Il pullman numero 80 effettua la fermata proprio al centro della Rampa Cavalcavia, giusto qualche centinaio di metri più in là rispetto alla stazione di Mestre. Il ritorno all’ora solare mi ha permesso di arrivare con un po’ di anticipo, prendendo proprio una delle prime corse di questa linea che finisce a Chioggia, nella frazione di Sottomarina. Un leggero fresco prova a ricordarmi che l’autunno dovrebbe essere già ben inoltrato. Verrà smentito dopo qualche ora, quando il termometro segnerà temperature ben oltre la media stagionale. Sono l’unico passeggero, e così sarà fino a destinazione. Lascio Marghera alle mie spalle e il paesaggio della Laguna Veneta comincia a scorrere al mio fianco. La commistione con le zone industriali fortunatamente dirada, lasciando spazio alla suggestiva spianata che qualche chilometro più in là si unisce all’Adriatico, fin quando non è solo un lembo di asfalto a oltrepassare l’acqua. E a suggerirmi che Chioggia è ormai prossima.

La ricerca di posti nuovi, inediti nei miei viaggi, continua in modo forsennato. E già dallo scorso anno avevo nel mirino questo particolare luogo, stretto tra la laguna, il mare e le foci del Po e dell’Adige. Da un punto di vista naturalistico qualcosa di quasi unico nel nostro Paese, da un punto di vista storico una fucina di vicende e leggende lunga oltre duemila anni. Basti pensare che Chioggia deve il suo nome a Clodio, eroe troiano sfuggito dalla distruzione della propria città e giunto in Italia assieme a Enea (che si stanzierà nel Latium), Aquilio (che darà vita ad Aquileia) e Antenore (che invece fonderà Padova). Per dare l’idea di quanto questa zona affondi in una mistica “confusione” tra mito e realtà, è sufficiente ricordare che i greci la indicavano abitata da popolazioni pre elleniche (per la precisione i pelasgi) già nel 2000 a.C., segno di quanto le coste italiane dell’Adriatico siano state da sempre un viavai di mercanti, conquistatori e avventurieri. Sta di fatto che il nome di Chioggia deriverebbe da Cluza, “costruita artificialmente”, quasi a indicare l’impervia di un territorio che abitualmente finisce con il sommergersi a causa dell’acqua alta.

Che questa porzione di Italia sia molto particolare e complessa ne ho conferma visitando il Museo Civico, dove tra le cose che per prime fanno bella mostra ci sono i vari sistemi utilizzati nei secoli per arginare l’acqua, che da queste parti dev’essere per forza di cose croce e delizia degli autoctoni. A seguire approfondimenti fotografici e non solo sulle tecniche in voga sin dall’antichità per estrarre il sale, considerato uno dei più pregiati (il sal clugiae) in seno alla Decima Regio, la regione amministrativa con cui Augusto chiamava l’area che va da Veneto all’Istria. Non mancano poi riferimenti alla pesca e, ovviamente, al commercio, con uno dei più tipici strumenti del mondo antico che imperversa praticamente in ogni angolo della struttura: l’anfora. Quando posso cerco sempre di impiegare del tempo negli spazi dove la città è ritratta e raccontata, non tanto per il loro interesse didascalico – che ovviamente può essere approfondito con una ricerca – quanto testare il senso di appartenenza e “protezione” del proprio patrimonio. Nello stesso museo avrò anche la gioia di incappare in una mostra sul Grande Torino e sul calcio chioggiotto, come avrò modo di raccontare più avanti.

C’è tempo per i miei giri e le mie escursioni. E soprattutto c’è ancora poca gente in giro ad affollare stradine e ponti. Quella sparuta presenza di chioggiotti è intenta a portare il cane a passeggio o entrare nei forni aperti, probabilmente per portare a casa la colazione. Il dialetto è forte, marcato. E storicamente deriva dalla fusione del chioggiotto antico con quello marinante (vale a dire parlato a Sottomarina). Storia linguistica di una città che ancora oggi poggia su due lembi di terra, uniti dal dopo guerra dall’Isola dell’Unione. Camminando silenziosamente per le calli che costeggiano il Canal Vena (principale arteria idrica della città, attraversata da nove ponti, tra cui spicca l’ultimo e monumentale Ponte Vigo, posto proprio di fronte all’isola di Pellestrina e agli imbarchi per la stessa e per Venezia) sembra di sentir riecheggiare la voce dei protagonisti delle “Baruffe Chiozzotte”, una commedia con cui Carlo Goldoni volle rappresentare, a metà del XVIII secolo, le vicende amorose di alcuni protagonisti del ceto più povero: pescatori, marinai e donne del popolo. Non di rado può capitare, percorrendo il centro storico, di imbattersi in rappresentazioni contemporanee della commedia. Una sorta di benvenuto per chiunque si ritrovi per la prima volta da queste parti, sicuramente anche un modo bello di mantenere vive determinate tradizioni culturali.

