Noi e loro, e dopotutto siamo solo gente comune.
Forse non tutti sanno che il capolavoro scritto da Roger Waters e musicato da Richard Wright, settima traccia di The Dark Side of the Moon (1974), è nato sulle ceneri del frammento utilizzato da Michelangelo Antonioni nel lungometraggio Zabriskie Point, la cui colonna sonora era stata affidata proprio al tastierista della storica band londinese.
“Us and them“: noi e loro. Da sempre, nonostante tutto.
Divisi dalla nascita: compagni di banco accoppiati per fede sportiva, partitelle all’ultimo respiro nei cortili di scuola con palloni di carta e scotch, i parapiglia, le penitenze, gli sfottò e le delusioni più cocenti, le vendette e le scommesse perse.
È sempre stato così: noi contro loro, loro contro noi.
A Roma, nella Roma che conosco, il Derby è un’eterna sfida cittadina che non si limita ai soli centottanta minuti diluiti in due appuntamenti stagionali. No, la stracittadina la possiamo percepire e toccare quotidianamente con mano in un mercato rionale, dalle urla del romanista al dirimpettaio laziale; in banca, in ufficio, in palestra, al supermercato. Persino in Chiesa.
È la data cerchiata sul calendario in un torrido pomeriggio estivo, è un’attesa spasmodica; come un fidanzato che attende la dolce metà alla stazione e più si avvicina il treno al binario, più la frequenza cardiaca tocca inesorabilmente le vette della tachicardia. Il Derby è notti insonni, il “oggi ti voglio bene, ma domani siamo nemici“; è la coppia che si divide spontaneamente per un breve lasso di tempo, è la decisione di dormire sul divano per non incrociare il sorriso beffardo del partner.
È la divisione naturale delle cose, come un fiume che separa due coste destinate ad osservarsi eternamente senza il desiderio reciproco di unirsi.
Qualcosa ci aveva uniti, per esser sinceri, e forse è stato uno dei momenti in cui quei bambini con cui da piccolo litigavo frequentemente mi son sembrati proprio come me. Due fedi diverse a dividerci, ma un triste destino fatto di ricordi, di gradoni da voler salire in fretta e furia, di bandiere da voler sventolare e fumogeni da respirare a pieni polmoni, ad accomunarci.
Romanisti e laziali avevano deciso di non piegare la testa, di rispondere alla violenza altrui sedendosi in attesa come dei saggi samurai. Hanno meditato insieme in due occasioni mentre i loro colori erano stati sostituiti dal grigiore della safety in un teatro senza pubblico, senza calore.
Sostenevano le proprie squadre da lontano, ma mai come a quei tempi i loro cuori erano vicini; perché, per una volta a Roma, “il dolore degli altri non era un dolore a metà”. Ma lo stesso.
Anche se l’altro rappresentava tutto ciò che da bambino portava a scegliere un altro banco, o un diverso gruppetto di amici.
In fondo allora era il pallone ad accomunare durante le sfide all’ultimo sangue nei cortili, è stata l’assenza di questo a rimettere le cose a posto.
Poi, la decisione di molti, tanti – personalmente troppi – di rientrare. Circa trentaduemila di loro, ottomila di noi. Scelte individuali, libere, ma un consenso implicito ad un nuovo modo di vivere la partita che cozza mestamente con ciò che ha reso questa partita un evento da mondovisione.
Ma non bastava tutto questo ad incrementare la sofferenza per l’ennesimo Derby lontano da casa, da “mamma” Sud. Non bastavano neanche i divieti di raduno al Tre Fontane per sostenere la squadra alla vigilia. L’ordine pubblico è anch’esso strumento essenziale per coprire le palesi incompetenze.
No, non era abbastanza perché oltre a noi e loro, c’erano gli altri: alcuni seduti a tavolino tracciando linee sulla mappa, altri fieri dall’alto di scanni dorati che hanno deliziato la Capitale, acuendo una situazione già di per sé paradossale, con notizie al limite del farsesco. O forse ben oltre la più becera delle menzogne.
Bisognava creare un’atmosfera guerresca per giustificare un insuccesso istituzionale come il crollo degli spettatori nell’impianto capitolino, giungendo infine all’ormai consuetudinaria celebrazione in pompa magna di chi meriterebbe un altro tipo di attenzione mediatica. E così, come di consueto, è stato (o Stato).
