Il Golfo giace nel silenzio più totale, in un’afosa mattina di inizio maggio. L’azzurro terso della domenica ha lasciato spazio ai nuvoloni grigi del lunedi, che all’orizzonte si confondono con l’Adriatico, distendendosi fino alla punta del Gargano. Dalla finestra della mia stanza intravedo un pezzo della coreografia che è stata. “Nella fossa dei…”. Il Miramare si staglia proprio a pochi metri dal mio campo visivo, con la sua particolare tribuna coperta che me ne impedisce la vista completa. Sento il vociare della gente, per strada, e con molta fatica tento di uscire dai fumi dell’allergia primaverile che, mista a una palese influenza, ha funestano la mia notte.

A Manfredonia ci sono arrivato al termine di una stagione piena, che mi ha dato l’opportunità di girare a fondo la Puglia e, più in generale, mi ha permesso di salire alcuni scalini importanti. Sia nella conoscenza del mondo ultras nostrano, che in quella del territorio italiano più genuino e provinciale. Lontano dai grandi circuiti e spesso a misura d’uomo, cosa che diventa sempre più difficile in un Paese che giorno dopo giorno si svende malamente al turismo dozzinale o, peggio ancora, al primo sgangherato offerente che vuole utilizzare le sue bellezze artistiche e paesaggistiche solo ed esclusivamente per fare business, senza rispetto e senza opportunità di crescita e sviluppo. E si badi bene: discorso che in gran parte vale da Nord a Sud.

Arrivando in Puglia da Ovest, tagliando i rilievi dell’Appennino con un tortuoso percorso Roma-Napoli col treno e Napoli-Foggia col pullman, avrei voluto concludere il viaggio con il tanto amato treno. Ma per una serie di vicissitudini (molto italiane) ciò non è stato possibile, costringendomi dunque all’ultima tappa dal capoluogo sempre su gomma. La strada che si fa spazio mi rimanda incredibilmente all’infanzia e ai viaggi con mia nonna, che di questa zona era originaria. Le distese verdi, le masserie abbandonate, i muretti a secco, i rilievi del Gargano che lentamente prendono sempre più forma e quella malinconica e affascinante aria che questa parte d’Italia regala. Un Sud differente dal Sud decantato da fiction e pubblicità. Ma sempre Sud. Forse ancor più Sud per certi versi. Con le sue contraddizioni, i suoi misticismi, le sue bellezze e le sue disfunzioni, che ti fanno bestemmiare dal profondo del cuore ma che, a pensarci alla distanza, donano anche quella sensazione di imperfezione tutto sommato piacevole per il forestiero. Un po’ meno per gli autoctoni.

La Manfredonia che mi accoglie oggi è una città che sta preparando nei minimi dettagli questa partita. Non solo per l’aspetto sportivo, che è comunque fondamentale, ma anche perché il club e i suoi tifosi si apprestano a rimettere ufficialmente piede presso lo stadio Miramare. Dopo oltre un anno di assenza a causa della chiusura dell’impianto per problemi strutturali e alla sua riapertura continuamente posticipata per altri problemi burocratici. Era il 10 aprile 2022 quando i biancazzurri disputavano la loro ultima gara in casa, contro il Barletta. Prima di emigrare nei più disparati campi della provincia, trasformando gare casalinghe in vere e proprie trasferte. Una situazione che annualmente colpisce ormai più di una società, portando al pettine gli anacronistici nodi legati alla manutenzione e allo stato generale dei nostri stadi. Ovviamente i primi a rimetterci sono i tifosi, chiamati a sobbarcarsi spese e chilometri, oltre a faticare doppiamente nel fare aggregazione e portare persone al seguito della squadra cittadina.

Sarà che io arrivo nel momento “più bello” e non in quelli sofferti. Dove Molfetta, Apricena, San Ferdinando di Puglia e Monte Sant’Angelo sono diventati rifugi provvisori per i supporter sipontini. Sarà che arrivo in una domenica di sole, dove c’è coscienza della vicinanza del traguardo ma anche paura di non tagliarlo, dopo una stagione al vertice. Scherzi e paradossi di un sistema calcistico che in Puglia, da qualche stagione, obbliga le vincitrici del girone d’Eccellenza ad affrontare prima la seconda classificata in semifinale e poi – in caso – la vincitrice dell’altra semifinale relativa all’altro raggruppamento in una gara secca, per decretare la compagine promossa e “spedire” quella sconfitta agli spareggi nazionali. Praticamente tutte le spese, i sacrifici e il lavoro di una stagione condotta con diversi punti di vantaggio in classifica, rischiano di essere vanificati. Poi ci si lamenta del fatto che molti imprenditori preferiscano non investire nel calcio o in piazza storiche!

