A inizio settembre Budapest è ancora invasa dal flusso turistico che ormai da qualche anno l’attanaglia in alta stagione. La capitale ungherese si è scoperta da diverso tempo una meta ambita, apprezzata e frequentata. Le compagnie low cost hanno permesso di raggiungerla facilmente e con prezzi accessibili, mentre la sua bellezza ha fatto il resto. Sovvertendo anche il preconcetto insito in tanto occidentali, che guardano a Est sempre con un soffio di spocchia e molta arroganza. Dimenticando, peraltro, che nella fattispecie non si parla di una città qualunque, ma di un luogo che per secoli è stato – in coabitazione con Vienna – capitale culturale di uno degli imperi più longevi e socialmente avanzati della storia europea.

Per tutta una serie di circostanze, nelle mie due precedenti sortite ho sempre dovuto visitare la città con una certa fretta, avendo poco tempo a disposizione. E questo di certo non si confà alla conoscenza più accurata di Budapest. Vivendo in una città iper turistica come Roma, che ormai da tanto tempo ha perso buona parte della sua identità, quando mi trovo al cospetto di metropoli europee cerco sempre di andare oltre la “grande distribuzione” o i luoghi mainstream. Bisogna trovare l’anima anche laddove sembra più sopita e nascosta. E allora quale luogo migliore di uno stadio? Soprattutto se in occasione di una stracittadina, dove giocoforza due spiriti verranno contrapposti da un pallone, facendo affiorare tutto lo spontaneismo del caso.

A vederla da fuori l’Ungheria può sembrare un Paese complesso, distante dalla nostra cultura. Basti pensare alla lingua nazionale, facente parte del ceppo ungro-finnico, dichiarato recentemente a rischio estinzione, parlato solo qui, in Finlandia, in alcune remote aree della Russia e a dir poco complicato (se non impossibile) da decifrare. Il classico esempio è la traduzione della parola “Italia”, che a queste latitudini viene chiamata Olaszország (letteralmente “Paese Latino”). In realtà, scavallata la diffidenza e la parziale scontrosità degli autoctoni, in ambito socio/calcistico le affinità non mancano. E non solo per il richiamo al nostro movimento ultras, ma più in generale nel seguire e amare il pallone.

Il rapporto del popolo magiaro con il football ha radici storiche importanti, che riverberano inevitabilmente gli anni della grande Ungheria. Lo squadrone che nel 1954 sfiorò la vittoria del Mondiale in Svizzera, venendo sconfitta dalla Germania Ovest in quello che i tedeschi chiamano “Il Miracolo di Berna” (vittoria su cui tutt’oggi pende più di qualche dubbio circa pratiche dopanti utilizzate dai teutonici prima della finale). L’Aranycsapat (squadra d’oro) era composta dall’ossatura della Honved – altro storico sodalizio budapestino – tra le cui fila oltre a Ferenc Puskàs, sono passati alla storia i nomi di Gyula Grosics, Nándor Hidegkuti, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis. Veri e propri eroi nazionali, all’epoca ammirati da tutta l’Europa calcistica. Per rendere idea di quanto la scuola magiara fosse rispettata e considerata basti pensare che anche l’Italia – già campione del mondo in due occasioni – si avvalse del lavoro di alcuni tecnici locali, tra cui sicuramente merita menzione Alfréd Schaffer, vincitore del primo scudetto romanista nel 1942.

Se negli anni l’Ungheria non è più riuscita a sfornare una simile nidiata di talenti, il calcio non ha certamente perso appeal. Anche perché il calcio è identità, campanile e appartenenza. Da qualche anno la nazionale è tornata a disputare la fase finale di Europei e Mondiali, mentre alcuni club (Ferencvàros su tutti) hanno inanellato una discreta serie di qualificazioni ai gironi di Champions ed Europa League. Segno che dopo la decadenza ultratrentennale, che aveva ridotto il calcio magiaro a movimento periferico e di basso livello, più di qualcosa si è mosso. Del resto anche dal punto di vista dell’impiantistica, l’Ungheria ha compiuto degli importanti passi in avanti, con il quasi totale rifacimento dei maggiori stadi. Opere, tuttavia, soggette a una robusta critica da parte di una popolazione che attualmente “vanta” una media salariale tra le più basse d’Europa (poco meno di 500 Euro) e che contesta al governo spese effimere anziché investimenti nel settore sanitario e delle infrastrutture (per la seria: “Similitudini con l’Italia”).