“Olimpico rischio hooligans, mille agenti contro i neofascisti stranieri” ha titolato Il Messaggero,
“Dalla guerra etnica evocata dagli ultrà laziali a Formello all’uccidiamoli dei romanisti. Quando il derby viene vissuto come una guerra” la replica de La Gazzetta dello Sport; tanto per approcciare alla sfida con il passo giusto e la distorta propensione alla comprensione di un fenomeno sociale come il calcio, ultimo baluardo tribale in una società che, dimenticando il passato in nome della corsa inarrestabile verso il futuro, ha volutamente scordato di irrorare quelle radici che reggevano una buona fetta di quell’albero chiamato comunità.
Il peso delle parole, insegnamento essenziale e una lectio saltata a piè pari, a quanto pare.
Utilizzare un linguaggio guerresco per smorzare i toni, come lo spegnere un fuoco gettando alcool puro sulle fiamme.
Il pericolo fittizio è da sempre strategia vincente agli occhi della società civile, poiché nel panico sociale lo spazio di manovra è ampio, e spesso e volentieri nel caos generato ci si può mimetizzare senza correre rischio alcuno.
Qualcuno, ad esempio, ha parlato di hooligans del Tottenham in mezzo ai tifosi laziali; e vi garantisco che sarebbe più semplice il trovare un astemio all’Oktoberfest. Alticcio ovviamente.
Altri, armati di una perfida fede nel cuore, ci hanno informati del sequestro del solito borsone zeppo di armi di distruzione di massa – sempre il solito, sempre le stesse armi – o hanno ricamato ad arte alcune parole sopra le righe pronunciate da entrambe le tifoserie, ree di aver raggiunto in massa gli allenamenti delle rispettive strade.
Se si fosse chiamata Reykjavik e non Roma non sarei qui a tediarmi l’anima, ma assisterei sgomento all’esaltazione esterofila di ciò che è “passione” se viene da lontano, ma da noi la etichettano come “pericolo”.
Si continuano ad invocare provvedimenti, si aprono inchieste, si spendono soldi pubblici (oltre mezzo milione per la gestione della sfida domenicale. Mezzo milione.), per consegnarci questo bilancio: stadio semivuoto, atmosfera spettrale, qualche arresto – lontani dall’impianto stesso – e gli elogi alle Istituzioni che si sprecano e colano come oro su questa Terra descritta come un campo di battaglia. Passeranno anche questi tormentoni da social, e nel giro di qualche evento nessuno parlerà più dei Lulic o degli Strootman, dei calzini di Rudiger e della reazione di Cataldi. Per fortuna, mi verrebbe da aggiungere con la convinzione di aver compreso quanto il diverso battito cardiaco che genera il Derby, possa comportare un blackout anche in professionisti multimilionari. Siamo uomini, animali senzienti, non giudici dal cuore puro e ineccepibile.
Altri addirittura hanno millantato incontri carbonari tra i famigerati capi ultrà delle due tifoserie, ovviamente senza fornire alcuna dimostrazione veritiera, celandosi dietro il salvagente della fonte sicura ma segreta per deformazione professionale.
La libertà di raccontare una favola spacciandola per realtà delle cose; sulla pelle degli altri.
“Derby di Roma tra risse, razzismo e urla: all’Olimpico si è giocato il derby dei coatti“, ha tuonato il blog Fatto Football Club, sfociando in ragionamenti che offenderebbero anche il più acuto dei radical-chic nostrani.
“Roma, derby senza incidenti: da qui si deve ripartire” titola stamani La Repubblica. Come se una partita con metà dell’impianto vuoto sia uno spettacolo da regalare al pubblico, convincendolo con la forza della ripetizione che questo sia calcio.
Le bugie avranno pure le gambe corte, ma anche il passo talmente svelto da arrivare fino alle orecchie della Regina, fino ad un ragazzo volutamente in esilio in quel di Londra che, se si fosse basato sugli scritti altrui, avrebbe fatto meglio a rimandare il rientro a casa onde evitare di assistere ad una guerra civile.
Questo è diventato il Derby di Roma: una triste favola senza lieto fine.
Come quella di un gigante un po’ matto, ma un gigante buono.
Una montagna capace di resistere all’erosione dei venti che spirano forte contro il fuoco della passione.
Uno di noi, rispettato da loro. E in questo ultima lunga thule ce lo immaginiamo in piedi, a torso nudo, pronto a catechizzare i presenti e ad inventare qualche nuovo motivetto capace di diventare subito un tormentone.
Post scriptum: avrei voluto scrivere a lungo di ciò che ha rappresentato Giorgetto per tutti quelli che, come me, si sono avvicinati al mondo della Sud trovandosi al suo cospetto. Avrei potuto, ma saluto migliore di questo, non lo troverete:
http://www.sportpeople.net/non-piangete-giorgetto-sta-solo-festeggiando-il-derby/.
Testo di Gianvittorio De Gennaro.
Foto di Salvatore Izzo.