Qualcuno mi ha detto, non molto tempo fa, che per noi romani l’Adriatico altro non è che “il mare al contrario”. E ripensandoci non posso che dargli ragione. Questa distesa d’acqua, infatti, mi appare sempre diversa da ciò a cui sono stato abituato, fosse solo per il sole che qui non tramonta ma sorge. Può sembrare stupido, ma è come vedere l’Italia e ciò che la circonda da un’altra prospettiva. Ma l’Adriatico è soprattutto il mare che ti indica l’Oriente e che per tanti versi è rimasto cristallizzato a un’epoca precedente. Manfredonia dorme sulle sue acque e racconta un’esistenza fatta di storia, di civiltà e dinastie che l’hanno caratterizzata, ma anche della devastante mano dell’uomo che ne ha ucciso tante velleità e ne ha inquinato l’anima, favorendo la dipartita (fisica e ideale) di tanti sipontini. Perché Manfredonia è una di quelle terre che il petrolchimico ha stuprato e alla quale lascerà per sempre dei segni indelebili. Nel silenzio di molti, di troppi. Sicuramente nel silenzio di chi, nel dopoguerra, si è divertito a rendere zone del nostro Paese – potenzialmente ricche solo con il turismo e la loro valorizzazione – veri e propri ecomostri. “Ne guadagna la collettività”, dicevano. In un certo senso è vero. Ma ne hanno guadagnato anche i necrologi. Trent’anni di attività forsennata, segnati inevitabilmente da alcuni, catastrofici, incidenti. Tra cui quello del 26 settembre 1976 – due mesi dopo il Disastro di Seveso -, quando l’esplosione della colonna di lavaggio dell’impianto di sintesi dell’ammoniaca nell’Isola 5 dello stabilimento in località Macchia (che amministrativamente appartiene a Monte Sant’Angelo ma di fatto è alla periferia di Manfredonia) provocò una pesante dispersione di arsenico su tutta l’area. Avvenimento che venne prontamente insabbiato da Enichem, la quale nei giorni successivi si limitò a dichiarare che la nube fuoriuscita era solamente vapore acqueo. Il dato di fatto, comprovato anche da vari rapporti OMS, è l’altissima mortalità per tumori e la grave incidenza di malattie respiratorie, nonché il dubbio (certezza?) che malgrado la chiusura del petrolchimico datata ormai 1993, i danni ambientali e per la vita dell’uomo continuino a ripercuotersi ineluttabili.

La chiusura – che avvenne di concerto con la privatizzazione di gran parte dell’industria italiana, in quegli anni ad esempio chiudeva anche lo stabilimento di Bagnoli – arrivò dopo un lento percorso di dismissione, che fece cambiare anche l’approccio della città nei confronti del petrolchimico. Da istituzione intoccabile, perché fonte di lavoro e sostentamento, divenne lentamente il mostro responsabile di inquinamento e morte. A posteriori appare abbastanza evidente quanto questo tipo di industria abbia più tolto che dato. Sia in termini di vivibilità che di sviluppo futuro e lungimirante. Il suo passaggio ha raso letteralmente al suolo e contaminato intere porzioni di terra, annientando o quasi qualsiasi speranza di crescita economica da essa slegata.

E che Manfredonia sia un posto dove la storia è andata di pari passo con la produzione selvaggia – quella che baratta il lavoro con la morte – lo si capisce passeggiando tra le sue strade. E non solo per le innumerevoli scritte sui muri che ancora avversano il petrolchimico di ieri o il tentativo di Energas di aprire un impianto recentemente e richiamano a lotte di piazza evidentemente mai finite nella mente della cittadinanza. L’indotto ha favorito uno sviluppo edilizio a dir poco rivedibile, con le classiche colate di cemento che hanno investito buona parte dell’Italia post bellica. Nel bel centro cittadino si scorgono, di tanto in tanto, palazzoni e costruzioni che cozzano tremendamente con il contesto storico in cui sono inseriti. La sintesi perfetta dell’abuso e della prepotenza con cui i signorotti dell’epoca devono aver soverchiato la dignità manfredoniana. Compresi innumerevoli reperti storici, che tutt’oggi rimangono imprigionati, se non addirittura divorati, dal cemento.

Va da sé che tutto ciò, con il passare del tempo, abbia prodotto la più tipica delle emigrazioni verso Nord e oltre i confini nazionali. E se il buon Agapito Malteni cantato da Rino Gaetano, ferroviere di stanza a Manfredonia, questo processo proprio non riusciva a comprenderlo (“…Seppure complessato il cuore gli piangeva/Quando la sua gente andarsene vedeva/Perché la gente scappa ancora non capiva/Dall’alto della sua locomotiva) sempre più giovani sipontini sono stati costretti ad assimilarlo senza alternativa valida. Emigrazione, talvolta, vuol dire anche veder andar via le menti migliori, quelle più operose e dinamiche, a discapito di una classe politica locale che va a costruire la propria scalata sulla “peggio gioventù”. Discorso che è ascrivibile a milioni di situazioni pedisseque in tutto il mezzogiorno. Aspetto che, come vedremo, si riverbera in maniera pesante anche su moltissime dinamiche di curva.

Se per arrivare a parlare di una realtà è necessario conoscerne i misfatti e i punti più oscuri, è anche e soprattutto giusto guardarne il volto più bello e ammaliante. Perché oltre agli ultimi sessant’anni – che sono stati croce e delizia – Manfredonia affonda le proprie radici in un passato importante. Per certi versi glorioso. Un percorso storico che parte da ciò che resta dell’antica Siponto, situata oggi a una manciata di chilometri dal centro urbano. Vera e propria genitrice, fondata dai dauni, ellenizzata successivamente e resa ancor più grande e importante dai romani, che la trasformarono in uno dei porti più importanti del loro Impero. Negli ultimi anni c’è stata una notevole riscoperta del suo complesso storico: dalle Basiliche paleocristiane all’Anfiteatro, per il quale sono ancora in atto lavori di recupero. Opere che se conoscessero un’accelerazione, se avessero una priorità nell’agenda dei politici locali e nazionali, garantirebbero forse un minimo di ossigeno e riscatto.