Budapest, con le sue numerose squadre, continua a rappresentare un punto di riferimento per un Paese che conta poco meno di dieci milioni di abitanti, di cui un quinto stanziati nell’area metropolitana della Capitale. Quindi il derby tra Fradi e Lilák rimane un evento di prim’ordine, sebbene negli anni le gerarchie del pallone siano cambiate e da qualche anno ormai l’Újpest non versi in condizioni propriamente rosee.

Ma qua serve un attimo fare il punto della situazione per inquadrare al meglio questa stracittadina. Come accennato Budapest vanta diversi sodalizi calcistici. Ognuno con una propria storia ben delineata e con un rispettabile numero di titoli vinti. Basti pensare che tra le prime sei squadre che hanno conquistato più volte lo scudetto, ben cinque sono della Capitale (Ferencvaros, MTK, Újpest, Honved e Vasas). Un’egemonia che è stata leggermente intaccata dal subentro del Debrecen, in grado di salire ai vertici da metà anni duemila.

In principio, dunque, la maggiore rivalità cittadina non era quella che oggi andiamo ad eviscerare, semmai i match più sentiti e che assumevano un carattere di scontro sociale – per diverse ragioni – erano quelli tra Ferencvàros e MTK o Honved. Come si può intuire, dunque, a prescindere dai dirimpettai affrontati è il Ferencvàros a indossare le vesti di club più amato e odiato d’Ungheria. Un club e dei tifosi che hanno sempre fatto discutere e che in molti ricollegano alle ali più oltranziste del nazionalismo magiaro. I Fradi (soprannome di origine tedesca con cui i biancoverdi sono conosciuti) nascono nel 1899 in seno all’etnia teutonica budapestina, all’epoca in forte contrasto con la forte espressione ebraica della città, rappresentata calcisticamente dall’MTK. Letteralmente il nome significa “Città” (Varos) di Francesco (Ferenc), e ricalca l’ominimo quartiere fondato da Re Francesco I, incoronato Re d’Ungheria il 4 dicembre 1792.

Un’acredine che ovviamente si è acuita successivamente all’emanazione delle leggi razziali, quando passò il concetto che il Ferencvàros fosse il club delle Croci Frecciate (partito filo-nazista e anti-semita che guidò il Paese tra il 1944 e il 1945). Mentre l’MTK nel 1941 venne dissolto, per poi esser rifondato nel dopoguerra.

Questa credenza si riverbererà – forse eccessivamente – fino ai giorni nostri. Indubbiamente in ambito stradaiolo e di stadio spesso e volentieri le partite tra Fradi e MTK sono diventate un chiaro attacco alla matrice ebraica dei biancazzurri. Atteggiamento che comunque è ascrivibile a un po’ tutte le tifoserie nazionali, non a caso come giustamente descritto nell’articolo di Újpest-MTK da noi pubblicato qualche anno fa, l’MTK è sicuramente il sodalizio più mal tollerato d’Ungheria.

Con il controllo governativo esercitato nel dopoguerra dai sovietici l’equazione Ferencvàros=Sciovinismo fece sì che praticamente nessun giocatore dei Fradi figurasse nell’Aranycsapat. Conseguenza anche della chiara volontà del leader Mátyás Rákosi (e spalleggiata dal c.t. Gustav Sebes, anch’esso attivo in politica) di convogliare tutti i più fulgidi talenti del momento in una sola squadra. A tal merito venne scelta l’Honvéd del quartiere Kispést (che in ungherese significa “soldato a difesa della patria”), per la sua estrazione popolare. In maglia rossonera passarono anche i talenti Kocksis e Czibor, entrambi del Ferencavros.