E considerata la conformazione della città e l’ambiente tutt’altro che malleabile che si respira, si capisce anche perché Goldoni abbia voluto rappresentare qui le sue “baruffe”. Chioggia è il tipico posto che non ti regala nulla, dove l’attento osservatore rivede ciò che dev’esser stata Venezia quando ancora era fuori dal grande circuito turistico e che incarna perfettamente la ruvidezza storica di questi posti. Del resto la somiglianza con Venezia, l’esser per anni stata assoggettata e parte integrante della Serenissima e la sua particolare conformazione toponomastica, restituiscono a chiunque un’immagine precisa della parte antica della città. Che sia la zona lungo il Canal Vena, che sia il duomo – incastonato tra quest’ultimo e Corso del Popolo – che sia la celebre Pescheria, a cui si accede attraverso il suggestivo Portale a Prisca e dove non posso far a meno di gettare un’occhio al “famigerato” granchio blu, divenuto il primo vero nemico dei pescatori di questa zona. Il prezzo stracciato con cui si vende al chilo lascia intendere quanto abbondante sia divenuta la sua presenza in Laguna.

Per non farmi mancar niente mi concedo anche un giro a Sottomarina, con una solitaria camminata lungo la battigia e la ricerca di un sole che di tanto in tanto fa capolino tra le nuvole grigiastre, che tuttavia non sembrano promettere pioggia. Torno lentamente indietro, passando dapprima nuovamente per il centro: è quasi ora di pranzo e i numerosi locali lungo Canal Vena hanno aperto le proprie porte, venendo popolati da locali e turisti. I menù offrono ogni ben di Dio tipicamente locale: dai bigoli con baccalà o alici, alle alici fritte, alle sarde in saor. Ovviamente non mancano le varie scelte beverecce con cui ogni veneto che si rispetti bagna i propri pasti. Con estrema fatica resisto alla tentazione, voglioso una volta tanto di preservare i miei valori (ovviamente non parlo di valori morali…), mi concedo un’ultima camminata arrivando fino a Ponte Vigo e poi tornando indietro per il Corso, dove non posso far a meno di imbattermi in un nutrito numero di ultras chioggiotti intenti a consumare il loro pre partita. I primi cori salgono potenti, tra birre, bianchetti e qualche turista che li guarda divertito.

Tiro dritto e prima di raggiungere lo stadio non posso far a meno di effettuare un’altra tappa classica delle mie domeniche: la stazione. Siamo al termine della linea – attivata nel 1876 – che unisce il centro lagunare con Rovigo (in maniera da poter poi cambiare per Bologna o Venezia) e, da buona ferrovia secondaria, di treni nei giorni festivi se ne vedono davvero pochi. Eppure il fascino che questo genere di luoghi esercita su di me rimane intatto, anzi reso ancor più intenso dall’alone di decadenza proveniente da parte della struttura. Avendo tempo e possibilità, mi sarebbe piaciuto tornare a Mestre con la strada ferrata, ma per tutta una serie di circostanze (tra cui i tempi di percorrenza davvero troppo elevati) ho dovuto desistere.

In compenso è ora di visitare lo stadio e i suoi dintorni, prima di accedervi. Ammetto che proprio l’Aldo e Dino Ballarin è stata una delle principali attrattive che mi ha condotto qua. Già solo la sua posizione – adiacente al Canale di Lusenzo, praticamente quasi nell’acqua – vale una visita. Costeggiato da una pista ciclabile che si prolunga fino a Sottomarina, questo impianto ha un fascino retrò davvero incommensurabile. Ho la fortuna di mettervi piede quando ancora dev’essere preposto il servizio d’ordine, potendo così osservarne gli spalti vuoti e la sua conformazione tipicamente inglese. La targa apposta il 5 marzo del 1950 in memoria dei due fratelli chioggiotti periti nella strage di Superga, è ancora là. Quel giorno l’allora Campo Sacca San Giovanni venne rinominato in loro memoria, precedente una commemorativa amichevole tra il Clodia e la Triestina di Nereo Rocco. Riferimenti storici che non possono che collegarsi con la mia visita mattutina alla già citata mostra sul Grande Torino e sul calcio chioggiotto. Uno spazio raro da trovare in un Museo Civico, che dà l’idea di quanto questi ragazzi abbiano pesato sulla storia sportiva – e non solo – della città. Oltre a vari oggetti, indumenti e riferimenti circa la loro militanza nel Torino, ci sono diverse sezioni dedicate alle due squadre progenitrici di quella che dal 1971 – malgrado fallimenti, transizioni nel nome e disastri societari – rappresenta Chioggia e Sottomarina nel calcio. US Clodia (in cui hanno militato i fratelli Ballarin e dai colori biancazzurri) e US Sottomarina (colori neroverdi) vantavano, prima della fusione, alcuni campionati di Serie C alle spalle, nonché una malcelata “rivalità” corroborata dal tipico campanile tra le due frazioni.

