Arrivo con colpevole ritardo nello scrivere questo pezzo. Rallentato dagli eventi ma anche dalla voglia di raccontare per bene una giornata piacevole, che sotto tante sfaccettature mi ha restituito quell’immagine sana e genuina delle “partitelle” vere e proprie. Quelle a pochi chilometri da casa, dove ritrovi alla perfezione l’essenza di tutti gli elementi con cui il mondo ultras ti ha invaghito e cresciuto. L’essenza di chi segue senza pretese di trofei e vittorie ma con l’ambizione – ben più grande e pretenziosa – di fare aggregazione in nome della propria terra. Che ti chiami Tivoli o Sora, che la tua curva rischi di esser fagocitata dal grande calcio della Serie A e che portare gente allo stadio rappresenti sempre un costante impegno, una profusione spesso soffocante di energie. Vedere questi ragazzi crederci e dannarsi l’anima affinché la fiamma non si spenga è affascinante, nonché ennesima conferma di quanto lo stadio sia l’ultimo avamposto aggregativo ancora parzialmente accessibile.

Arrivo a Tivoli al termine di una settimana a dir poco movimentata, trascorsa tra Svizzera e Germania e culminata nel sabato sera di Angri, dove ho presenziato al dibattito organizzato dalla tifoseria locale. Pertanto, da buon nomade errante, la domenica mattina mi presento a Napoli Centrale salendo sul primo Intercity disponibile per Roma Tiburtina, arrivando in una stazione che già nel nome contiene il primo riferimento storico a Tivoli. Siccome non mi voglio far mancare nulla, non posso far altro che raggiungere la mia destinazione finale con uno degli sconquassati pullman della Cotral, in partenza dal disastrato capolinea di Ponte Mammolo. Un must della mia adolescenza, quando ero solito utilizzare questa linea (una delle più mal frequentate, almeno fino a Bagni di Tivoli) per il classico pomeriggio fuori porta. Perché, come avrò modo di dire, Tivoli è probabilmente uno dei luoghi più meritevoli attorno a Roma. In grado, da sempre, di richiamare orde di turisti ma anche tanti romani, vogliosi di visitare le sue bellissime ville e il suo grazioso centro storico.

Chi ha avuto la fortuna di sfogliare l’Eneide tra i banchi di scuola, forse ricorderà quella Tibur Superbum citata da Virgilio. Una delle progenitrici di Roma, fondata dagli aborigeni – tra i più antichi abitanti del centro Italia – nel 1215 a.C., in seno al rito della Primavera Sacra. Si trattava di un’usanza in voga tra i popoli italici (e in parte anche tra i romani) volta a esorcizzare momenti potenzialmente difficili o pericolosi (carestie, guerre imminenti) ma anche a favorire la migrazione. Secondo questo rito, infatti, venivano offerti al Dio Mamerte (che poi gli osci trasformarono in Marte) tutti i primogeniti nati tra il 1 Marzo e il 1 Giugno. Il sacrificio, in realtà, avveniva concretamente con l’uccisione di animali, mentre i primogeniti erano incaricati di fondare nuove colonie, lontani dalla terra madre. Ogni popolo aveva un animale guida (ad esempio per i Piceni era il picchio, per gli Irpini il lupo…trovate per caso qualche collegamento con calcio, ultras e araldica loro connessa?).

La zona fu amministrata anche dai siculi, che ne fortificarono il centro abitato sulla sponda sinistra dell’Aniene. Questi vennero in seguito sconfitti dai coloni greci guidati da Tiburto, che donò il nome all’insediamento fortificato su una collina pressoché inaccessibile, quella dove ancora oggi Tivoli domina la valle in cui insiste Villa Gregoriana e dove, per secoli, sono passare le transumanze dirette verso l’Abruzzo. Del resto la storia ci dice che questo è uno dei più importanti crocevia del Centro Italia (basti pensare ai numerosi bombardamenti subiti nella Seconda Guerra Mondiale dagli Alleati, con l’intento di interrompere i collegamenti tra Roma e l’Adriatico) e dunque anche un fertile campo di battaglia per i vari assetti politici che hanno caratterizzato l’area.

