C’è un mondo dietro al nostro mondo. È quello degli striscioni finiti nottetempo, lasciati asciugare per il giorno dopo. Quello dei pre partita, delle risate al bar e della tensione che sale con l’avvicinarsi della partita. Quello delle chiacchiere infinite su tempi passati. Aneddoti, storie e spaccati di vita vissuta che possono sembrare bislacchi a chi li sente dal di fuori, a chi nello stadio vede solo il semplice luogo dove si svolge una partita.

C’è il personaggio strambo da osservare e ammirare. E perché no, magari sfottere bonariamente perché di fondo gli si vuol bene. Ci sono ragazzi che hanno percorso migliaia di chilometri assieme e che possono raccontare più della metà dell’esistenza di una comune persone, perché il proprio striscione e la propria fede li ha guidati al di là di confini geografici. Al di là di barriere economiche. Ultras è anche riuscir a esserci pur non avendo un Euro in tasca.

C’è il ragazzo che prova a farcela senza biglietto e c’è quello che si ingegna su come far riuscire al meglio la coreografia. C’è chi pensa a quale tamburo portar dentro e chi sistema il materiale, perché dev’esser perfetto. Quasi maniacale. Poco importa se poi, nella vita di tutti i giorni, alcune persone di questo mondo non si incontrerebbero mai. Anzi, sovente appartengono a universi talmente distanti che la società quasi gli consiglierebbe di non tollerarsi a vicenda. Magia dell’aggregazione ultras.

C’è la stanchezza di chi si barcamena tra lavoro, famiglia e gruppo. Cercando comunque di esserci. Cercando comunque di dare il proprio contributo. Perché il ritorno in fatto di amore e soddisfazione è unico e c’è la percezione che anche un ugola in più a cantare sia determinante per la riuscita del tifo.

C’è poi oggi la contrapposizione magnifica tra due mondi calcistici e curvaioli. Tra due tradizioni lontane ma consolidate e dagli ingranaggi oleati, in grado di rappresentare con fierezza sé stessi e tutti i propri valori. In uno classico confronto tra città e provincia, che forse in quest’occasione fornirà la più interessante delle eterogeneità sugli spalti.

Metteteci pure che siamo in Sicilia, non certo in una regione qualunque. E soprattutto siamo a San Cataldo, nella zona centrale dell’isola. Un posto lontano dall’immaginario collettivo di quella regione affollata d’estate per il suo mare. Qua ci sono infinite distese di colline e strapiombi che a vederli dalla ferrovia che congiunge Catania a Caltanissetta ricordano i grandi canyon americani, restituendo una volta tanto l’idea di vastità della natura in confronto alla mano – spesso criminale – dell’uomo.

Ma dell’aspetto geografico di questa zona ho avuto modo di parlare già nella mia prima esperienza sancataldese, ormai cinque anni fa. Quello su cui mi voglio soffermare oggi è il dietro le quinte. E sapete perché? Perché per chi non lo conosce, per chi non ne ha sentore, risulta poi difficile capire e giudicare appieno anche il clima e l’ambiente durante la partita. Non sono sufficienti novanta minuti per comprendere dove si è e con chi si ha a che fare. Il naso si deve inebriare prima dei profumi che circondano l’evento e gli occhi devono vedere le facce di chi ne sarà protagonista.

E sì che l’arrivo del Catania pure qua ha causato più di qualche problema logistico. Se in molte altre piazze le società sono arrivate addirittura a svendere la curva di casa ai tifosi etnei, causando la logica e comprensibile diserzione del tifo organizzato autoctono, almeno a queste latitudini si è avuto il buon gusto di non mettere mai in discussione ciò. Mi piace credere che questo sia avvenuto anche per la ventennale presenza del Commando Neuropatico e del suo arcinoto pensiero ultras, distante dalle luci della ribalta ma ferreo e radicato, ben chiaro a chiunque prende in gestione la Sancataldese. E di certo, per come si è svolta la giornata, perdere i ragazzi della curva oggi sarebbe stato davvero un autogol clamoroso.