La storia più interessante di questo periodo è senza dubbio quella che riguarda Gyula Grosics, portiere dell’Ungheria più forte di tutti i tempi e tifosissimo del Ferencvàros. Obbligato anch’esso dal regime a militare nell’Honvéd riuscirà a coronare il sogno di indossare almeno per una partita la maglia delle Aquile Verdi nel 2008 – alla veneranda età di 82 anni -, dando il calcio d’inizio in occasione di un’amichevole contro lo Sheffield United e rimanendo in campo per quaranta secondi.

E l’Újpest? Questa squadra nata nell’omonimo sobborgo agricolo e proletario – divenuto poi lentamente parte integrante del tessuto urbano -, come polisportiva nel 1885 (la sezione calcistica verrà aperta nel 1901), cominciò ad acquisire risultati e notorietà da inizio anni ’50, quando il governo la scelse come squadra rappresentativa del Ministero degli Interni, cambiando il nome in Budapesti Dózsa SK (omaggiando György Dózsa, contadino a testa delle rivolte contro la nobiltà nel 1514) e il logo, che venne rimpiazzato dalla classica D sormontata da una stella rossa, tipica di tutte le squadre poliziesche sovietiche, generalmente caratterizzate dal prefisso Dinamo.

Ancora una volta, dunque, la contrapposizione al Ferencvàros assume dei risvolti sociali e politici, che portano il club lontano dai grandi palcoscenici calcistici e che andranno diradandosi soltanto negli anni successivi alla Rivoluzione Ungherese (1956), quando i Fradi torneranno ai vertici anche grazie al talento di Florian Albert, unico ungherese in grado di vincere il Pallone d’Oro. Si accende quindi la rivalità sportiva con un’Újpest in grado di farsi conoscere anche a livello internazionale con due semifinali di Coppa Campioni (1974) e Coppa Coppe (1962), perse rispettivamente contro Bayern Monaco e Fiorentina, e una finale di Coppa delle Fiere persa contro il Newcastle.

Il crollo del sistema comunista nel 1989 oltre a restituire il nome originale di Újpest TE (Torna Egylet, letteralmente “Società Sportiva”), ha portato i Lilàk quasi sul lastrico, non potendo più contare su alcun finanziamento statale. Un arrancare che si protrae parzialmente anche ai giorni nostri, con il club ormai da diversi anni impantanato nelle zone basse della classifica e gestito da cordate tutt’altro che sane e operose. Il derby di oggi, non a caso, sarà una perfetta cartina al tornasole di tutto ciò.

A margine della doverosa descrizione trasversale di società e calcio budapestino, appare dunque palese che anche il tifo organizzato abbia sviluppato la propria crescita e il proprio modus operandi in riva al Danubio. Quando si parla di ultras e Ungheria si tende grossolanamente a ridurre il tutto a uno spettacolo in cui la retorica nazionalista funge da primo ingrediente mentre le restanti componenti rimangono indietro, quasi per dovere di firma. Mi sento di dire che le cose vadano un po’ diversamente da come sembrano.

Negare il conservatorismo di un popolo come quello magiaro sarebbe certamente anti-storico e non veritiero, ma di ogni azione e di ogni comportamento bisognerebbe sempre conoscerne le radici e le motivazioni (è lapalissiano come in ogni Paese europeo e non, in seguito a una dittatura, ogni movimento giovanile assuma una connotazione politica contraria alla stessa, per mero effetto di rivolta). La commistione politica/ultras è un dato di fatto (sebbene la maggior parte delle tifoserie locali da qualche anno abbiano rinunciato a simbologie marcate in favore di un discorso più aggregativo e Curvaiolo), ma posso dire con una certa sicurezza che alla base di tutto ci sia una mentalità non molto distante dalla nostra e ben diversa – ad esempio – da ciò che oggigiorno possiamo trovare in aree “novelle” in fatto di tifo come Polonia e Russia.

