Ancor prima dei festeggiamenti per il 22 luglio e della fiumana giallorossa che per un paio d’ore ha invaso il centro della città, bisognerebbe forse porre l’accento sulla “riconquista” del Colosseo da parte dei romani. Almeno per una serata. Almeno per un’oretta.

Sapete cosa significa il Colosseo per uno di Roma? È molto più complicato di quanto possiate pensare. Certo, è il monumento che ci rappresenta nel mondo e con cui, negli ultimi secoli, Roma è stata “iconizzata”. Ma è anche il luogo che, paradossalmente, ormai meno ci appartiene. È un’area fatta su misura per i turisti, dove i locali medi sono esosi e dalle dubbie qualità e ogni centimetro è iper militarizzato in nome dell’ordine pubblico, della sicurezza e dell’anti-terrorismo.

Ci passo spesso, ammirandolo e rimanendone sempre colpito. Ma non riuscendo mai a godermelo appieno, a causa degli incredibili stuoli di turisti, guide e venditori di chincaglieria varia che a ogni ora del giorno ne affollano il perimetro.

Ecco, vedere stasera quella marea di gente – di romani – brandire bandiere e fumogeni, cantare e innalzare al cielo striscioni proprio ai suoi piedi, credo debba esser significativo su quello che il tifo organizzato riesce ancora a produrre – in termini sociali – di questi tempi. Soprattutto in una città nevrastenica e irragionevole come Roma. Riuscire ad avere un rapporto vis-à-vis con lei è sempre più un privilegio ad appannaggio di pochi. Più le sue bellezze sono conclamate (e purtroppo anche trascurate) e più si fa fatica ad avvicinarle.

Roma, almeno nel suo centro storico, ha smesso di essere una città a misura d’uomo da troppi anni. E i ragazzi ne hanno una percezione figlia solo del suo “brand”, del suo nome che avrà sempre un impatto mastodontico e suggestivo, in qualsiasi parte esso venga scandito.

Ma questa suggestione, che sovente non incontra la realtà e non lascia “consumare” il rapporto tra il romano e la sua Urbe, porta anche a storture che in questi casi si manifestano palesi. E qui mi inoltro in un discorso assai articolato, che ovviamente non può riguardare solo il tifo, ma deve esser compreso in maniera globale: sono per il rispetto di tutti, fin quando però si rispetta il lavoro degli altri e ciò che si dice di amare.

Mi spiego: chi negli anni ha gestito la serata del 22 luglio (che ogni estate è andata sempre più crescendo) si è ovviamente sobbarcato oneri e onori del caso. I gruppi, gli ultras per intenderci, ci mettono la faccia e, da qualche anno, anche belle idee per rendere questo giorno speciale e “bello a vedersi”. Dispiace vedere qualcuno (che forse frequenta Roma una volta l’anno pur vantando sfondi del desktop con coreografie e striscioni) che non solo fatica a seguire i loro diktat, ma addirittura sembra agire in chiara opposizione al fil rouge che teoricamente guida questo genere di eventi: la difesa e l’esaltazione della propria città.

Al netto di ciò non posso negare che questa è una serata per certi versi attesa tutto l’anno. Generalmente arrivo al Pantheon in bicicletta, passando tra le meraviglie del centro storico e finendo per esser quasi inghiottito dalla masnada di ragazzi, ragazze, bambini, donne e uomini radunate attorno alla fontana al centro della piazza. Sebbene ogni anno mi riprometta di fare meno foto perché “uguali a quelle dell’anno prima”, finisco per realizzare numerosi scatti e avere difficoltà nel selezionarli.

Perché inoltrarsi in quelle stradine, camminare nelle viscere di Roma, seguire cortei e osservare le facce esterrefatte dei turisti mentre migliaia di persone cantano all’unisono è sempre un’esperienza esaltante. Ci si è talmente atrofizzati con la quotidianità e la normalizzazione, che cose un tempo di routine assumono un aspetto tutt’altro che trascurabile.

In pochi altri posti, rispetto alla curva o gli ambienti frequentati dagli ultras, mi sento così spigliato e a mio agio. Non so se è qualcosa di cui mi debba preoccupare o semplicemente una conseguenza di anni passati più sulle gradinate che a casa o a lavorare.

Nel 2018 mi fa ancora effetto. E non solo, mi fa quasi accapponare la pelle riuscire a salire nel palazzo (oggi un ristorante) dove 91 anni fa il club venne fondato. Vedere la porticina dove si accedeva al piccolo ufficio in cui i soci si riunirono e sapere che esattamente dalla finestra opposta oggi si può osservare il “serpentone umano” che sta lentamente raggiungendo il vertice di Via degli Uffici del Vicario in attesa della mezzanotte.

C’entra l’essere tifosi, ma c’entra anche l’amore per tutto ciò che il calcio ha rappresentato e rappresenta nel nostro Paese a livello storico e antropologico. Concetti troppo spesso scansati con spregio, come se chi identifica in questo sport e nella sua squadra una ragione di vita e un orgoglio profondo debba essere per forza un disagiato. O, peggio ancora, una persona priva di valori.

L’orologio fissa le sue lancette sul numero 12. Torce, fumogeni e fuochi d’artificio prendono possesso di tutta la zona, provocando come sempre un piacevole effetto asfissiante. Il fumo permea ovunque e la storica gelateria Giolitti è ridotta a vera e propria polveriera.

Quando il tutto si dirada viene compiuto il percorso opposto, con meta finale, come anticipato, l’Anfiteatro Flavio. Là vanno in scena le ultime immagini della serata. Là viene innalzata parte della coreografia mostrata al derby di ritorno dello scorso anno e tutto intorno continuano i canti e la pirotecnica.

Contemporaneamente anche il centro sportivo di Trigoria viene illuminato a festa. Sono i ragazzi dei Fedayn, che là hanno deciso di aspettare la mezzanotte del 22 luglio.

Sono le 2 e ancora qualche bandiera sventola di fronte al Colosseo. Per una serata tante persone dell’Urbe Eterna hanno baciato i piedi al proprio simbolo. Non da poco per chi vorrebbe trasformare la Capitale in un oggetto da esporre in vetrina ai primi offerenti di passaggio.

Simone Meloni

Via degli Uffici del Vicario

Trigoria