«Questo sentimento popolare nasce da meccaniche divine». Per parlare di tifo bisognerebbe tenere presenti almeno sei semplici presupposti dettati dal buon senso della sua essenza che definiscono, in altre parole, le parole e le cose del calcio. Il primo: lo sport, tutto, è ostilità, perché prevede come esito naturale la dominazione di una soggettività dominante su una dominata. Il secondo: il calcio, in particolare, nei suoi simboli e nei suoi nomi ricostruisce concrete rappresentazioni di sentimenti popolari territoriali. Il terzo: tifare non significa semplicemente il sostegno ma la diretta partecipazione in prima persona plurale a un gioco, tanto regolamentato quanto interpretabile, e che proprio per questo ogni cosa assume potenzialmente il ruolo di pedina. Il quarto: tutto questo costituisce un vero e proprio frame della battaglia dove a scontrarsi sono compagini che hanno accumulato capitali culturali e simbolici tali da smuovere migliaia di persone che, per queste ragioni, spendono non solo soldi ma anche energie, un vero e proprio lavoro senza un tornaconto dettato da ragioni di razionalità economica. Il quinto: in questo processo di dominazione, a far differenza c’è una questione di corpi in presenza, del proprio insieme a quello di centinaia di altri, talmente riconosciuto che, per concedere armi pari, si gioca prima a casa mia e poi a casa tua. Nel gergo si indica come “fattore campo”. Per finire il sesto, il più essenziale: al di là di tutte le banalizzazioni e moralizzazioni da salotto buono, questo malsano e appassionante mix di cose provoca piacere. Taranto-Potenza, nonostante per l’ennesima volta si registri l’assenza della tifoseria ospite che ha giustamente deciso di rinunciare alla trasferta a causa del ridicolo numero di biglietti a disposizione (solamente cento per quella che sta diventando un’odiosa prassi), diventa un crocevia importante per proporre un tentativo – del tutto arbitrario e per questo fallibile – di ricostruire umore e valori della piazza tarantina in questo preciso e particolare momento della sua storia.

Iniziamo intanto dei freddi numeri, per quel che ormai valgono, anche se poi freddi non sono. Da una parte il finale di stagione, quando i punti iniziano ad essere pesanti se in palio ci sono degli obiettivi concreti e il meteo inizia a diventare più clemente, di solito si registra un aumento considerevole delle presenze in ogni stadio della penisola. Dalle nostre parti, poiché non c’è mai pace, sarebbe stato invece lecito aspettarsi il peggior dato stagionale dopo le vicissitudini e le incertezze extracalcistiche che stanno caratterizzando il dibattito intorno alla squadra, tra penalizzazioni, incertezze finanziarie e rebus stadio per i prossimi due anni. Assistiamo a una serie di smentite: da una parte i numeri non sono maggiori di altre partite ma neanche il dato più basso. Dall’altro lato anche quella della squadra, che ha ormai impresso un marchio in questa stagione tale che i Taranto dei prossimi anni dovranno necessariamente confrontarsi con delle immagini vivide: quelle di ogni calciatore della rosa che calca il terreno di gioco lottando su ogni palla come se fosse una questione di vita o di morte. È solo grazie a questo – e il merito, bisogna dirlo, è soprattutto di Ezio Capuano che, al di là delle dichiarazioni più o meno roboanti, ha impresso una mentalità operaia in una città che rimane tra le più operaie del paese – che non s’è rotto definitivamente il giocattolo.

Questo si rispecchia nei cori che – in un tentativo ancor più arbitrario di ricostruzione delle gerarchie dei valori del momento – seguono più o meno questi temi. Per i primi 15 minuti, solo sostegno alla squadra, con il più classico dei repertori che contraddistingue le partite che si vogliono vincere: «Quando l’urlo s’alzerà» + «Taranto!» all’ingresso in campo delle squadre, seguiti dai tipici «noi vogliamo questa vittoria» e simili. Solo superato il primo quarto d’ora inizia la contestazione nei confronti della società, cantata pressoché da tutta la curva senza che vengano manifestate forme di dissenso da parte di altri settori, che tuttavia non ha fortuna nella sua diffusione perché subito dopo il Taranto passa in vantaggio grazie a una perla di Orlando, che inventa come sponda la testa di Valietti per schiaffarla in porta sotto la Nord. Intorno alla mezz’ora, invece, si passa a rimembrare i fatti di qualche settimana fa a Brindisi, con cori di scherno nei confronti degli adriatici che per la prima volta vengono cantati allo Iacovone, accompagnati da quattro striscioni firmati da chi è stato direttamente chiamato in causa. Anche questi cori sono cantati da tutta la curva, anche questa volta senza espresse manifestazioni di dissenso; la sanzione dunque è chiara: è nata una nuova rivalità.