Non va dimenticato che soprattutto le tifoserie di Budapest hanno ormai una loro tradizione consolidata, che non ha conosciuto l’alba esattamente qualche giorno fa. Pertanto qui non troverai stuoli di palestrati ricolmi di anabolizzanti o gente che tifa in maniera robotica, più per recitare un copione che per seguire una passione. E ammetto che io stesso sono partito dall’Italia con un pizzico di preconcetto, avendo il timore di trovarmi di fronte a un qualcosa di artefatto. Senza anima.

Certo, fatta eccezione per i derby e le partite europee, è difficile attendersi stadi sempre pieni. Del resto parliamo di un torneo nazionale non in grado di attirare grandi attenzioni, composto da dodici squadre, con tentatré giornate complessive e confronti che diventano dunque monotoni. Inoltre non eccelle certo per contenuto tecnico e competitività. Ma questo è un male che – a pensarci bene – non si discosta tanto neanche dalla nostra Italia. Unica discriminante, non da poco, il numero di abitanti, metropoli e concentrazione nelle aree rurali che da noi è praticamente maggiore di quasi sei volte.

Il primo derby stagionale è fissato per le 18:30 di domenica 4 settembre. La stracittadina, però, inizia molto prima. I Green Monsters (gruppo portante della curva dei Fradi) si sono dati appuntamento alla fermata metro Újpest Városkapu alle 14:30, per raggiungere lo stadio Ferenc Szusza con un corteo. Quando parliamo di questo gruppo penso sia necessario sottolineare la sua genesi dal 1995 a oggi. Un percorso che sicuramente è stato tra i più importanti d’Ungheria (anche grazie alle diverse opportunità di confronto col resto d’Europa) e che dal 2013 al 2017 ha conosciuto una parziale interruzione causa repressione. Sì, repressione in Ungheria. Anche i ciechi sostenitori del “All’est fanno ciò che vogliono” debbono infatti ricredersi.

Ne abbiamo parlato già in passato (qui e qui) del tentativo del Ferencvàros di imporre una vera e propria tessera del tifoso che permetteva l’accesso alla nuova Groupama Arena solo previo riconoscimento biometrico (qui un’intervista ai Green Monsters durante il boicottaggio). Una lotta intestina con il presidente Gábor Kubatov (impegnato anche politicamente e braccio destro del presidente Orban) che ha trovato termine soltanto con il dialogo tra le parti, da cui si è deciso di inserire una delegazione degli ultras nel consiglio del club – in maniera da prendere parte alle riunioni sulla gestione della sicurezza e più in generale dei tifosi – e permettere il loro rientro a patto che almeno 500 Curvaioli sottoscrivessero la tessera con riconoscimento biometrico, mentre per i restanti si è predisposta un’altra card slegata da questo sistema. Si è inoltre istituito un servizio d’ordine interno, la Fradi Security. Presente anche oggi nel corteo e alquanto inquietante alla vista.

Sul ritorno dei GM allo stadio consiglio la lettura della una lunga intervista rilasciata dal loro capo. Tralasciando tutte le perplessità personali sulla pesantezza che anche questo accordo ha lasciato e non conoscendo comunque l’attuale situazione, mi preme sottolineare anche in questa sfaccettatura come il fil-rouge con determinati aspetti italiani sia alquanto evidente. E ovviamente immagino che da straniero mi sfuggano determinate sfumature e dinamiche, che hanno portato gran parte degli ultras a prendere questa decisione (sebbene in passato non siano mancate risse e tensioni interne con l’ala più oltranzista).

Quando l’orologio segna le 13:30 decido di dirigermi verso il luogo dell’appuntamento. Da Piazza degli Eroi mi basta prendere un comodissimo autobus che in meno di mezz’ora mi porta a qualche centinaia di metri dalla stazione dove sono radunati i Fradi. Poco prima di arrivarvi vengo fermato dal cordone di polizia, a cui molto tranquillamente spiego di essere un fotografo mostrando attrezzatura e tessera stampa, riuscendo a passare senza particolari problemi.