Tibur, fu tra le fiere condottiere della Lega Latina, inizialmente impegnata nelle guerre di resistenza all’espansione romana e successivamente fedele scudiera dell’Impero, tanto da guadagnarsi diversi appellativi di stima durante le Guerre Puniche. Residenza per la ricca borghesia imperiale, che qui vi eresse alcune tra le più sfarzose ville, talune addirittura di proprietà di imperatori, come Villa Adriana. Centro così notevole da necessitare la costruzione di una delle strade consolari più importanti, sia nel mondo antico che in quello contemporaneo, vale a dire la Via Valeria (oggi Tiburtina Valeria) che inizialmente congiungeva Roma e Tibur e, successivamente, arrivò fino ad Aternum (Pescara). La tradizione delle ville proseguì anche nel Medioevo, con l’apertura di Villa d’Este prima e Villa Gregoriana poi. Due opere a dir poco mastodontiche, in cui sia la casata Estense che Papa Gregorio XVI utilizzarono il corso dell’Aniene per dar vita a fontane e cunicoli idrici artificiali, opere che in realtà servirono anche e soprattutto per deviare il corso di un fiume che all’epoca era solito inondare sovente buona parte dell’abitato, mettendo a serio pericolo anche l’acropoli.

Va detto che proprio le radici profonde e la forte identità tiburtina, non favorirono mai un rapporto sereno con la vicina Roma, che come consuetudine del suo modus operandi cercò in diversi modi di rabbonire i rapporti (ad esempio alla città venne riconosciuto lo status di municipio). Durante il Basso Medioevo, con Tibur nettamente depotenziata e in fase decadente, lo scontro venne rinfocolato, con Roma che mal tollerava la posizione strategica ed economicamente fiorente di Tibur. Soltanto Federico Barbarossa riuscì a ricucire parzialmente i rapporti, trovando l’appoggio del popolo, costruendo una nuova cinta muraria e donando alla città lo stemma che ancora oggi campeggia sul gonfalone comunale: l’aquila imperiale. Lo spirito indipendentista non cessò tuttavia di imperversare, anche a causa di una posizione che vide continuamente Tivoli al centro delle contese tra papato e nobili famiglie romane. La costruzione della Rocca Pia, nel 1461, e il definitivo assoggettamento al dominio pontificio di Pio II posero seriamente fine agli scontri, agevolando l’ascesa a governatore della città di Ippolito II d’Este. Il resto è storia moderna, che evidenzia ancora l’importanza della città e ne conserva tutto il fascino storico e tradizionale. Dunque mi scuso per una parentesi che può sembrare sin troppo prolungata, ma parlare di questa realtà senza fare un excursus del genere significa non focalizzare al meglio il discorso. Anche perché quando si lambiscono temi relativi al calcio e al tifo organizzato, c’è sempre un richiamo storico e sociale.

A tal proposito mi viene in mente la fierezza con cui la tifoseria locale spesso ha rivendicato il proprio dialetto. Aspetto che per me risulta sempre fondamentale per tutelare le tradizione di una città o di una comunità. Le inflessioni sabine che rimandano allo stanziamento di un altro tra i più bellicosi e celebri popoli italici, la differenza sostanziale con la parlata romana, il non volersi piegare all’omologazione dialettale e la volontà di mantener vivi termini ed espressioni che rimandano alle generazioni passate, quelle che hanno vissuto e difeso Tivoli, caratterizzandone anche l’anima per certi versi poco amichevole e scontrosa, tipica di molte zone del circondario capitolino.

Avevo lasciato gli ultras amarantoblu in una gara di sette anni fa, nello storico Campo Ripoli – primo terreno di gioco della Tivoli, all’epoca tornato a ospitare i suoi match interni causa inagibilità dell’Olindo Galli – in concomitanza con la caduta libera del club (allora in Promozione). Li ho ritrovati quest’oggi, rimanendo colpito da una realtà che ormai resiste da tanti anni. E se ve lo state chiedendo: no, non sono tanti i ragazzi che domenicalmente si ritrovano dietro gli striscioni. Ma ci sono stati e ci sono sempre. Cosa che nel Lazio è già di suo impresa ardua. Inoltre ricordo con una certa lucidità il breve passaggio della Tivoli in Serie C2, all’inizio degli anni duemila. Campionati in cui tra le mura amiche si formò un discreto seguito capeggiato dalle Brigate e dai Longe et Prope, i quali però non riuscirono mai a scavare quel solco necessario ad accendere appieno il motore del tifo organizzato. Paradossalmente ci sono riusciti, dopo qualche anno, tutti quei ragazzi che umilmente hanno ricominciato dal fondo. Ma andiamo con ordine.

La palla comincia a rotolare in riva all’Aniene nel 1919 e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale la SS Tivoli calca i campi di Serie C dalla stagione 1945/1946 fino al 1950. Il punto più alto di quel periodo viene toccato nel 1947/1948, quando il club realizza l’accoppiata Coppa Italia di serie C (allora Coppa Attilio Ferraris)/vittoria del Girone E di Lega Centro. Dopodiché le casacche amarantoblu con l’aquila stampigliata sopra si barcameneranno nelle serie inferiori – disputando saltuariamente campionati di Interregionale/Serie D – e ricominciando a coltivare ambiziosi sogni solo negli anni novanta, quando alcuni imprenditori facoltosi si avvicendano alla guida del club. In particolar modo è l’arrivo del patron Caucci, nel 1999, a instradare il sodalizio verso l’agognato salto nel professionismo, che arriva nella stagione 2001/2002. Un picco sportivo che il popolo tiburtino pagherà amaramente. Nel 2004, dopo la sconfitta nei playout contro l’Isernia, la Tivoli torna in D e da lì in poi sarà un lento declino, caratterizzato da retrocessioni che porteranno il club fino in Prima Categoria, da dove si ritirerà nella stagione 2011/2012.

Se il seguito ultras non conosce sosta e cercherà in ogni modo di non far cadere definitivamente nell’oblio il patrimonio sportivo, lo stesso non si può dire per il quadro societario, che ritroverà una stabilità solo nel 2017, quando una nuova cordata rileva il titolo della Prima Categoria e dopo anni di sofferenze ricostruisce un minimo di credibilità attorno al club, portandolo a vincere diversi campionati, fino al ritorno in Serie D a distanza di tre lustri. Parliamo di un comune che attualmente conta 54.000 abitanti e che, se stimolato e dotato di continuità sportiva, potrebbe certamente recitare un ruolo importante in ambito regionale. Per il tifo organizzato la ricostruzione è pedissequa a quella societaria e i tasselli da affiancare nel mosaico sono numerosi e difficili da reperire.

In realtà gli ultras, come spesso accade, avevano perorato e cominciato un’opera di preservazione della tradizione calcistica ben prima di ogni imprenditore. Basti pensare che nel 2011, quando la Tivoli si ritira dal campionato e sparisce, viene fondata – sulle ceneri dei vecchi Tibur Ultras, attivi sul finire degli anni novanta – la 1919 Crew – Gruppo Luciano Scintilla (in onore a un giovane tifoso prematuramente scomparso negli anni ottanta). Un gruppo nato con una filosofia ben chiara, quella di non lasciar morire quella “utopia necessaria”, come recitava uno dei loro primi striscioni esposti. Nel 2013 nasce anche Santa Pirateria, formazione giovane che comincia a seguire con una discreta continuità e anche con buoni numeri per la categoria. Simbolo del gruppo Jolly Roger di Capitan Harlock. Mentre con il nome si fa riferimento all’omonima pubblicazione del fumettista e illustratore Yambo, fatta uscire nel 1939. Una forma romanzata che ripropone le gesta degli Uscocchi (popolazione croata cattolica, inizialmente dedita ad atti di guerriglia e poi specializzata in azioni piratesche contro le flotte turche) fiumani, incaricati da Gabriele D’Annunzio di occuparsi degli approvvigionamenti per la città quarnarina, assediata dalle truppe inviate da Francesco Nitti. Con il passare del tempo le due entità diventano sempre più complementari, collaborando e facendo sì che lo zoccolo duro si rinfoltisca e sia in grado di chiamar dentro altri elementi. Una compattezza suggellata dalla scelta dello scorso anno, quando la tifoseria amarantoblu decide di seguire la squadra in trasferta dietro un unico ma significativo striscione: Tibur Superbum. Ergo: quando la storia ti dà un facile assist in termini di nomi e motti!

Nessuno me ne voglia, ma rispetto alle esperienze – forse più rudimentali – di Brigate e Longe et Prope, i ragazzi che si sono fatti carico del discorso ultras in questi ultimi dieci anni hanno senza dubbio alzato l’asticella. Se non altro in fatto di presenze, attaccamento e modo di vivere le gradinate. Ci sta, del resto si cresce solo facendo esperienza e non ripetendo errori precedenti. Ma in complesso credo sia anche una differente “esigenza” dei ragazzi da stadio odierni ad aver favorito uno sviluppo così forte e continuo del tifo organizzato locale. In passato era molto più radicata l’idea di dar precedenza alla militanza “metropolitana”, o comunque dividersi tra le proprie origini e la Roma o la Lazio, in questo caso. Gli ultimi lustri di repressione, divieti e restrizioni hanno giocoforza portato a una riscoperta di un calcio più a misura d’uomo. Non voglio utilizzare la parola “popolare” perché, come dico sempre, per me anche la Roma e la Lazio – nella loro composizione umana – sono popolari. E perché, comunque, a Tivoli non è mai stato fatto nessun progetto denominato “calcio popolare”. Si è semplicemente costruito un percorso per dar linfa agli spalti e aggregare in loro nome.

I Tibur Ultras in una foto del settembre 1999.

E in questi casi la ricetta vincente è sempre una: trasversalità, coinvolgimento di tutte le entità cittadine, politica bandita, valorizzazione delle tradizioni sportive e cittadine e divertimento assicurato. Oltre che passione e umiltà. Umiltà in quest’epoca balorda significa innanzitutto saper leggere le situazioni, conoscere i propri limiti e non volersi spingere oltre, rischiando di vanificare anni di lavoro per farsi grandi con qualche video di Tiktok o dietro a una tastiera. Insomma dar priorità all’essere ultras e non a tutte le baggianate che sovente funestano questo mondo, trasformandolo in fenomeno da baraccone.

Una prima curiosità avvicinandomi all’impianto tiburtino è legata proprio al suo nome. Olindo Galli, infatti, oltre a essere stato un calciatore della Tivoli (e anche della Lazio) è stato anche sindaco della città nell’immediato dopoguerra. In realtà molti tifosi, parlando dello stadio, utilizzano semplicemente il nome Arci, facendo riferimento alla zona dove è stato edificato e inaugurato nel 1989, sostituendo Campo Ripoli. Prima di entrare non posso far a meno di notare un lungo striscione esposto dalla tifoseria di casa in prossimità degli ingressi. “Voi non potete fermare il tempo, gli fate solo perdere tempo” recita il messaggio, riferendosi ad alcuni Daspo emessi per utilizzo di artifizi pirotecnici. Pratica ormai assai diffusa in un Paese che oltre a reprimere gli spazi aggregativi vorrebbe inibire totalmente anche il basilare folklore che caratterizza il pubblico da stadio. Capisco che quasi sempre il tifoso sia visto alla stregua di un pericoloso serial killer, ma chissà se si arriverà mai a intavolare una seria e oculata discussione su quanto possa essere del tutto inopportuno rovinare la vita di un ragazzo perché ha “osato” accendere una torcia o un fumogeno per festeggiare il gol della propria squadra o, magari, per scopi coreografici. Scopi che poi, puntualmente, riecheggiano orgogliosamente su profili social e abbonamenti delle società. Nonché sulle sigle dei programmi sportivi dove di tanto in tanto…si criminalizza chi se ne rende protagonista!

Fatta questa dovuta, quanto ormai stucchevole, riflessione, posso varcare i cancelli. Ritiro velocemente l’accredito e altrettanto velocemente mi ritrovo in mano la pettorina per entrare in campo. Non metto piede in questo stadio esattamente da diciannove anni, praticamente ero ancora minorenne. Ho ricordi un po’ sfocati ma di primo acchito mi sembra che bene o male sia rimasto tutto allo stesso posto. Anzi no, nel 2004 agli ingressi ospiti non c’era lo stuolo di funzionari e agenti che noto oggi. E soprattutto non c’era nessuno pronto a riprendere con la videocamera o a perquisire con tanto di metal detector. Ma, ahinoi, i tempi sono drasticamente cambiati. E quasi mi verrebbe da dire che è già tanto se ai tifosi permettono ancora di entrare con una bandiera, uno striscione e un tamburo. Perché se seguissimo la volontà di Questure, Osservatori e Commissariati, si giocherebbe sempre e comunque a porte chiuse.

Quando mancano una decina di minuti al fischio d’inizio la tifoseria di casa comincia a compattarsi dietro gli striscioni, mentre i sorani arrivano alla spicciolata, con il contingente ultras che dopo gli asfissianti controlli raggiunge la tribuna inscenando un piccolo corteo. Da un punto di vista sportivo è un confronto importante in chiave salvezza, da un punto di vista del tifo, invece, è quasi inedito. Tra le due fazioni non vi è alcun tipo di rapporto e, infatti, si ignoreranno per tutti i novanta minuti. Pensando a realizzare le rispettive performance canore. Su fronte tiburtino rimango subito ben impressionato dal piglio che i ragazzi mostrano: voce praticamente senza sosta, battimani ben ritmati dal tamburo, due bandieroni sempre in alto e una bella intensità. Si vede che c’è voglia di divertirsi e di aiutare la squadra. Non si sta solo recitando un mero copione per dire di “aver fatto il proprio”. E questo, come detto, è il frutto di quel lavoro ormai quasi decennale, di chi ha ben oliato i meccanismi e oggi può affrontare al meglio un palcoscenico tutt’altro che semplice come quello del massimo campionato dilettantistico. Molto bella, tra l’altro, la fumogenata eseguita nel secondo tempo. Una densissima coltre amaranto e blu si leva al cielo, coprendo del tutto il muretto occupato dagli ultras e diradandosi lentamente, mentre al di sotto il tifo si fomenta ancor più. La dimostrazione di quanto i numeri siano del tutto relativi quando c’è qualità e ci sono menti pensanti dietro pezze e striscioni.