L’unione del 1971, i colori granata in omaggio al Grande Torino, e la scalata al calcio professionistico (sotto la gestione di Teofilo Sanson, noto imprenditore coneglianese nel mondo dei gelati, nonché futuro fautore della scalata dell’Udinese dalla C alla A) degli anni successivi, suggellarono invece l’amore per l’Union Clodia Sottomarina di tutta la comunità locale. Chioggiotti e marinanti tutti assieme sotto un’unica bandiera, per un sostegno che sulle gradinate del Ballarin si è spesso contraddistinto per passione ed eccessi.

Il trasferimento di Sanson a Udine lascia il club granata sprofondare tra i dilettanti. Bisognerà aspettare la prima metà degli anni ’80, con l’arrivo del presidente De Paolis, per vedere i chioggiotti disputare nuovamente un campionato di Interregionale, con il nome che intanto viene cambiato in SSC Chioggia Sottomarina (1990). Sempre negli anni ottanta, sull’onda di quanto sta accadendo anche nel resto del Paese, nasce il primo vero e proprio gruppo ultras al seguito dei granata. Il 21 dicembre del 1984 è una data storica, allo stadio Rorai di Cavarzere viene fondato il gruppo Ultras Union C.S., che esordisce in Curva Sud il 6 gennaio 1985 contro l’Abano. In questa occasione vengono realizzate anche le prime sciarpe in lana. A fine campionato il gruppo conterà circa duecento tesserati, numeri che rendono bene l’idea su quanto l’aggregazione da stadio fosse in continua espansione in quell’epoca. Un anno più tardi fanno la loro apparizione i Supporters Gioventù Granata, composti da ragazzi perlopiù minorenni e, di fatto scalmanati, che si sistemano alla destra degli Ultras Union C.S.

All’inizio della stagione 1986/1987 l’opera di proselitismo degli ultras produce circa seicento tesserati e alcune trasferte si contraddistinguono per l’ingente massa al seguito dell’Union. Resta sicuramente memorabile quella di Riccione, contrassegnata da violenti scontri con uno degli storici gruppi del panorama minore italiano di quegli anni: gli Eagles Supporters. Nell’ottobre del 1987, invece, la Sud cambia leggermente la sua immagine: esordiscono gli Hooligans, mentre i Supporters cambiano nome, divenendo Skinheads. La stagione 1989/1990 è l’ultima con lo storico nome Union Clodia Sottomarina ed è contraddistinta da una serie di feroci contestazioni nei confronti della società. Il preludio agli anni novanta, che di fatto saranno il periodo più buio e anonimo per il calcio chioggiotto. Nel 1991/1992 gli Ultras Union C.S. si sospendono, mentre la squadra crolla a picco fino ad attestarsi in Prima Categoria. Quattro anni più tardi alcune tra le figure più importanti del tifo granata decidono di ridar linfa agli Ultras, affiancando una squadra che conquista la promozione in Eccellenza e viene accompagnata da circa cinquemila tifosi nella finale di Coppa Veneto disputata (e vinta) allo stadio Appiani di Padova contro il Bassano.

L’Eccellenza dell’anno successivo propone match piuttosto movimentati, come quello contro il Monselice, mentre in campo le cose vanno a gonfie vele e la squadra ottiene il ritorno in Serie D, con gli Ultras Union – ormai tornati al timone della curva – che allacciano ottimi rapporti con i ragazzi di Portogruaro e sanciscono un vero e proprio gemellaggio con quelli di Mestre. In quell’anno nasce anche la Gioventù Granata, gruppo che tuttavia chiuderà i battenti dopo una solo stagione di attività.