Alle 14:30 in punto il serpentone biancoverde si muove alla volta dello stadio. Come detto in precedenza, c’è un po’ di tutto: ragazzini, ragazze, signori attempati, palestrati e pivelli. Ordinati ma non schematizzati, chiassosi ma non computerizzati. Ci si inoltra per le strade di Újpest e quasi subito realizzo piacevolmente di essere in una Budapest ben diversa da quella lussureggiante e sfarzosa del centro. Meno bella, ma sicuramente più autentica. Di tanto in tanto alcuni palazzoni sovietici si stagliano davanti ai miei occhi, mentre la polizia – davanti al corteo – rimbrotta le persone affacciate alle finestre con sciarpe viola, invitandole a rientrare in casa per non provocare i Fradi. Dal canto loro gli ultras si districano per le strade con fumogeni e cori. Da quel poco che posso intuire il canto più gettonato comprende le parole “Újpest e tzigano“. Dev’essere un’offesa abbastanza comune in Ungheria.

La polizia controlla da lontano, mentre la Fradi Security cammina quasi a braccetto con le prime file. Sebbene è palese che non ci saranno problemi, il clima che si respira è comunque frizzante. Si intuisce che – porto un altro esempio di vita vissuta – a differenza di derby come quello di Sofia, qua tra le controparti non esiste un patto di non belligeranza in determinate occasioni e, per quanto non ci siano problemi nel fotografare e riprendere la “passeggiata”, il tutto avviene con molta naturalezza, senza la plateale voglia di mettersi in mostra e ritagliarsi lo spazio in qualche copertina di giornali o siti ultras.

Quando mi appare ormai prossima la sagoma dello stadio Ferenc Szusza (intitolato a uno dei più grandi marcatori del calcio nazionale) il corteo vira verso gli ingressi, mentre io proseguo dritto andando alla scoperta del lato dell’impianto frequentato dai tifosi di casa. Inaugurato nel 1922 col nome di Megyeri úti Stadion (Stadio di Via Megyeri, dal nome della strada su cui sorge), ristrutturato nel 2001 e ribattezzato con l’attuale nome nel 2003, il Szusza trasuda genuinità da tutti i pori. Sin dal primo angolo che giro venendo dall’entrata ospiti: ragazzi e signori con la sciarpa viola al collo sono intenti a ingollare birre comprate da un negozietto che sembra esser uscito direttamente dagli anni settanta. Non ho voglia di birra – la troppa Pálinka della sera precedente ancora circola nelle vene – ma non posso evitare di entrare in quel microcosmo. Mi concedo un Kéfir (bevanda lattiginosa fermentata diffusa in molti Paesi dell’ex blocco sovietico) e vengo ovviamente squadrato e sfottuto come il più ingenuo dei lattanti. Ci sta.

Tiro avanti e sempre più viene confermata la sensazione di un ambiente familiare, tra bancarelle rudimentali, “nocciolinari” e tifosi che entrano alla rinfusa. Come hanno annunciato attraverso le loro pagine social, gli Ultras viola festeggiano oggi i trent’anni di militanza. Ricorrenza che sarà onorata con una coreografia e che ovviamente mi incuriosisce e non poco. Se i Green Monsters hanno quantomeno avuto la fortuna di vedere una squadra vincente e competitiva negli ultimi decenni, lo stesso non si può dire per i supporter liliák. L’ultimo titolo conquistato risale addirittura alla stagione 1997/1998 (ventesimo titolo) mentre – oltre a qualche coppa nazionale – il cammino sportivo degli ultimi venticinque anni è stato alquanto avaro di soddisfazioni. Mi permetto di dire che in campionati come quello ungherese, se non si riesce ogni tanto ad avere lo stimolo del confronti internazionali o almeno della vittoria, dev’essere davvero difficile portare avanti un discorso ultras senza cadere nella depressione.