La partita prende poi un solco chiaro e rassicurante, col Taranto in campo che subisce poco, raddoppia nel secondo tempo e, mentre sugli spalti viene accompagnato da una prestazione onesta ma non trascinante, conferma anche quest’anno la rilevanza del proprio fattore campo. Solo due sconfitte allo Iacovone e Taranto secondo in questa speciale classifica dietro solo la reale capolista. In cassaforte, quindi, altri tre punti importanti. Ma importanti per cosa?

Il calcio battagliero degli uomini di Capuano e la voglia di tornare a vivere quell’esperienza di partecipazione sui gradoni sono stati un mix sufficiente a lasciare in secondo piano tutta una serie di questioni che, purtroppo, non hanno tardato a ripresentare il conto. Perché – per usare un eufemismo – se nascondi la polvere sotto il tappeto prima o poi riemerge insieme all’altra che s’è nel frattempo accumulata.

Riavvolgiamo un pochino il nastro: la sensazione – ma magari ci sbagliamo – è che le esultanze ai gol non siano state vere e proprie apoteosi, quelle indelebili, di cui dopo ore porti ancora i segni addosso, che sanzionano collettivamente e scompostamente i gol importanti di fine stagione. Un segno che l’incertezza extracalcistica ha pervaso profondamente un ambiente che, se in campo e sugli spalti non molla di un centimetro, non ha reale contezza di quali siano i concreti e possibili obiettivi. Il calcio rimane questo: un meccanismo regolamentato di dominazione tra territori. Tuttavia questo processo è ormai codificato nel tempo e conosce delle regolarità. 

A Taranto, tra le tante, c’è uno spettro che si aggira costantemente anche in tempi non sospetti: quello del fallimento della società sportiva. Se non si vedeva un Taranto così brillante, arcigno e battagliero da almeno dodici anni, è proprio con l’ultimo Taranto del genere, quello di Dionigi per intenderci, che s’è conosciuto l’ultimo fallimento a cui sono seguiti dodici anni di sostanziale oblio calcistico. Per cosa stiamo lottando allora? Per quale obiettivo? Se è vero, come dice Capuano, che chi smette di sognare ha smesso di vivere, chi invece si illude facendo finta di nulla di quello che accade attorno, senza imparare le lezioni, della vita a quale categoria appartiene?

Figurarsi se, per certi versi, questo rappresenta un problema. È la condizione atavica del tifoso tarantino, quella di soffrire, di essere promossi sul campo in B senza esserlo davvero, o di farlo dalla D alla C nell’anno in cui gli stadi rimangono chiusi o aperti solo per poche centinaia di fortunati a causa di una pandemia. Se fosse un avverbio a contraddistinguere la pratica tifosa tarantina, quello sarebbe “nonostante”, che descrive al meglio le possibili forme della resistenza. Esplicativo della prassi di militanza, “nonostante” rimanda inevitabilmente alle figure dell’ostinazione che potremmo intendere come una disposizione a perseverare in una direzione decisa in precedenza, senza lasciarsi scoraggiare dagli ostacoli. E ce la rivendichiamo tutta.

C’è un però. “Nonostante” è un avverbio bellissimo che nasconde anche un lato oscuro. Se da una parte questa specie di menefreghismo rappresenta un prezioso antidoto alla pochezza del calcio contemporaneo, dove non c’è neanche il gusto di affrontare i rivali perché tanto le trasferte più “golose” rimangono vietate, allo stesso tempo cela la pericolosa insidia di fregarsene anche di quelli stessi ostacoli per migliorarsi, dandoli per scontati e rinunciando così alla loro possibilità di cambiamento. In altre parole, questo “nonostante”, che introiettiamo battendoci orgogliosamente il petto, è rassicurante nella sua deresponsabilizzazione, perché rende naturale e quindi legittimo un limite che invece è anche economico, sociale, culturale. Eroicizzare questo sforzo, insomma, può regalarci una comfort zone ma depoliticizza le sue cause, intimamente legate al territorio e al popolo che lo abita, tutto a vantaggio di chi lo domina e lo sfrutta lasciando morte, miseria e distruzione. Forse sono maturi i tempi per ragionare su nuove opportunità collettive di trasformazione. A partire, ça va sans dire, dal calcio e dalle pratiche sociali che lo circondano. Chissà se la questione dello stadio nuovo potrebbe trasformarsi, come ogni crisi che si rispetti, in questa nuova opportunità.

Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri