oscuro nella vita quotidiana, in cui aveva collezionato una infinità di carichi penali soprattutto nel narcotraffico e in queste stesse spire era rimasto avviluppato e freddato a colpi di arma da fuoco nel maggio 2014. Mi piace pensare, a rischio di sbagliarmi, che se gli ultras continuano a ricordarlo, sia perché non ha lasciato mai che i suoi (mal)affari personali pesassero nell’economia della Curva. Che poi nella realtà il mondo ultras finisca spesso in scacco a certe dinamiche non lo si può negare, ma nemmeno lo posso dire di questo caso specifico che non conosco così da vicino.

L’altra triste dedica su bandiera è per Marko Ivkovic detto “Jagoda”, ossia “Fragola”: proprio in virtù del suo nomignolo, oltre alla bandiera col suo volto, aguzzando la vista potrete vedere sventolare una bandiera con il disegno appunto di una fragola. Marko fu ucciso a Istanbul prima di una gara di Eurolega fra il Galatasaray e la rappresentativa di basket che i Delije seguono indifferentemente assieme a pallamano, pallanuoto o qualsiasi altra disciplina della polisportiva Stella Rossa. Ovviamente differenti sono le ricostruzioni a seconda della fonte, il dato inconfutabile è che Marko sia morto a causa di una coltellata e c’è davvero poco altro da aggiungere. L’aggravante è che, date le parti in causa, questo nefasto evento butta benzina sul fuoco secolare dello scontro interetnico e interreligioso che contrappone Serbi e Turchi, Ortodossi e Mussulmani fin dall’epoca dell’impero Ottomano e che ancora oggi, in certa misura, avvampa in vari crinali dei Balcani, dal già menzionato Kosovo alla Repubblica Sprska.

Last but not least, come direbbero gli inglesi, Aleksandar Jacimovic, ventunenne ucciso l’anno scorso durante la trasferta in casa del Borac Kacac, squadra la cui tifoseria rientra nel novero della stragrande maggioranza delle ultra-ortodosse e ultra-nazionaliste Serbe, eppure Aleksandar ne è tornato in una bara e con una coltellata al cuore. Il mito della lealtà di cui si fregiano certi estremismi è una contraddizione in termini, così come pericolosa è la sovrastima e la sovraesposizione della violenza nelle logiche di un gruppo ultras. È una regola del gioco implicita in cui può capitare di imbattersi in questo percorso molto particolare di antropologia e sociologia applicata che è lo stadio, ma la violenza gratuita, programmatica e tutt’altro che simbolica rischia poi di generare diverse derive. Le generano il culto di quei gruppi moderni centro-europei in cui le palestre contano più della strada e le generano anche le spinte repressive di chi criminalizzando in toto le espressioni del tifo, finisce per favorire proprio quella violenza che vorrebbe debellare: vista la mancanza di proporzionalità fra delitti e pene, va da sé che il rischio di una sanzione amministrativa e penale valga maggiormente la pena di correrlo per un confronto fisico con l’avversario e non per aver acceso un fumogeno. Non è apologia di reato, è matematica Watson!

Finita la gara mi confondo con Paolo e Michael nella folla, lasciandoci trasportare da essa in una lunga camminata fino al centro cittadino. Abbiamo altri giri di birre da concederci, pensieri da confrontare, ultime chiacchiere da spendere, scampoli di città e di vita da assaporare ancora, nella vana illusione che il tempo non passi, che questa sensazione non ci si lavi via e ci riporti indietro nel tempo o indietro quel che abbiamo perduto. La polizia ingombra gli angoli dei nostri sogni, facendo da corridoio umano in questo lungo tragitto sulla strada del ritorno. Un volo ci aspetta a poche ore di distanza. Eludendo gli incubi incipienti, godiamo di attimi: è stato un derby spettacolare, la più bella esperienza di tifo vissuta nella mia vita, un’esperienza assolutamente da consigliare e da ripetere.

Matteo Falcone.