Del resto Siponto è sempre stata abituata a sudare il proprio destino. A sgomitare per rimanere viva, almeno fino alla distruzione finale causata dai bizantini nell’VII Secolo (in seguito alla disputa con i longobardi per il predominio territoriale) e, soprattutto, ai pesanti fenomeni di bradisismo della prima metà del 1200. Sconquassi del territorio – e relativa povertà della popolazione, con annesso il problema della malaria causato da un territorio tendente al palustre – che evidentemente colpirono il principe di Taranto, Manfredi, che nell’area garganica era solito compiere le proprie battute di caccia. Nel gennaio del 1256 quest’ultimo diede il via ai lavori di ricostruzione della città, due miglia più a nord. L’idea era quella di dar vita a un luogo prestigioso, in grado di rinverdire i vecchi fasti di corridoio con l’Oriente e fungere da vero e proprio nodo commerciale. Il Principe volle donarle il suo nome e tutta una serie di agevolazioni fiscali in grado di renderla un porto franco.

In questi anni venne eretto anche il Castello, che con il dominio svevo, angioino e aragonese si definì ben presto come uno dei veri e propri simboli della città. Anche oggi si staglia imponente in riva al mare – a pochi passi dallo stadio – con nugoli di ragazzi e bambini ad affollare la spiaggia ai suoi piedi e un discreto allestimento interno, meritevole senz’altro di una visita, anche per la presenza del Museo Archeologico. Castello e mura, tuttavia, non impediranno svariati assalti provenienti dal mare. In particolar modo la città venne segnata dall’aggressione dei turchi, nel 1620. Un episodio che causò morte e distruzione, necessitando diversi anni per la ricostruzione. La facilità con cui la struttura venne violata, inoltre, suggerì di trasformare la stessa da avamposto difensivo a caserma, mentre il torrione ad ovest venne usato come prigione.

Il mare – e chi ci è nato lo sa bene – dà e toglie in maniera incredibile. Porta il pericolo dell’invasore, ma rende anche fiorente l’economia e accresce la mente di chi lo popola. Per Manfredonia il mare ha rappresentato e rappresenta un compagno imprescindibile, che forgia l’anima e il modo d’essere degli autoctoni. La larga vocazione agricola e “devota” alla pesca, sfociò a inizio ‘900 in numerose rivolte, nel tentativo di migliorare una situazione lavorativa ed esistenziale ben al di sotto della media nazionale. Una tempra che caratterizzerà i sipontini anche in altre, importanti, battaglie sociali in cui saranno impegnati nell’immediato dopoguerra. Da ricordare, senz’altro, i quattro giorni di sommossa popolare dell’autunno 1988, quando la Enichem – ormai depotenziata – si offrì di ospitare la Deep Sea Carrier una nave cargo (detta volgarmente Nave dei veleni) contenente diverse tonnellate di scorie chimiche da smaltire. La popolazione (capeggiata dai pescatori) vide ciò come un vero e proprio affronto, a cui si ribellò in maniera corposa, alzando barricate e bloccando letteralmente la città. Quattro giorni di una piccola “rivoluzione”, in cui man mano si formarono per le strade comitati e assemblee spontanee, con l’intento di dare una volta per tutte la spallata definitiva all’ormai nemico comune.

Peraltro – volendo convogliare il nostro discorso sul manto verde – uno degli ultimi tentativi dell’industria petrolchimica di riabilitarsi agli occhi dei sipontini avviene proprio attraverso il calcio. Nella seconda metà degli anni ’80, infatti, l’Enichem sponsorizza il Manfredonia. Ma oltre a fallire da un punto di vista meramente sportivo, il colosso di Stato trova una forte avversione da parte di tifosi e non (del resto siamo proprio a ridosso dei quattro giorni di ribellione alla Nave dei Veleni), con eloquenti scritte sulle mura cittadine e del Miramare (lasciato spesso vuoto, in una sorta di boicottaggio). “I vostri soldi sono sporchi come le vostre coscienze”, un monito che la dice lunga su quanto nel cuore e nella mente dei locali serpeggiasse ormai una diffusa intolleranza nei confronti dell’industria e di ogni sua sfaccettatura.

Ma quindi, il calcio? Che genesi e che vita ha avuto in riva all’Adriatico? Nell’ottobre del 1932 viene fondata l’Associazione Sportiva Manfredonia, club che solo a ridosso degli anni ’70 riesce a salire per la prima volta il gradino della Serie D (all’epoca Interregionale) e che fino all’inizio degli anni 2000 farà la spola tra il massimo campionato dilettantistico e i campionati regionali. Dopo l’ennesima retrocessione nell’appena istituita Eccellenza (1991) il club cambia nome, divenendo SS Manfredonia, ma non conoscendo per questo un destino più roseo. Nel 1995 il sodalizio presieduto dal commerciante locale Giuseppe Cozzolini finisce addirittura in Promozione. Ci vorranno quattro anni per ritrovare la Serie D, riconquistata dopo gli spareggi contro Venafro e Orlandina. In società subentra anche Troiano e il duetto al timone riesce a mantenere la categoria per diversi anni, prima di passare mano alla cordata Riccardi, che in riva al Golfo scriverà le pagine più belle del calcio locale. Ma andiamo con ordine.

Sebbene gli anni ’90 non siano propriamente forieri di soddisfazioni per i garganici, qualcosa di importante si muove sulle gradinate del Miramare. Qualcosa destinato a lasciare il segno nella storia del tifo regionale e non solo. Nel 1991, infatti, nascono le Teste Matte. L’intento è quello di dare un’organizzazione al tifo, fino a quel momento di carattere perlopiù folkloristico (i primi striscioni ad apparire sulle gradinate furono quelli dei club Fedelissimi e Sipontini, seguiti dopo qualche anno dagli Eagles Yankees), con l’unico tentativo di dar vita a un movimento più “curvaiolo” griffato Indians, un gruppo di ragazzi sorto sul finire degli anni ’80 e impegnato a sostenere il Donia per tutti i 90′ con bandiere e striscioni, riuscendo anche ad effettuare diverse trasferte. Un embrione che si scioglierà alla fine della disastrosa stagione 1989/1990, con i sipontini retrocessi in Eccellenza, come detto in precedenza, e in totale disarmo. Basti pensare a un inizio di stagione che vide scendere in campi i ragazzi delle giovanili, con imbarcate epiche come l’11-0 subito a Cerignola (curiosità: al ritorno i biancazzurri riuscirono a bloccare i gialloblù sul pari, facendogli perdere perdere per strada punti importanti ad appannaggio della Juve Stabia, che la guadagnarono la C proprio a spese degli ofantini).

Nel novembre del 1991 dunque – e più precisamente nella gara interna contro il Castellaneta – fa per la prima volta apparizione la sigla Teste Matte. Uno striscione che inizialmente porta i colori biancoverdi. Questo perché la comitiva che si cela dietro, nasce al seguito della squadra di pallavolo femminile (biancoverde, per l’appunto), trasferendosi poi successivamente nella Curva Sud dello stadio cittadino, che successivamente verrà dedicata a Pasquale Cotugno, elemento storico delle Teste Matte prematuramente scomparso. Uno stadio che già di suo è noto come la Fossa dei Leoni, soprannome guadagnato per la sua particolare struttura, ricavata da un ex cava e raccolta tra mare e centro cittadino. Il luogo ideale per chi in quegli anni aveva intenzione di avviare un certo discorso di tifo, sicuramente molto più popolare e genuino rispetto al borghese pubblico del volley, che non accettava propriamente di buon grado una masnada di ragazzi scalmanati all’interno del pallone pressostatico. A pensarci bene, da parte di chi racconta, sembra riaffiorare tutto quel pionierismo della provincia italiana a cavallo tra gli ’80 e i ’90, dove nessuno forse si sarebbe immaginato il germogliare di vere e proprie istituzioni a livello ultras.

Le TM sono la classica trasposizione della comitiva allo stadio. E più precisamente della comitiva di Piazzetta Mercato, tanto è vero che inizialmente viene anche esposta la pezza e la bandiera col Joker griffati CUSP (Commando Ultrà Sez. Piazzetta). Dopo la retrocessione in Promozione del 1995 tutto il primo nucleo abbandona completamente l’attività di gruppo per i più disparati motivi: emigrazione, studio, leva. Rimangono così i più giovani. Per certi versi è una svolta per il salto da semplice gruppetto di amici goliardici a vero e proprio gruppo ultras. Ci si comincia ad aprire verso l’esterno, iniziando a fare una timida aggregazione, ma soprattutto c’è una netta implementazione di tutti i discorsi ultras: costanza nel tifo, presenze in trasferta, cura del materiale, progressiva eliminazione della politica in curva, realizzazione di fanzine, poi sito internet. Qualche anno dopo viene aperta anche la sede. Insomma, una crescita notevole in questo passaggio di consegne.

Alla “prima gestione” è legata una delle amicizie più longeve, quella con i ragazzi di Tricase, tornata forte soprattutto negli ultimi anni, grazie al meticoloso lavoro delle nuove generazioni, che hanno voluto rinsaldare il filo conduttore con il passato al fine di eliminare qualsiasi tipo di frizione generazionale e far tornare grande la tifoseria sipontina, come avrò modo di argomentare successivamente. In quegli anni nasce un’amicizia anche con il CUSP Casarano, all’epoca forse uno dei gruppi più in auge nel panorama provinciale. Sempre in ambito gemellaggi, serve qualche anno in più affinche prendessero vita anche quelli con i fasanesi e gli isernini, tutt’ora esistenti.

Parallelamente, sul manto verde, con il ritorno in D (1999) i sipontini si preparano a quello che sarà il miglior decennio calcistico della loro storia. La vittoria negli spareggi contro Venafro e Orlandina rappresenta forse il primo, vero, banco di prova per la tifoseria organizzata: in casa il Miramare fa registrare numeri impressionanti, mentre la trasferta in terra sicula – nell’andata della finale – suggella la crescita di un gruppo ormai rodato. Pronto per una categoria impegnativa e affascinante come la Serie D. Quella è anche la stagione delle imponenti coreografie realizzate con il Castellaneta (che torna prepotente nella letteratura della tifoseria garganica) e negli spareggi.

Nel 2003 sale ai vertici della società una cordata (addirittura agli inizi si parla di cento azionisti) favorita dal cosiddetto contratto d’area e capitanata dall’assessore comunale e provinciale Angelo Riccardi (in futuro sarà anche sindaco di Manfredonia) Quando si parla di contratto d’area – tanto per chiarire – bisogna sempre tornare su buona parte della storia narrata in precedenza. Le macerie lasciate dal petrolchimico fecero sì che lo Stato – in una sorta di caritatevole tentativo di rendersi meno cattivo agli occhi della gente – sul finire degli anni ’90 si impegnasse a favorire l’investimento sul territorio da parte di numerosi capitali del Nord Est, sgravati da svariate spese e tasse per cinque anni. Tralasciando qualsiasi considerazione del caso, in ambito sportivo il progetto funziona e dopo aver concretizzato una sua stabilità in Serie D trova il grande salto nel professionismo nel 2004, vincendo il campionato con ben sette punti di vantaggio sulla Pro Vasto sotto la guida di Bitetto. Un salto di categoria che l’anno successivo diventa doppio, con l’approdo in C1 e la definitiva consacrazione sportiva del Manfredonia.

Anche per i suoi ultras c’è da raccogliere quanto seminato. E senza dubbio nella mente di quella generazione restano scolpite le trasferte al San Paolo e all’Arena Garibaldi, ma anche l’Italia percorsa da Lecco a Gela, sempre con la stessa costanza. Mentre la squadra, oltre a conquistare un decimo e nono posto in C1 (piazzamento record tutt’oggi) si fa notare nel cammino della Coppa Italia 2005/2006, dove elimina il Treviso e l’Albinoleffe (allora in Serie B), sfiorando l’impresa con il Cagliari, vincitore solo ai calci di rigore. Eppure quella è anche l’ultima stagione delle Teste Matte, che a fine campionato ammaineranno i propri vessilli e il proprio striscione dopo quindici anni di militanza. Tre lustri in cui sono passati da uno striscione rudimentale, con i colori della squadra di volley femminile, ai campi bollenti della Puglia, alla crescita sotto il punto di vista della mentalità e a palcoscenici celebri del calcio nazionale. Segno che tutto ha un inizio e una fine. Ma tutto, anche nel mondo ultras, tende a trasformarsi e rimanere aderente ai tempi e all’universo giovanile, che questo movimento lo ha creato e nel quale dovrebbe avere sempre la prima voce in capitolo.

Dalle ceneri delle Teste Matte nascono due gruppi: Mentalità Sipontina e Orgoglio e Passione. Nel 2008 la squadra retrocede in C2 a causa della classifica avulsa che premia il Verona. Fatale proprio il match interno contro gli scaligeri – segnato peraltro da notevoli incidenti sulla spiaggia prospicente lo stadio -, dove i pugliesi non riescono ad andare oltre l’1-1. Nei due campionati successivi arrivano due salvezze e nel 2010 il sodalizio non si iscrive al campionato per inadempienze finanziarie, vedendosi costretto a ripartire dall’Eccellenza col nome di AS Manfredonia. Chiaramente è un duro colpo per la piazza e la delusione cocente allontana molte persone dal Miramare, sebbene la squadra in due anni torni in Serie D. In quegli anni, peraltro, torna in società una vecchia conoscenza: quel Lino Troiano già sponsor e poi presidente della squadra in passato.

La Serie D porta i sipontini al confronto con vecchie e nuove rivalità. In una di queste occasioni (più precisamente nel match di Pozzuoli contro la Puteolana) i due gruppi vengono dimezzati dalla mannaia repressiva, che già aveva ampiamente falcidiato gli ultras sipontini negli anni precedenti per svariate cause (incidenti con i veronesi al Bentegodi, esposizione di materiale non autorizzato, turbolenze con i barlettani), vedendosi costretti allo scioglimento. Un momento critico per il movimento ultras cittadino, che rimane sospeso per diverso tempo. Un passaggio temporale interlocutorio che viene interrotto con la ricomparsa sugli spalti delle pezze “Era l’Ottobre 1932” e “Per la maglia, per la città”, gruppi che per l’occasione spostano la centralità del tifo organizzato in Gradinata, abbandonando la curva. Una scelta fatta probabilmente per cercare di convogliare più gente possibile e dare un nuovo corso al tifo locale. Anche gli ultimi due tentativi, tuttavia, naufragano da lì a poco, mentre nel 2018 la società fallisce nuovamente ed è addirittura costretta a ripartire dalla Prima Categoria.