Il ritorno nel massimo campionato dilettantistico segnerà un periodo di relativa stabilità per il club, con la tifoseria che nel panorama veneto si distinguerà sempre per seguito e passione. A livello ultras va perdendosi il gemellaggio con i mestrini (dopo il fallimento arancionero datato 2003), mentre qualche anno dopo si getteranno le basi per rapporti importanti e duraturi con gli ultras del VeneziaMestre, solidificatosi in particolar modo nel periodo in cui i granata sospenderanno tutte le loro attività, nel 2011, quando su fronte sportivo arriva una batosta che condizionerà gli anni a venire del calcio chioggiotto: la squadra non si iscrive alla Serie D, operando poi una fusione con il Sottomarina Lido (club nato nel 2006 e neopromosso in Eccellenza Veneta) e dando vita all’ASD Clodiense. Squadra che non viene riconosciuta dal tifo organizzato, malgrado diversi tentativi da parte della società di riavvicinare gli ultras e alcuni aspetti – tra cui i colori sociali – che richiamano alla tradizione calcistica cittadina. Occorrerà arrivare fino al 2019 per vedere la Curva Sud nuovamente sugli spalti, grazie al cambiamento di nome del club in Union Clodiense Chioggia S.S.D.

Al Ballarin, dunque, tornano tifo, bandiere, tamburi, e striscioni. I granata si riconoscono dietro l’insegna Curva Sud 1984, con l’obiettivo di riunire tutte le componenti del tifo e restituire alla città lustro nel seguito e nell’aspetto passionale. Il club punta a ritornare in Serie C, dopo quasi mezzo secolo. E proprio in quest’ultimo contesto – dopo il necessario excursus storico e cronologico – prende vita la partita di oggi, che vede impegnate sul manto verde le due prima della classe. Una stagione partita con il botto per i tifosi di casa, che già all’esordio si sono trovati di fronte uno dei nemici storici: quel Treviso che nella provincia di Venezia riscuote sempre la giusta antipatia per far scattare il campanile e rendere le sfide avvincenti, sentite e partecipate. Non è un caso che quel match abbia anche avuto una coda alquanto movimentata. Del resto, aggiungo, uno stadio come questo si presta alle turbolenze e mi fa un certo effetto immaginare cosa potesse essere negli anni ottanta, quando scorte, divieti, restrizioni e ipocondria da ordine pubblico non erano minimamente contemplate nella testa dei nostri ineffabili gestori statali.

Attendo l’arrivo del corteo improvvisato dai mestrini prima di entrare. Sento da lontano il giungere degli arancioneri, che controllati a vista dalla celere, avanzano scandendo i loro cori. Un manipolo di chioggiotti li osserva attentamente dal ponte che congiunge il centro storico alla zona dello stadio. Tutto fila liscio e anche io posso ritirare il mio accredito ed entrare in campo. Il piccolo tunnel che porta al terreno di gioco è preceduto da una serie di pannelli e foto storiche sul club granata, tra cui non manca un omaggio agli ultras. Entrare negli spogliatoi di queste categorie è sempre rigenerante: di colpo ti trovi la lavanderia con il classico magazziniere impegnato – tra bestemmie e rimbrotti – a sistemare le casacche e far si che nulla gli sfugga dal controllo.

La Laguna fa bello sfoggio di sé dietro alla tribuna coperta, mentre i mestrini stanno preparando una scenografia da esibire all’ingresso delle due squadre. Nel frattempo la Sud fa il suo ingresso alla spicciolata e complessivamente il Ballarin presenta davvero un ottimo colpo d’occhio. Chi l’ha detto che la passione verace e popolare per la propria città esista solo a determinate latitudini? Ci sono posti d’Italia che – aiutati anche da una tradizione cittadina importante, che fa leva sulla quotidianità -, anche se sensibilmente sollecitati, sanno rispondere alla grande. Città, paesi, a volte frazioni, che non ti aspetti. Dove però il calcio riesce ancora a creare quel senso trasversale di appartenenza. Ciosa (in dialetto) è chiaramente uno di questi. E per me rappresenta un’esperienza curiosa, iniziata qualche ora prima attraverso le calli, il Corso e la spiaggia di Sottomarina, e culminata come sempre in mezzo al campo.