Quando parliamo di realtà rodate, ovviamente, dobbiamo includere anche i ragazzi della Nord di Sora. Anche per loro non c’è mai un copione da osservare, ma un modo di sostenere la squadra verace e avulsa dai grandi “circuiti” di omologazione ultras. Quindi voce, sciarpe, stendardi e cori a rispondere. Elementi che fanno sempre ben figurare i bianconeri. Da sottolineare l’esposizione di uno striscione in sostegno di un ragazzo colpito da provvedimenti restrittivi. “La vita è un inferno…Sora ti amo”, una citazione che lascia intendere tanto di quello che c’è dietro quel mondo fatto spesso di effimere parvenze e tanta generalizzazione. Ci sono ragazzi che con la curva vivono e che grazie alla curva provano sentimenti spesso difficilmente riscontrabili nella quotidianità. Senza voler dividere il mondo in “buoni e cattivi”, credo sia innegabile l’esistenza di persone che prendono i propri rischi – spesso sbagliando e pagando – e difendono spalla a spalla un simbolo e un’effige e di altre totalmente prone e piegate ai ritmi e ai diktat imposti dalla società e da ciò che essa ritiene giusto. Parrà stupido: ma nell’era del buonismo imperante e del politicamente corretto, persino uno striscione per un ragazzo diffidato può essere un gesto ribelle.

Una considerazione a parte voglio farla sul materiale di entrambe le fazioni: se la cura maniacale di stendardi, striscioni e pezze da parte sorana non mi suona certamente nuova, fa piacere notare come anche su sponda tiburtina la forma mentis sia quella di lasciare lontano stamperie, tipografie o pvc. Tutto fatto a mano (davvero notevole lo stendardo raffigurante l’effige comunale tenuto in alto per quasi tutti il match) ed estremamente curato. Dietro il modo con cui si gestisce questo aspetto credo si celi molto di un gruppo: ideare e creare materiale significa giocoforza sudare con il pennello in mano, inginocchiarsi sul lembo di stoffa e, dunque, averne maggiore cura e considerazione. Il momento in cui una pezza nasce è anche l’occasione per cementare l’aggregazione, per fare gruppo. Non si pensi che dietro alle insegne che ogni domenica vediamo appese nelle curve ci debba essere semplicemente la voglia di apparire o di agghindare un settore. Dietro a esse dev’esserci una storia, un’impronta intima e personale di chiunque frequenti gli spalti. Il materiale è l’anima di una tifoseria, è il biglietto da visita con cui ci si presenta e dietro cui ci si identifica. Purtroppo in Italia si è persa quasi ovunque tale usanza, degradando nettamente verso una sciatteria a tratti disarmante.

In campo le due squadre danno vita a un confronto acceso. Un 2-2 finale che strappa applausi su ambo i lati. I giocatori vanno a prendersi l’applauso del pubblico, mentre un vento freddo comincia a spirare prepotente su Tivoli. Del resto a queste latitudini il freddo non si è mai risparmiato, in nessuna stagione. Posso solo effettuare gli ultimi scatti e poi riporre la camera, pronto a ripartire definitivamente alla volta di Roma. Contento di aver presenziato a questa partita, che sicuramente mi ha riportato a una dimensione più umana ed empatica con tutti i protagonisti dello spettacolo.

Non mi resta che dare un’occhiata ai sempre affascinanti Monti Lucretili, una di quelle catene sottovalutate, aspre e impegnative da percorrere con ogni mezzo. Penso a quante ne abbiano viste, a quanta storia e quanti personaggi abbiano osservato passare da queste parti. Perché ci sono zone e città del nostro Paese forse meno celebri, ma sicuramente meritevoli di esser approfondite per conoscere anche un pezzettino della propria identità. La Via Tiburtina attraversa prepotentemente il centro cittadino, portandosi verso la Capitale con una ripida e tortuosa discesa fatta di curve. Alle mie spalle il centro abitato “tramonta” insieme al sole, lasciando un’immagine poetica, sicuramente più artistica rispetto alle cave e alle aziende che si stagliano a valle, verso Bagni di Tivoli e Guidonia. Ma questa è un’altra storia, fatta di mani rovinose della modernità. Roba che fortunatamente non ha intaccato oltre tremila anni di esistenza della vecchia Tibur…

Simone Meloni