Ciò detto non passa certo inosservato il prezzo di 15 Euro imposto a tutto il pubblico (per l’occasione gli abbonamenti non sono stati validi) e il settore di tribuna scoperta (più capiente) assegnato ai catanesi, con il pubblico di casa spostato in tribuna scoperta (generalmente assegnato alle tifoserie ospiti). Se da una parte posso capire la società (l’incasso odierno rappresenterà probabilmente buona parte del totale di quelli stagionali e a questi livelli il botteghino può determinare un’annata dal punto di vista economico) e se non si può pretendere che dirigenti calcistici ragionino da ultras, dall’altra rimane sempre un po’ l’amaro in bocca nel pensare che a fronte del Dio denaro anche il pubblico fedele, che ti segue sempre, passi un po’ in secondo piano. Fondamentalmente quello che si chiede è rispetto, pur dovendo rispondere a delle logiche di mercato per rimanere in piedi come sodalizio sportivo.

Alle falde dell’Etna sono stati staccati 1.500 biglietti. Ennesima invasione di una tifoseria che trabocca di passione per la propria squadra e che dopo il fallimento si è rimboccata le maniche ricompattandosi alla grande e costruendo, con tutta probabilità, importanti basi per il futuro. I rossazzurri non hanno certo bisogno della mia presentazione, ma con l’aria disfattista che tira in Italia e con una repressione sempre più oculata a emarginare gli spazi aggregativi e a distruggere ogni germoglio di passione, fa sempre piacere constatare che in queste grandi piazze il pensiero ultras persista in modo granitico, formando ragazzi e portandoli ad avvicendarsi sulla balaustra per scrivere nuove pagine di storia, per la propria curva e la propria città. Il famoso “dietro le quinte” è anche qui. Sta anche nel lavoro da fare per tener in vita la fiammella, perché anche se ti chiami Catania e hai un ricambio importante e una storia profonda, devi avere l’umiltà di lavorarci. Per non campare solo di passato. Cosa che mi sembra venga fatta ottimamente in questa circostanza.

Al contempo mi rendo conto che, invece, per una realtà come San Cataldo, se da una parte questa sia una domenica di “gala”, in cui portare numeri importanti e far avvicinare qualcuno alla curva, dall’altra sia più un peso che una gioia. Gli ultras amarantoverdi sono una di quelle realtà cresciute su campi polverosi, facendosi le ossa nella provincia siciliana – non proprio una passeggiata, per intenderci – e sono maturi al punto giusto per preferire un sano derby con Licata o Caltanissetta (ma anche una normale sfida contro tifoserie storiche del panorama “minore” italiano) rispetto all’evento dell’anno. Ed anche in questo c’è molto “dietro le quinte”. Perché è nel backstage che si costruisce una realtà così solida e longeva. È nel dare alla partita contro il Portici o contro il San Luca la stessa importanza di quella contro una tifoseria che nella sua storia recente vanta diversi anni di Serie A e confronti altisonanti con le metropoli nazionali.

Nelle vie che circondano il Valentino Mazzola cominciano ad assembrarsi tifosi. Mancano poco meno di due ore al fischio d’inizio, ma un paio di bar vengono “occupati”, mentre qualcuno si prodiga nella consumazione delle tipiche arancine. C’è aria di grande evento, ma non aria di festa tra gli ultras locali. Il rischio di sfigurare di fronte a un’icona del movimento ultras italiano c’è, e per questo leggo negli occhi dei presenti la meticolosità con cui si stanno avvicinando al fischio d’inizio.

Per quanto possa essere imparziale, devo riconoscere che dal Commando Neuropatico ho sempre l’impressione di esser catapultato in un’altra era. Qua si fanno le cose semplici e si ragiona senza troppi ricami, senza influssi malevoli dei social o di una modernità che ha trasformato molte curve in entità 2.0. Un loro coro recita: “La Sicilia quella grezza siamo noi”. C’è davvero l’essenza dei sancataldesi in quelle parole. E si faccia attenzione, “grezzo” in siffatta occasione assume un significato tutt’altro che dispregiativo. Altro non è che la traslitterazione di vero, genuino, sano. Di gente che, per l’appunto, vive nel “dietro le quinte”, sapendo condividere una mangiata, una serata o un semplice confronto maturo e costruttivo. Senza troppe iperboli complesse. E poi loro sono la Sicilia “grezza” perché fuori dal circuito convenzionale, con lo sguardo che non può quotidianamente arrivare a vedere il mare ma che grazie al pensiero ultras lo ha saputo varcare, foraggiati dalla propria indole.