Con il gradino calcistico più basso raggiunto negli ultimi decenni, l’unica cosa da fare è puntare alla ricostruzione. Questo vale per il sodalizio sportivo, ma anche per la tifoseria organizzata, sebbene gli ultimi due gruppi nati vengano successivamente sciolti, lasciando un’altra lacuna in seno al tifo garganico. Ma ovviamente dove il terreno è fertile, dove un germoglio è sempre pronto a sbocciare e dove il corso ultras ha bene o male sempre fatto la sua storia, si cerca di gettare le basi per ricostruire solidamente. Qualcosa riparte in sordina, provando ancora una volta a dare continuità e riconoscendosi a distanza di qualche anno dietro l’insegna Quelli della Est. Sono i prodromi della generazione che probabilmente, più di tutte, proverà fattivamente a rimettere assieme i cocci e ridar lustro e corposità alla Manfredonia Ultras. Portare gente ovviamente è tutt’altro che facile. Il contesto sociale fa rima con emigrazione e fuga precoce dalla città, inoltre gli anni ’90 e le loro infinite comitive sono lontanissimi, per i ragazzi ci sono spesso altri svaghi e altre priorità. Difficile incastonarli in un discorso di curva e militanza. Questo per invitare tutti a non fossilizzarsi mai sull’aspetto numerico, perché sovente è relativo. Soprattutto quando parliamo di certi contesti e certe categorie. Mettiamoci poi, in questo caso, che al netto di un ritorno veloce in Eccellenza, la società ha faticato e non poco a programmare una stagione vincente per tornare in D. Il quinto livello calcistico italiano resta per tre anni la realtà dei sipontini, che nel frattempo – come detto – sono anche costretti ad abbandonare temporaneamente il proprio stadio per buona parte di quest’ultima stagione. Ai vertici societari è fondamentale l’arrivo di Giuseppe Di Benedetto, imprenditore di Trinitapoli che già aveva fatto calcio a buoni livelli nella sua città e a Barletta. Il suo ingresso coincide con un serio rafforzamento della rosa e con il dichiarato obiettivo di conquistare il campionato.

I ragazzi che si celano dietro l’ultimo progetto curvaiolo hanno sicuramente il merito di voler superare tout court ogni acredine con le generazioni passate, per il bene della tifoseria e per favorire il discorso aggregativo. Comprendo bene che la partita che mi appresto a vivere, oltre al mero significato calcistico, possa essere il vero e proprio primo scalino su cui salire e raccogliere un po’ del lavoro fatto in questi anni. Del resto le potenzialità della città in fatto di numeri e attaccamento si sono manifestate in diverse occasioni, vedasi – ad esempio – la bella presenza di Apricena in occasione della finale di Coppa Italia Regionale contro il Manduria, in una delle tante tappe del girovagare stagionale.

Attorno allo stadio c’è un gran viavai di gente, nonché un discreto dispiegamento di polizia. Con i biscegliesi esiste una rivalità abbastanza sentita e questo mette ancor più pepe sulla sfida. Gli ultras sipontini sbucano dall’angolo che divide la Sud dalla tribuna coperta, inscenando un piccolo corteo alla volta della Gradinata. L’entusiasmo e la tensione si fondono in un unico sentimento: oggi è uno dei giorni più importanti degli ultimi anni. Oggi il Delfino biancazzurro potrebbe compiere il primo passo verso il massimo livello del calcio dilettantistico, ponendo le basi a nuove avventure e a nuovi confronti. Malgrado abbia dormito poche ore negli ultimi sette giorni e il polline mi stia letteralmente distruggendo, percepire quest’aria frizzante è una boccata d’ossigeno, che mi rende sempre felice per aver percorso chilometri e impiegato tempo. L’entusiasmo di una piazza che si appresta ad entrare allo stadio è una delle più belle sensazioni che si possano provare quando si respira quotidianamente l’aria di questo universo.

E allora è anche il mio momento. Neanche a dirlo il mio accredito c’è ma teoricamente non è per il campo. O forse sì. O forse no. Nessuno lo sa. Io per non saper né leggere e né scrivere mi butto oltre la porta che dà sul terreno di gioco, mi infilo la pettorina e inizio a scattare. Nell’indecisione altrui conviene sempre sfruttare le proprie certezze! Eccomi al centro della Fossa dei Leoni: da una parte il centro storico, dall’altra l’Adriatico. Tutto attorno quattro gradinate che ospiteranno un’ottima cornice di pubblico. La prima cosa da fare è gettare un’occhio al settore ultras, che sta preparando una coreografia con migliaia di bandierine biancazzurre. Per l’occasione il gruppo si è sistemato proprio nel centro, cosa che alla lunga si rileverà a dir poco vincente.

Credo che una menzione speciale la meriti questo particolare impianto di gioco, come detto ricavato da una cava. Più precisamente dalla cava “Salzano”, dove negli anni ’30 del ‘900 diversi giovani avevano cominciato a spostarsi dalla centrale Piazza Duomo – che in precedenza era solita ospitare i giochi con il pallone – occupandosi anche di bonificare gli ampi spazi ricoperti da acquitrini. Con l’avvento del fascismo in tutta Italia venne accelerata la costruzione di impianti sportivi polifunzionali. Malgrado una base fosse stata già creata dai suddetti ragazzi, il regime non vedeva di buon’occhio ciò, essendo finalizzato solo al gioco del calcio. Così venne indicata una zona leggermente più a levante del Viale Miramare, ma i lavori non furono mai ultimati per cause ancora incerte. Con lo sbarco degli Alleati il campo venne occupato da inglesi e americani che – malgrado un suo parziale smantellamento – continuarono a giocarci, divenendo in un’occasione anche oggetto di sassaiole da parte dei tifosi sipontini, poco inclini a vedere il proprio spazio sottratto dallo straniero. Nel dopoguerra lo stadio continuò a esser oggetto di problemi e dispute. Essendo in parte di proprietà della mensa arcivescovile, si tentò di erigere sul suo suolo una chiesa. Cosa evitata solo da un vero e proprio baratto di immobili tra l’Arcivescovo e il Comune. Mentre in più di un’occasione si provò a rilanciare l’idea di un nuovo impianto, cosa che però non prese mai veramente forma. Di fatto le condizioni del Miramare migliorarono realmente solo a inizio anni 2000, quando dei primi – robusti – lavori di ristrutturazione lo videro protagonista. Per poi esser ulteriormente sistemato a ampliato con l’arrivo della squadra locale in Serie C.

Ed oggi il cuore del calcio sipontino rivede la luce, tornando al suo splendore e accogliendo innumerevoli tifosi. La Gradinata comincia a riscaldare i motori e sin da subito si capisce che sarà una grande giornata di tifo per tutti i 90′. Tradotto: manate granitiche, cori a rispondere compatti, tifo veramente di livello superiore e un apporto cromatico bellissimo. Dalla coreografia – “Nella fossa dei leoni per tornare campioni” -, dove si innalzano migliaia di vessilli, passando per la sciarpata e finendo con la sbandierata che saluta lo 0-0 in grado di mandare i garganici in finale. Nulla avviene mai per caso e quella di Manfredonia è l’ennesima occasione in cui si palesa l’assoluta necessità di far fronte comune, soprattutto nelle piazze più piccole. L’importanza di unire le forze, superare divisioni e diversità, per tornare grandi insieme. Inoltre mi permetto di dire che nell’omologazione imperante che investe ormai la stragrande maggioranza delle curve, anche in questo i manfredoniani si dimostrano al di fuori di taluni “circuiti”. Cori tenuti a lungo e senza la pretesa di recitare un vero e proprio “poema” nel testo, andando a rendere impossibile la partecipazione anche da parte di chi non frequenta troppo spesso le gradinate. Il tamburo batte senza strafare, non ricalcando lo stile est-europeo che a molti piace, e infatti risulta piacevole e fondamentale per l’intensità dei cori.

Io credo – anzi ne sono fermamente convinto – che lo stile italiano resti ancora oggi impareggiabile. Per questo motivo quando mi ritrovo di fronte a tifoserie che lo rispolverano fedelmente, non posso che ritenermi appagato. Guardando “dentro” il settore ultras di casa noto una bella eterogeneità e un fomento che viene ben convogliato dalla balaustra. Del resto – non mi vogliate male – ci sono casi in cui potenziali davvero importanti vengono dilapidati dall’incapacità di guidare la folla, rispecchiandosi in prestazioni scadenti. Far cantare i tifosi non è compito facile: bisogna saper leggere la partita anche se si è di spalle e bisogna capire l’umore di chi si ha davanti. Impedire un coro contro una tifoseria avversaria (ovviamente rivale) per giocare a fare il “superiore” credo sia cosa controproducente, il football si nutre di ciò. E non è un caso, infatti, che dalla Est in più di un’occasione si sia levato potente l’urlo contro i dirimpettai. Sia in risposta che per “attaccare”.

Sulle pezze principali del tifo sipontino – rigirate per protestare contro le diffide piovute in seguito al match col Barletta dello scorso campionato -, adornate da quelle dei gemellati di Tricase, si sistemano ordinatamente lanciacori e ragazzi che hanno il compito di scuotere la curva. Sebbene i numeri non siano stati questi durante la stagione, l’omogeneità con cui avviene il tifo e il coinvolgimento di tutto il pubblico, lasciano intendere quanto Manfredonia sia in sinergia con la propria squadra e quanto il calcio rivesta un ruolo importante nel tessuto cittadino. Questo anche andando oltre il contesto curvaiolo, dove comunque le radici della storia ultras sono ben conficcate nel terreno e malgrado annate sfortunate, non sono mai state messe in dubbio. Perché la percezione che ho guardando tifare in modo magistrale la Est, è che nulla sia improvvisato, ma figlio di un lavoro ben preciso. E se sarà Serie D, l’anno prossimo, sarà anche un banco di prova fondamentale per testare il polso di questo corso ultras. Sicuramente propositivo e pensante, almeno per il momento!

Il bello di questa giornata – come in ogni contesa calcistica che si rispetti – è ovviamente anche la presenza degli ospiti. Da Bisceglie giungono in buon numero e si dimostrano agguerriti sin dai primi momenti. Sistemati dietro le loro pezze (tra cui quella dei gemellati lancianesi) i supporter nerazzurri mettono in mostra una buona dose di pirotecnica, qualche bandierone e un tifo costante per tutta la partita. In un paio di occasioni tentano di “avvicinarsi” alla Gradinata, finendo in un sempreverde scambio di insulti e gestacci. Che per il sottoscritto rappresenta, manco a dirlo, un bel vedere. Complessivamente, comunque, ho apprezzato lo spirito con cui gli ospiti si sono presentati al Miramare, per nulla vogliosi di recitare la parte di gregari o vittime sacrificali. Gli applausi a fine partita, malgrado l’eliminazione, premiano una squadra che ci ha provato fino all’ultimo e che sicuramente si farà trovare pronta ai nastri di partenza della prossima stagione.

Tornando al pubblico di casa, il significativo abbraccio con i giocatori è propedeutico alla finale da disputare contro il Gallipoli a Fasano. La gara più importante degli ultimi anni, dove il contingente ultras sipontino si farà trovare pronto, continuando nella sua opera di crescita e nella speranza di poter festeggiare.

Rimango ancora per un po’ all’interno dello stadio, osservando il pubblico defluire e rimanendo di fronte agli spalti pressoché vuoti. Il tempio è tornato a riempirsi di fedeli, e questa forse è la notizia più bella. Di fuori una miriade di clacson imperversano per le strade, mentre il tifo organizzato si dirige verso la propria sede tra una torcia e un coro. Non c’è da festeggiare una promozione, ancora, ma sicuramente una giornata da incorniciare. Perché la fine di un esilio, il riappropriarsi della propria dimora è sempre un qualcosa di sublime, che ahimè non dovrebbe neanche essere messa in dubbio. E inoltre da oggi c’è una consapevolezza, almeno credo: la Gradinata Est è tornata a ruggire a tutti gli effetti e ha terreno fertile per completare l’opera di crescita. Aggregativa e curvaiola.

In questo lembo di terra garganica sembra esser sopraggiunta l’estate e la sera i locali già cominciano a riempirsi, mentre in lontananza le luci delle barche si riflettono sul mare. Su Corso Manfredi sono in tanti a girare ancora con maglie e sciarpe biancazzurre addosso e nonostante la mia stanchezza è piacevole respirare un’aria che sa di buono, lontana dalle serate mondane che inondano talune città costiere e a misura d’uomo. Proprio come la vicinanza tra i colori del club e il cuore di chi li indossa.

Le tenebre calano e l’indomani mi lascia qualche ora per visitare una città ovviamente diversa da quella domenicale. Una città intenta a lavorare e che nei suoi vicoletti riserva spunti fotografici e murales. Quello dedicato a Lucio Dalla, dove sono appoggiati due ciclisti tedeschi, mi ricorda il rapporto viscerale tra il cantante bolognese e la città. Un rapporto che nacque grazie alla mamma di Dalla, stilista del dopoguerra che nella Capitanata aveva diversi clienti e dove era solita venire nei mesi estivi. Approfittando della bella stagione per portare il figlio al mare. “Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare…”. Nella celebre 4 marzo 1943 Dalla parla proprio del mare sipontino, tanto che sulla copertina dell’omonimo 45 giri venne impressa l’immagine del porto di Manfredonia. Un’immagine in bianco e nero, a mescolare la nostalgia del cantautore per quella che ha sempre vissuto come la sua seconda casa e l’entusiasmo nel poterla stampare per sempre nella storia della musica italiana, quasi a volerle lasciare un tributo eterno. Lui, che successivamente diverrà cittadino onorario.

E di quel passato dove il Gargano era ancora un posto sconosciuto ai più e Manfredonia una città che stava subendo ingenti trasformazioni, rimane anche il vecchio tracciato della linea ferroviaria per il capoluogo. Che un tempo arrivava proprio alle porte del centro abitato, con il tronchetto della stazione Manfredonia Città a fare da avamposto. Venne arretrato nel 1989, a causa dell’aumento del traffico e dell’oggettiva pericolosità di una banchina praticamente senza protezioni, riutilizzando la fermata di Manfredonia Campagna e rinominandola semplicemente Manfredonia. Da qualche tempo il traffico è totalmente interrotto, ad appannaggio del trasporto su ruota. Da malato di treni la cosa non può che comunicarmi malinconia, a maggior ragione mettendomi al centro dei binari e vedendo all’orizzonte la linea proseguire, insinuandosi verso Siponto e attraversando millenni di storia.

Ma è una malinconia di quelle che vanno tenute strette, perché legata a passioni e storie di vita. Il mio pullman delle Ferrovie del Gargano è pronto a partire alla volta di Foggia. Il tempo di tornare a casa è venuto. In breve mi lascio il mare alle spalle, ripercorrendo queste lingue d’asfalto che intersecano la Daunia. Ci sarà modo di tornare, ci sarà modo di rivedere il sole sorgere su un mare a me “contrario”. Mi resta nella mente l’immagine del Miramare vuoto, visto dalle grate dei suoi ingressi, dalle quali in qualche spiraglio si vede pure un pezzetto di Castello. Mi resta nella mente una Manfredonia forse distante da uno sviluppo economico adeguato ai suoi abitanti, ma sicuramente con il cuore in mano nel raccontare e vivere la propria identità e la propria storia. Con l’orgoglio di chi nella sua esistenza ha saputo affrontare difficoltà e invasioni mortali, senza tuttavia ammainare il vessillo. Sempre in grado di rinascere e alzare la testa. “Pride of Gargano”, come recita un due aste della Gradinata Est!

Simone Meloni