Erano passati tredici anni dall’indipendenza quando a Bissau due genitori figli della violenza diedero alla luce un bambino libero. Le catene del colonialismo spezzate dalla dirompente eco di quei garofani d’aprile rossi come il sangue versato da secoli dagli schiavi prelevati con forza dalla loro terra madre. L’infante prese il nome di Éderzito António Macedo Lopes, e diventerà un discreto attaccante di professione ed eroe per una notte lunga come la Storia di due continenti, grazie a quell’imprevedibile macchina da scrivere del poeta che molti chiamano Destino.

Le guerre civili avevano contraddistinto la sua infanzia, palleggiando con la spensieratezza che solo i bambini posseggono nonostante tutto intorno a loro imponga di non scherzare, di non giocare, di non sognare. Eppur sognava Éderzito, forte di una crescita fisica dirompente e un raro rapporto con l’amata sfera per un figlio di quella piccola nazione che guarda l’Atlantico volgendo le spalle al colosso Senegal. La palla come medicina per la paura, il calcio come un aquilone da inseguire senza chiedersi perché e un viaggio in direzione Portogallo alla tenera età di undici anni, per soddisfare un istinto primordiale, fanciullesco: il sogno. Sperava di emulare i campioni che vedeva in bianco e nero attraverso un tubo catodico, lo desiderava così tanto da convincere mamma e papà a partire alla volta di Ademia, dove Éderzito iniziò ad allenarsi con l’Associaçao Desportiva e Cultural. Mentre nel suo paese d’origine continuavano ad imperversare le lotte intestine, quel giovanotto dalla folta e riccia chioma trovava nella terra simbolo dello sfruttamento imperialista una scala verso il Paradiso calcistico, bussando alle sue porte con la sfrontatezza tipica di ragazzo.

I più alti li mettono sempre in attacco quando si è piccoli e lui là davanti a tutti ci sguazzava come una ‘dourada’ lungo le coste di Faro. La trafila giovanile, l’esordio in Primeira Liga, la soddisfazione della prima rete, il primo titolo con l’Academica e poi quello con il Braga, l’Europa calcistica, l’avventura gallese con i cigni di Swansea e per ultimo il trasferimento a Lille. Queste le tappe più significative della carriera di Éderzito António Macedo Lopes, divenuto semplicemente Éder per quel mondo che considera le annate in base ad un calendario che va da settembre a luglio, per poi ripartire.

Almeno fino a ieri sera, teatro della rappresentazione lo Stade de France – l’impianto in cui alcuni mesi fa con la maglia di club sfiorò la vittoria della Coppa, finita nella stracolma bacheca del colosso mangiatutto PSG. Il destino aveva scelto lui, senza un perché, nessuna domanda e solo una risposta. Lui non lo sapeva, Cristiano Ronaldo a detta sua sì. Secondo tempo supplementare della finale di Euro 2016, minuto 109. Stop a seguire per resistere alla carica di Koscielny e aggiramento degli accorrenti avversari transalpini, l’amico pallone sempre vicino al piede destro e botta di collo dai venticinque metri in diagonale con la sfera che si insacca alle spalle dell’estremo difensore. Prima rete in una partita ufficiale con la maglia del Portogallo. Sì, proprio con i lusitani, perché Éderzito ha deciso alcuni anni fa di rappresentare quella nazione a causa delle innumerevoli assenze della Guinea-Bissau dalle competizioni ufficiali per colpa dell’odio tra fratelli di sangue. Un controsenso dell’anima trasformatosi in una lezione di vita. Il ragazzone nero dalle terre colonizzate subentrato dalla panchina per regalare agli ex coloni il primo titolo di sempre, mostrando quel guanto bianco simbolo di rivincita noto con il nome di ‘bofetada de luva braca’, . Ma soprattutto l’eroe di un popolo intero che ieri notte, nella buia e stellata Bissau, avrà esclamato a gran voce: “Lo vedete cari portoghesi, senza di noi non avreste ottenuto nulla!”.

Éderzito come Yazid, ragazzo dal sangue algerino che nel 1998 in quello stesso stadio regalò alla Francia il titolo di campione del Mondo. Era nato Yazid, ma tutti lo chiamavano semplicemente Zizou. A Bissau è notte fonda, anche se qualcheduno sarà incollato alla televisione, riguardando con gli occhi sognanti le gesta di quel figlio di mamma Africa. In fondo ci sono ancora tanti bambini in pronti a dare un calcio e una lezione di vita alla vecchia idiozia figlia del colonialismo.

Gianvittorio De Gennaro