Tuttavia oggi è una di quelle giornate in cui i numeri non mancheranno, così dopo aver fatto l’ultimo giretto decido di ritirare il mio accredito e fare il mio ingresso. Se l’ambiente esterno mi ha soddisfatto, altrettanto posso dire dell’interno. Il Szusza è un impianto raccolto, con i suoi 13.501 posti coperti e con i suoi seggiolini viola a restituire un’immagine di cosa semplice ma ben fatta. Senza troppe contaminazioni commerciali ma con un’anima proletaria e operaia che ancora resiste alla grande.

Quaranta minuti prima del fischio d’inizio le due curve sono piene e già intente a insultarsi. Cosa che ovviamente non può che piacermi. Mi concedo un paio di giri attorno al campo per capire quale sia la migliore angolazione da cui scattare. Alla fine opto per la tribuna dirimpetto a quella stampa. Non siamo in Italia e ovviamente nessuno si sognerà di sbattermi dietro alle porte o limitare il mio spazio di movimento. Cosa che ormai non avviene solo in A, ma anche in partite di Serie C con neanche mille spettatori. Quindi anche volendo giustificare queste pratiche con la differente importanza di campionati, dicendo ciò lascio intendere il perché il nostro pallone sia ormai morente da anni e sempre più in mano a burocrati da quattro soldi.

Alle 18:30 il sole splende alto e punta proprio verso di me, costringendomi agli straordinari per scattare senza troppa luce invadente e dandomi l’illusione di essere su una qualsiasi spiaggia italiana anziché nel cuore dell’Europa.

Le due squadre fanno il loro ingresso in campo e si dispongono orizzontalmente mentre gli altoparlanti irrorano le note dell’inno ungherese. Dalla Curva del Ferencvàros si alza densa una fumogenata con i colori sociali mentre dall’altra parte si issa la succitata coreografia per i trent’anni del tifo viola, seguita poi da un’altrettanto intensa fumogenata. Cosa dire? Come inizio non c’è male!

Piccola curiosità: un po’ come in tutte le Curve europee anche da queste parti i direttivi si sono presi la briga di indicare un colore unico con cui vestirsi il giorno del match. Non a caso in tutti i messaggi con cui si richiama la gente allo stadio viene indicato il dress code da seguire. In questo caso Fekete (nero) per i Fradi e Fehér (bianco) per i Liliàk.

Ora, per descrivere il tifo debbo partire da un dato imprescindibile. Il match finirà 0-6, con i padroni di casa sotto di quattro gol già all’intervallo. Per quanto il compito degli ultras sia quello di andare oltre le sconfitte e sostenere a oltranza, penso che chiunque – soprattutto con il recente retroterra storico dell’Újpest – avrebbe subito il contraccolpo psicologico e dato in escandescenza. Prendere sei reti dall’avversario di sempre, oltretutto in casa, è un’umiliazione storica che difficilmente verrà cancellata. Una batosta che ha costretto il club a cambiare persino il nome della rivista ufficiale, Hatnull (che in ungherese, destino beffardo, significa proprio 6-0). In una nota pubblicata nei giorni successivi alla debacle si legge: “La nostra rivista gratuita ha portato con orgoglio il nome Hatnull per 12 anni, ma dopo il Derby del 4 settembre abbiamo deciso di cambiare nome. Avevamo bisogno di un nome che irradiasse forza, restituisse fiducia in sé stessi e fede, e allo stesso tempo ricordi immediatamente a tutti Újpest. Quindi non potrebbe essere altro che l’anno di fondazione della nostra associazione, ovvero il 1885!“.

Ciononostante devo riconoscere agli ultras di casa di aver saputo tenere botta almeno fino al gol del 5-0, a metà secondo tempo. I viola hanno colorato il proprio settore con diversi stendardi e bandiere, tifando e cercando quantomeno di salvare l’onore, che veniva puntualmente calpestato in campo da undici giocatori a dir poco spaesati. Un tifo, comunque, di chiaro stampo italiano. Seguito in maniera sincrona da tutti e coronato a inizio ripresa da una bellissima torciata.