Le due squadre fanno la loro apparizione sul terreno di gioco e gli ospiti calano la loro scenografia: tanti stendardi con la Torre, simbolo di Mestre, vengono innalzati, mentre sulla balaustra si fa largo lo striscione “Sul petto, nel cuore”. Semplice, ben fatta e ben pensata. Dall’altra parte, invece, non ci sono coreografie ma subito tanta voce e alcuni bandieroni a sventolare. La sfida è partita e a me non resta altro che scattare e trarre le mie valutazioni. Non prima di aver segnalato uno stuolo di ragazzini che, dalla tribuna coperta, si porta ai lati per provocare i supporter mestrini: cosa dire? Finché in Italia ci sarà anche un solo bimbo come loro, avremo speranza che il calcio non diventi uno sport per sedentari mangiatori di pop corn e patatine!

Con i padroni di casa che in breve tempo si portano sul 2-0 (sarà anche il risultato finale) l’ambiente è ovviamente carico. La Sud si mette in evidenza con tante manate, cori a rispondere e canti tenuti a lungo, nel tentativo di coinvolgere più possibile i presenti. Si respira l’aria di alta quota, sebbene contestualmente ci sia la paura di fallire un traguardo che in queste ultime stagioni è spesso parso vicino, salvo poi naufragare sul più bello. I mestrini partono all’arrembaggio e, malgrado sin da subito si capisca che le cose in campo si mettano male, non faranno mai mancare il loro sostegno, terminando la sfida con una lunga e significativa sciarpata. Nessuno me ne voglia ma mi sento di dire fuori dai denti che la performance quotidiana è stata superiore rispetto a quella vista due settimane prima al Tenni di Treviso, dove probabilmente gli arancioneri hanno peccato di continuità. Credo che anche la conformazione del settore, più piccolo e raccolto, abbia aiutato.

Da un punto di vista curvaiolo saltano agli occhi due modi diversi di vivere lo stadio: quadrato, compatto, quasi geometrico, quello chioggiotto, più “disordinato” e all’italiana quello ospiti. La sostanza è comunque ottima e lo spettacolo del tifo ben collima con una giornata che ha visto il pubblico delle grandi occasioni al Ballarin.

Finisce, come detto, con il successo granata e il tripudio per i giocatori in maglia bianca, che balzano solitari in vetta alla classifica. Ho ancora qualche minuto prima di uscire e correre alla fermata, in attesa nuovamente del pullman numero 80, che stavolta dovrà effettuare il percorso inverso rispetto a quello mattutino. Respiro a pieni polmoni gli ultimi istanti di questa giornata, riconsegno il fratino agli inservienti di casa e scatto ancora qualche foto negli angoli più angusti degli spogliatoi. Sempre con rispetto, quasi a non volerne violare l’intimità. Dopodiché esco e sono immediatamente in fermata. Saluto Chioggia passando nuovamente di fronte alla stazione, fonte di ispirazione per un racconto o una riflessione. Da lontano vedo stagliarsi la Porta di Santa Maria con il suo leone alato inciso sulla volta, mentre più in là riconosco nitidamente la Torre di Sant’Adrea, sulla cui sommità è incastonato l’orologio medievale ancora funzionante più vecchio al Mondo. Quando mi lascio alle spalle un pezzo di storia penso sempre di dover essere grato all’opportunità che ho avuto di entrarci in contatto, perché corrisponde alla possibilità di conoscere e approfondire. Aspetti che, almeno per come la vedo, nella vita non potranno mai conoscere la parola fine.

Sul pullman la stanchezza comincia a farsi sentire, sebbene la giornata non sia finita e ad attendermi ci sia ancora il match di pallacanestro tra Reyer Venezia e Varese. Una dolce appendice a una delle tante domenica pazze e lunghe della mia stagione sportiva. Mentre il sole va a morire dalla parte opposta del mare, mi sembra di intravedere nuovamente lembi di Laguna, tra le prime tenebre che cominciano a scendere sul Veneto. Di tanto in tanto i miei occhi vorrebbero gettarsi tra le braccia di Morfeo, ma ciò viene evitato da una chiacchierata con l’autista che – com’è piccolo il mondo – scopro essere di Roma.

Ripensando alla leggiadria con cui ragazzi e ragazze si sono riversati nei locali sul Canal Vena e lungo Corso del Popolo, poco prima che andassi allo stadio, mi viene un sorriso. E mi torna alla mente un pezzo delle succitate baruffe goldoniane, che probabilmente ben riassume l’aspetto guascone degli autoctoni: “Semo donne da ben, e semo donne onorate; ma semo aliegre, e volemo stare aliegre, e volemo balare, e volemo saltare. E volemo che tutti posse dire: e viva le Chiozotte, e viva le Chiozotte!”

Simone Meloni