Il cambio generazionale che noto, l’avvicendarsi – e il mescolarsi – tra vecchi e giovani, è figlio proprio di quest’indole. Del non chiudersi in sé stessi ma, allo stesso tempo, di far fede a chi si è sempre stati. Far colpo sui ragazzi di oggi non è cosa semplice considerate le tante distrazioni di cui dispongono, ma quando dietro ci sono le menti, i cervelli pensanti, si può arrivare lontanissimo anche se si parte da un luogo remoto del mondo. La ragione abbatte qualsiasi ostacolo e forgia anche chi meno ci aspetteremmo.

Il momento di circumnavigare lo stadio e fare il mio ingresso sul manto verde è arrivato. Sulla strada incrocio l’arrivo degli ultras etnei, nella fattispecie dei ragazzi della Curva Sud, che in un bel blocco si stanno dirigendo verso il proprio settore. Una volta tanto riesco a conquistare la via degli spogliatoi senza grossi problemi. Ritirando la mia pettorina e cominciando a sondare il terreno, per capire dove avere a portata di scatto entrambe le tifoserie durante l’incontro.

Le gradinate vanno man mano riempiendosi, con gli striscioni dei gruppi che saranno completamente affissi su ambo i fronti quando mancano dieci minuti all’inizio. La tribuna alle mie spalle – quella eccezionalmente assegnata ai sancataldesi quest’oggi – è colma in ogni ordine di posto. L’ambiente si comincia a scaldare quando i tifosi d’U Liotru (l’elefante simbolo di Catania) irrorano i primi cori di giornata. Le due curve del Cibali sono presenti al gran completo e armate di tamburi e megafoni cercano sin da subito di coordinare i molti presenti. Il risultato sarà quello voluto, con una prestazione veramente sopra le righe. Mi si perdoni l’entusiasmo, ma di fronte a esodi di massa sono ormai sempre scettico, abituato a tifoserie che sovente riescono a tifare in poche unità malgrado la marea umana a disposizione.

I catanesi invece confermano un’impressione avuta tanti anni fa, quando si presentarono in oltre settemila a Roma e, malgrado una sonora sconfitta per 7-0, riuscirono a macinare una delle migliori prestazioni realizzate da tifoserie ospiti italiane viste nella mia vita. Non è solo un fatto di cultura calcistica e di riconoscimento del Catania come squadra cittadina, è anche un fatto di tigna e strada ultras intrapresa e percorsa ormai da tanti anni. Al di là della categoria. Il blocco centrale è numeroso e compatto, oltre a una continuità e un’intensità davvero notevoli. Nelle numerose occasioni in cui si riesce a coinvolgere anche l’ultimo tifoso posto ai lati del settore il risultato è davvero impressionante. Aggiungiamoci una buona dose di torce e fumogeni e avremo come risultato un’ottima prova di tifo.

Inoltre, aggiungo, ho apprezzato davvero molto il modo in cui gli etnei hanno approcciato agli spalti. Senza un briciolo di spocchia e senza prendere sottogamba l’evento. Modus operandi che è stato certamente indotto anche dall’aver di fronte una tifoseria storica, che oggi si è prodigata in una performance importante. E mi permetto di estendere questo giudizio non solo al settore del Commando, ma anche a tutto il pubblico. Con tutta probabilità il Catania ha trovato a San Cataldo un vero e proprio clima da Serie D: tifosi appiccicati alle reti, per nulla intimoriti dal blasone dell’avversario e sempre pronti a protestare, rimbrottare e rumoreggiare. Una squadra, quella di casa, che ha “menato” dal primo all’ultimo minuto, non lasciando troppo spazio alla capolista sinora imbattuta e nettamente lanciata verso la promozione. Insomma una dose salutare di calcio vero e proprio, nella sua interezza e senza troppi fronzoli dettati da codici etici, ipocrisie e morali ormai dilaganti in questo sport.