Da spettatore neutro e da amante del calcio ho provato una vena di tristezza nel pensare a ciò che i tifosi dell’Újpest possano aver provato durante questi novanta minuti. Inevitabile e comprensibile, dopo la sesta marcatura avversaria, il gesto di togliere gli striscioni e contestare pesantemente la società, in primis il presidente belga Roland Duchâtelet. Accusato ormai da tempo di usare il club come una “lavatrice” di soldi, senza guardare minimamente all’aspetto sportivo e alla sua tradizione. Anche io sono costretto a cambiare lato del campo, scambiato da qualche supporter locale per fotografo degli ultras ospiti e preso di mira da noccioline e cartoccetti (sic!).

Ovviamente se su fronte viola la giornata verrà ricordata come una delle più brutte nella lunga storia della società, per i tifosi del Ferencvàros è festa grossa. La quantità di torce e fumogeni accesi è talmente ingente da farmi recuperare tutti gli spettacoli pirotecnici non visti in Italia negli ultimi dieci anni e, di conseguenza, anche il tifo risulta davvero bello, coinvolgente e potente. Nota a margine: da quanto ho capito anche in Ungheria la pirotecnica è vietata, ciononostante c’è un margine di tolleranza nei big match, in cui i club accettano di pagare eventuali sanzioni. Sempre che non venga lanciato nulla in campo.

Come prevedibile in questi casi gli sfottò verso l’avversario morente sono taglienti e continui. Fa parte del gioco e fondamentalmente sembra pure interessare poco ai tifosi dell’Újpest, più impegnati a inveire contro una dirigenza che ne sta annichilendo storia e tradizione.

Sicuramente anche grazie al buon trend calcistico, mi sembra di percepire che al momento quella del Ferencvàros sia la tifoseria più in forma e granitica del Paese. Ennesima conferma di quanto anche i risultati abbiano la loro importanza nella vita dei gruppi e nel fattore aggregativo.

Al triplice fischio animi opposti e squadra di casa prima chiamata sotto al settore e poi invitata a togliersi le maglie. Diciamo che in genere trovo un po’ patetici determinati atteggiamenti, ma in questo caso davvero non me la sento di criticare. Le divise vengono successivamente appese alla cancellata della Curva al rovescio, in chiaro segno di spregio.

Resto ancora un po’ in campo, per poi riconsegnare la pettorina, riprendere il mio documento e avviarmi verso l’uscita. Ma prima di raggiungere la fermata dell’autobus l’ultimo sussulto: un nutrito gruppetto di ultras viola è riuscito a forzare un cancello, facendo irruzione nei pressi degli spogliatoi. La polizia riesce ad arginare il tutto davvero per un nulla, rispedendo indietro gli ultras e salvando, probabilmente, la pelle a giocatori e dirigenti.

È ora di tornare in centro. Salendo sul bus stracolmo vedo le facce appese dei tifosi dell’Újpest, mentre un signore sulla settantina con la sciarpa al collo continua a urlare qualcosa di incomprensibile al compagno di stadio seduto di fronte a lui.

Per chiudere la giornata mi concedo una tranquilla cena ungherese a base di gulyás, lángos (una succulenta pizza fritta con sopra i più disparati formaggi e salumi) e birra locale. Sono in pieno centro e la Budapest signorile è tornata davanti ai miei occhi, con il suo flusso turistico che ora impegna locali e bar. Cammino lungo il Danubio dalla parte di Pest, volgendo il mio sguardo al Castello di Buda che ora con la notte si illumina imponente riflettendo le proprie luci sul largo letto del fiume.

Non mi basterà solo questa partita per conoscere l’anima calcistica di questa città. Un posto che va scandagliato e in cui vanno cercati i più primordiali spiriti di vita, per far emergere storie di uomini ma anche di un pezzo importante della nostra civiltà continentale. Al netto di ogni preconcetto che si possa avere, per sgomberare la mente e immagazzinare nuovi punti di vista occorre vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie. Peccato che nella vita quasi tutti abbiamo sempre troppo poco tempo per conoscere almeno buona parte di quello che ci circonda.

Simone Meloni