E i sancataldesi? Beh, i numeri portati sono ovviamente al di sopra della media stagionale. E non era facile coordinare persone non abituate a fare il tifo con gli ultras o a frequentare determinati palcoscenici. Così gli supporter di casa sono partiti come un motore diesel, aumentando gradualmente i giri e andando a firmare una prestazione che merita un plauso per colore, passione e intensità. Inoltre come non sottolineare un repertorio corale che non trova riscontro nel “copia e incolla” ormai tanto in voga nelle curve italiane? Canti sempre originali o pescati dal passato, che non a caso riescono spesso a coinvolgere anche il più pigro dei presenti.

La fumogenata che si leva al cielo nel secondo tempo merita una menzione particolare. Sia perché in questi tempi di criminalizzazione della pirotecnica è una rarità vederne, sia perché la sua riuscita è talmente intensa e bella da rimanerne quasi stregati. Fumogenata che arriva prima delle due sciarpate eseguite nel finale, una delle quali sulle note del Pianto di Maria, canzone popolare che contraddistingue la settimana precedente a Pasqua, festeggiata per le strade di San Cataldo in maniera particolare, tra cortei e notti in bianco da passare in strada. Ovviamente una curva così identitaria, che rientra d’uopo ormai in uno dei principali monumenti e movimenti cittadini, non poteva che prendere questa sinfonia come colonna sonora sulla quale stendere decine di sciarpe con i colori sociali.

Come detto, in campo la disputa è coriacea. E all’immediato vantaggio casalingo risponde dopo pochi minuti il Catania, siglando l’1-1 che poi sarà il risultato finale. Un punto ciascuno che raccoglie la soddisfazione della tifoseria locale, ovviamente paga della bella prestazione offerta dai giocatori. Applausi però anche per il Catania, netto dominatore del girone fino a questo momento. Prima di abbandonare il terreno di gioco mi godo gli ultimi cori, in particolar modo quelli del Commando. La curva sembra non volersi svuotare e i lanciacori ora sono perfettamente unisoni nel fomentare i presenti, cantando per loro stessi e per l’orgoglio di una città che per una giornata ha tenuto testa al gigante di turno.

Uscendo passo per la tribuna, nella speranza di trovare qualche biglietto utile alla mia ormai vecchia collezione. È rimasta l’unica raccolta in cui ancora sono attivo e per la quale sono disposto a spendere tempo per non rimanere con un pugno di mosche in mano. Perché poi, rivedendo quei tagliandi, leggendo data e incontro, la mia mente possa tornare a sfiorare un preciso ricordo, a riaprire i cassetti della memoria. A riassaporare, ovviamente, il dietro le quinte di quella situazione.

Perché, manco a dirlo, anche io ne ho uno. Anche io racconto storie che nascono giorni e settimane prima, quando decido di andare a vedere una partita e di narrarne la giornata. E tutto quello che vedo, che sento, attorno all’evento, rappresenta un bagaglio inenarrabile e incancellabile, su cui probabilmente fondo gran parte del modus vivendi di questo universo curvaiolo. Uomini, sensazioni, momenti. Ancor prima del tifo vero e proprio, che in fondo rappresenta l’atto finale di tutta questa preparazione.

Ci sono ancora ragazzi al bar, con la sciarpa al collo, quando le tenebre cominciano a calare sulla città. I catanesi hanno lasciato alla chetichella San Cataldo, mentre i padroni di casa commentano la giornata e si godono questo squarcio di serata siciliana. Qualche anziano commenta con orgoglio la prestazione calcistica, condivide la cattiveria agonistica vista. Distante anni luce dalle nefandezze di chi vorrebbe regnasse l’ordine e un’ipocrita “educazione” in quei novanta minuti.

In un mondo – che è ancora sotto al mondo che io posso percepire visivamente – ci dev’essere l’essenza dell’essere figli di quest’isola. Che anche al suo interno ha ovviamente genti, dialetti e modi di fare diversi. Ma che unicamente si riconosce nella bandiera della Trinacria, apposta qua e là con orgoglio.

Chiudo gli occhi a notte fonda. Lontano dalla terraferma e rasserenato nell’animo per aver vissuto giornate come queste. Il viaggio porta stanchezza, ma anche la dolce consapevolezza di errare per il gusto di assaporare una vita forse troppo corta per esser sprecata in qualcosa di diverso, non conoscendo quello che ci circonda e non traghettando furiosamente le nostre passioni.

Simone Meloni